Dracula/IV
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CAPITOLO IV.
Giornale di Jonathan Harker.
(Continuazione.)
Mi sono svegliato nel mio letto. Ho sognato o no? I miei vestiti sono piegati in modo diverso dalle altre sere ed il mio orologio non fu rimontato, mentre io non dimentico mai questo rito. Sono indizii? In ogni caso se il Conte mi ha egli stesso svestito e coricato come un bimbo doveva aver molta fretta poichè non ha frugato nelle mie tasche. Ho ritrovato il mio giornale intatto.
Riprendo possesso con gioia della mia stanza. È il mio solo rifugio. Non lo lascerò più ormai, non ci tengo a rivedere le orribili donne che volevano succhiare il mio sangue.
18 maggio.
Di giorno, tuttavia, bramoso di conoscere la verità, sono ritornato alla piccola stanza ma non potei entrarvi, la porta essendo chiusa a chiave. Ho paura di non aver sognato.
19 maggio.
Iersera, il Conte mi pregò con tono soave di scrivere tre lettere ad Hawkins: la prima per informarlo che il mio lavoro era quasi finito e che fra poco mi sarei messo in viaggio. La seconda per dire che partivo il giorno stesso, e la terza attestante che avevo lasciato il castello ed ero giunto a Bistritz.
Sono stato lì lì per sottrarmi, ma a che pro’! Il mio rifiuto sveglierebbe i sospetti ed il furore del Conte. Ne so già troppo per la mia salvezza.
— I corrieri — diss’egli — sono scarsi ed incerti e voi arrischiereste di non spedire queste lettere a tempo e d’inquietare i vostri amici. Le manderò io all’ora giusta. Quest’ultima non partirà che quando avrete lasciato il castello.
Finsi di non dubitare delle sue parole.
— Che data devo mettere a queste lettere? — chiesi.
Fece rapidamente un calcolo:
— La prima al 12 giugno: la seconda al 19 e la terza al 29 giugno.
So adesso quanti giorni di vita mi rimangono! Che Dio mi protegga!
28 maggio.
C’è per me una probabilità di salvezza. Una banda di zingari si accampa a’ piedi del castello; scriverò alcune lettere ai miei e le consegnerò a loro. Ho già parlato loro dalla mia finestra, abbiamo fatto conoscenza per mezzo di segni.
Ho scritto a Mina in caratteri stenografici e avverto mister Hawkins ch’essa gli darà mie notizie. Spiego a Mina la mia situazione, attenuandone l’orrore per non spaventarla troppo. Ho lanciato agli zingari le lettere, facendo scivolare entro un’altra busta per loro una moneta d’oro. L’uomo le ha messe nella sua cintura e mi ha fatto capire che m’avrebbe obbedito. Non posso fare altro.
29 maggio.
Stamane sono stato alcune ore nella biblioteca a leggere.
Il Conte è venuto a raggiungermi; teneva in mano due lettere.
— Gli zingari mi hanno dato questo — disse con voce dolce: — non so donde vengano. (E strappò le mie lettere). To’, voi avevate scritto a Pietro Hawkins! L’altra (non potè decifrarne i caratteri ed il suo viso s’oscurò) l’altra oltraggia l’amicizia, d’altronde non è firmata, non provo nessuno scrupolo a bruciarla.
E tese la carta alla fiamma che la consumò.
— Spedirò la lettera ad Hawkins — disse. — Scusatemi, amico mio, d’averla dissuggellata, ignoravo che fosse vostra. Volete rifare la busta?
Obbedii, con la rabbia nel cuore.
Egli la portò via e udii la chiave girar nella serratura. Mi chiude dentro, è il colmo.
Rassegnato, mi stesi sul divano e m’addormentai.
Due ore dopo, il Conte venne a svegliarmi. Pareva d’eccellente umore.
— Cadete dal sonno — mi disse — andate a riposare nella vostra stanza. Intanto io lavorerò.
Seguii il consiglio e, cosa strana, non appena disteso, m’addormentai d’un sonno profondo.
31 maggio.
Svegliandomi, ebbi l’idea di munirmi di carte e buste per approfittare della prima combinazione che mi si presentasse. Ma ahimè! ebbi un bel mettere a soqquadro la mia sacca da viaggio: tutte le mie carte erano scomparse: orari ferroviari, lettere di credito, tutto ciò che poteva essermi utile.
Apersi allora le valigie: l’abito da viaggio era scomparso, come il mio pastrano e il completo di ricambio.
17 giugno.
M’ero appena alzato quando udii nella corte uno schioccar di fruste e un rumor di zoccoli. Mi precipitai alla finestra e due grandi furgoni tirati ognuno da otto solidi cavalli e condotti da due slovacchi con grandi cappelli calcati sulla testa, cinture di cuoio e stivaloni alti. M’avventai alla porta per correr giù dalle scale e, approfittando del fatto che la porta d’entrata era spalancata, scivolar fuori ma... la mia porta è chiusa all’esterno.
Allora mi sono chinato alla finestra lanciando alte strida. Quei contadini m’han guardato con aria stupida. Il capo degli zingari si avvicinò a loro dicendo qualche cosa che li fece ridere. Si voltarono subito e nè le mie grida nè le mie suppliche li impietosirono; m’ignoravano volontariamente.
I furgoni contenevano dei grandi cofani legati colle corde. Senza dubbio erano vuoti poichè gli slovacchi li sollevavano senza difficoltà. Furono deposti in un angolo della corte; lo zingaro diede del denaro a quegli uomini che sferzarono i cavalli e s’allontanarono.
24 giugno all’alba.
Iersera il Conte mi lasciò di buon’ora. Non appena solo, scesi la grande scalinata di pietra e ripresi il mio posto d’osservazione accanto alla finestra che dà sull’ala sud.
Gli zingari sono alloggiati in una parte del castello e lavorano per il Conte a qualche cosa che ignoro. Odo talvolta, attutiti, colpi di zappa o di vanga. Che cos’altro ancora preparano?
A capo d’una mezz’ora, vidi aprirsi la finestra del Conte e una forma strisciar sul muro. Indossava i miei vestiti da viaggio ed aveva sulla spalla il sacco di cui s’erano impadronite le tre donne.
Dunque si affibbia i miei vestiti perchè la gente mi attribuisca i suoi delitti e possa certificare che non sono prigioniero!
Con la rabbia nel cuore, ho deciso d’aspettare il suo ritorno e mi son seduto sopra un gradino della scala. L’abbaiar d’un cane m’ha fatto trasalire. Che cosa sono quelle forme? Mi par di riconoscere le tre donne! Davvero, divento pazzo. Mi alzo bruscamente e raggiungo in fretta la mia stanza.
Finalmente respiro! La lampada rischiara dolcemente la stanza e mi sento al sicuro.
Qualche ora trascorse, poi odo un rumore venir dalla stanza del Conte e un gemito che mi stringe il cuore. Il silenzio ritorna. Tento d’aprir la porta: è chiusa. Allora mi son seduto e ho pianto come un bambino.
Un grido nella corte. Mi precipito alla finestra: una donna come impazzita scuote il cancello, urlando:
— Mostro! rendimi il mio bambino!
Mi scorge, si butta a ginocchi, alza le braccia come per implorarmi e ripete quella supplica che mi strazia. Si strappa i capelli, si lacera il petto e cerca invano di smuovere la porta.
Dominando quelle grida, odo un fischio prolungato al quale risponde l’abbaiar dei lupi.
Dopo alcuni minuti, ne distinguo le forme magre. S’avvicinano alla donna che non tenta neppure di fuggire.
Indovino la sorte del suo fanciullo e non la compiango: meglio per lei morire!
25 giugno, mattina.
Coloro che non hanno conosciuto le angoscie di una notte tragica ignorano la dolcezza dell’alba.
Il sorger del sole scaccia i miei timori. Voglio agire per non pensare. La prima lettera venne spedita ieri.
Non ho ancora veduto il Conte durante il giorno. Dorme quando gli altri si alzano? Se almeno potessi sorprenderlo nella sua stanza! Ma il mezzo? La sua porta è sempre chiusa?
Sì, tuttavia c’è un mezzo, ma oserò impiegarlo? Perchè non seguirei la via che fa lui ogni notte? Striscerò lungo il muro e m’introdurrò nella sua stanza, dalla sua finestra. Che cosa arrischio, dopo tutto? poichè la morte m’aspetta in ogni modo. Addio, Mina. Ti rivedrò?
Qualche ora dopo.
Grazie a Dio, eccomi di ritorno sano e salvo, nella mia stanza! Posso stendere la relazione, nel mio giornale, della straordinaria spedizione.
Senza indugiarmi a riflettere, sono scivolato fuori, dalla finestra della scala. Le enormi pietre da intaglio mi servirono da scaglioni; m’ero tolto le scarpe. Per fortuna, non patisco le vertigini.
Potei giungere alla finestra del Conte. La stanza è vuota. Ha un mobilio sommario e non sembra abitata poichè gli oggetti sono coperti di polvere. In un angolo, un grosso mucchio d’oro, monete d’ogni sorta, romane, inglesi, austriache, ungheresi, greche e turche, vecchie d’un secolo circa. Anche alcune pietre preziose. Nel fondo, una porta massiccia che alla spinta si aperse. Conduce, per mezzo d’un corridoio, ad una scala a chiocciola piuttosto ripida; sono sceso con prudenza per via dell’oscurità, bucata a malapena qua e là da alcuni pertugi praticati nel muro.
Gli ultimi gradini conducono ad un sotterraneo donde sale un odore insipido di terra rimossa di fresco. Pochi passi ancora e cado entro una cappella in rovina di cui s’è fatto un cimitero. La vôlta, in due punti, lascia scorgere il cielo. Riconosco i cofani portati dagli slovacchi: sono pieni di terra. Non c’è altra uscita all’infuori di quella dalla quale sono venuto. Delle nicchie si aprono nel muro; discerno nelle prime degli avanzi di bare. Nella terza... steso sopra uno dei cofani pieni di terra... il Conte!
Sembra morto ma i suoi occhi fissi e spalancati non hanno lo sguardo vitreo dei morti; le sue guancie sono pallide e le labbra rosse. Mi curvo verso di lui; non respira più e il suo cuore non batte.
Mi accingevo a esplorare le sue tasche per trovarvi le chiavi del castello; ma benchè fosse incosciente della mia presenza, lessi ne’ suoi occhi una tale sguardo di odio che fuggii spaventato e raggiunsi la stanza dalla strada che m’aveva condotto.
Mi gettai rabbrividendo sul letto.
29 giugno.
Oggi la mia ultima lettera partirà. Ho veduto il Conte uscir dal castello, dalla finestra, sempre indossando i miei vestiti. Non penso più che a procurarmi un’arma da fuoco per sparargli addosso. Ma temo assai che le palle siano senza effetto sopra questo demone.
Non volli spiare il suo ritorno dalla scala per tema d’incontrare le tre sorelle. Mi insediai nella biblioteca con un libro e non tardai ad addormentarmi. Fu il Conte a svegliarmi. Mi contemplava con inesprimibile amarezza.
— Amico mio — mi disse, — domani ci lasceremo. Ritornerete nella vostra bella Inghilterra. Ho fatto partire la vostra lettera. Domani sarò assente, ma tutto sarò pronto per la vostra partenza. La vettura verrà a prendervi e vi condurrà al Passo del Borgo ove troverete la diligenza che va da Bukovina a Bistritz. Spero bene di rivedervi qui un giorno.
Queste parole non mi rassicurarono che a metà e, per provare la sua sincerità, chiesi:
— Perchè non posso partire stasera?
— Perchè, caro signore, cocchiere e cavalli sono assenti.
— Ma camminerei volentieri. Preferirei partire subito.
Egli ebbe un sorriso melato e diabolico che conoscevo fin troppo:
— E i vostri bagagli? — obbiettò.
— Li farò prendere più tardi.
Egli s’inchinò cortesemente:
— Come vorrete, mio giovine amico, non voglio trattenervi vostro malgrado, per triste che mi faccia la vostra insistenza. Venite dunque!
Prese la lampada con gesto solenne e mi precedette fino al basso della scala, nell’hall d’entrata.
A un tratto si fermò.
— Udite! — disse.
Udii l’abbaiar dei lupi, vicinissimi. S’accordavano insieme, come i violini d’un’orchestra quando il direttore alza la sua bacchetta. Il Conte tirò i catenacci, fece cader le catene. La porta s’aprì da sola.
L’abbaiare raddoppiò e vidi luccicare occhi feroci e denti di belve. Capii che sarebbe inutile lottare col Conte. Con alleati simili, era onnipotente. Allora un presentimento orribile attraversò la mia mente: il Conte aveva deciso la mia morte e formava il piano di darmi in pasto ai lupi.
— Chiudete la porta! — esclamai — aspetterò fino al mattino.
Mi copersi il viso colle mani per nascondere le lagrime. Il Conte mi contemplò con ironia, rinchiuse la porta e mi seguì nella biblioteca. Ve lo lasciai per fuggirmene nella mia stanza.
A capo di alcuni minuti, udii un mormorio dietro la porta. Incollai l’orecchio alla serratura e mi parve udire la voce del Conte.
— Indietro, la vostra ora non è ancora venuta. Pazienza, egli vi apparterrà domani sera.
Con un gesto brusco, spalancai la porta e vidi le tre terribili sorelle che alla mia vista scoppiarono in una risata e si diedero alla fuga.
Domani! Domani! La mia fine è dunque così prossima?
30 giugno. Di mattina.
Ecco forse le ultime righe che potrò scrivere.
Mi sono svegliato al canto del gallo e, col cuore alleggerito, sono sceso nell’hall. Poichè la porta non era chiusa a chiave la vigilia, certo potrò fuggirmene. Ho tirato i catenacci pesanti e fatto cadere le catene. Ma la porta non si è mossa. Ho tirato, tirato con tutte le mie forze. Invano.
Allora ho deciso di procurarmi la chiave a qualunque costo. Scivolerò ancora nella stanza del Conte. Arrischio la morte; tanto peggio! Questa angoscia è intollerabile.
Sono strisciato lungo il muro, introducendomi dalla finestra. La stanza del Conte è vuota. Dalla scala a chiocciola giungo al passaggio sotterraneo e alla vecchia cappella. La grande bara è sempre nella sua nicchia, ma stavolta il coperchio è abbassato. L’ho sollevato pianamente: bisogna pure che frughi nelle tasche del mio nemico. Lo spettacolo che m’appare mi terrifica.
E il Conte, sì, ma ringiovanito: i capelli e i baffi bianchi sono ridiventati grigi, le guancie sono più rotonde, la carnagione è più chiara, la bocca più rossa; sugli angoli della bocca, sul collo e sul mento, alcune goccie di sangue si sono seccate. Ho toccato i suoi vestiti con inesprimibile repulsione; ho frugato le sue tasche, non ho trovato la chiave. Il Conte mi contempla con un sorriso beffardo. Ecco dunque il mostro che io aiuto ad attirare a Londra ove commetterà altri delitti. No, no, non è possibile! Bisogna che ne sbarazzi il mondo. Bisogna che questo uomo perisca.
Non ho armi, ma ecco una vanga, scordata senza dubbio da uno degli operai. Brandisco l’arnese, sto per colpirlo in viso... In quel momento, il Conte volge il capo e mi volge uno sguardo di orrore. I suoi occhi mi affascinano e paralizzano il mio gesto. La vanga mi sfugge dalle mani e cade sul coperchio che si riabbassa con un rumore secco.
Che fare? Odo a un tratto delle voci, dei canti, uno scoppiettar di frusta, uno stridere di ruote. Gli zingari, senza dubbio. Scivolerò fuori, quando apriranno. Ritorno in fretta nella stanza del Conte. Tendo l’orecchio. Una grossa chiave stride in una serratura. Si direbbe che la porta si apra dalla parte della cappella. Dei passi scalpicciano. C’è senza dubbio nel castello un’entrata ch’io non conosco. Torno nel sotterraneo, ma, in quel mentre, una brusca ventata rinchiude la porta che dà sul cimitero. Eccomi prigioniero!
Odo nella cappella degli scalpicci, dei colpi di martello; si direbbe che inchiodano dei coperchi. La porta si è richiusa; ho udito nuovamente stridere la chiave nella serratura.
Dalla corte giunge fino a me lo scoppiettio delle fruste e il cigolar delle ruote che s’allontanano. Sono solo nel castello con quelle orribili donne.
Bisogna, bisogna che trovi il mezzo di fuggire.
Mi riempirò le tasche d’oro, poi mi lascierò scivolare lungo il muro. Se sfuggo, raggiungerò la stazione più vicina e mi allontanerò da questo luogo maledetto ove i demoni hanno viso umano. Arrischio di uccidermi nella caduta, ma preferisco questo genere di morte a quello che mi aspetta.
Arrivederci, Mina!