Dracula/III
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CAPITOLO III.
Giornale di Jonathan Harker.
(Continuazione.)
Questa constatazione mi fa impazzire. Ho salito delle scale, sono sceso da altre, scuotendo tutte le porte, esaminando tutte le finestre. Il sentimento della mia impotenza m’opprime. Sono come un topo in una trappola. Passata la prima disperazione mi sedetti per riflettere.
Che fare? Non trovo soluzioni. Una sola cosa è certa: non devo fidarmi del Conte.
Egli sa certissimo che io sono suo prigioniero e ha senza dubbio segreti motivi per fare così. Terrò i miei timori per me ed aprirò gli occhi.
O io mi sgomento ed impazzisco a torto o sono perduto! Ero giunto a questa conclusione quando la porta grande si aprì; il Conte rientrava.
Non venne subito nella biblioteca. Andai in punta di piedi nella mia stanza e lo sorpresi in procinto di rifare il mio letto. Questo precisò la mia convinzione che non ci son domestici nel castello. E quando lo vidi dal buco della serratura mettere il coperto nella sala da pranzo, non ebbi più il minimo dubbio: tranne lui e me non c’è nessuno nel castello!...
Ma allora? Il postiglione che mi condusse la prima sera è il conte stesso? Sì, incontestabilmente.
Ed è anche un conduttore di lupi! Perchè i miei compagni di viaggio lo temevano? Perchè uno di essi mi ha dato un fiore d’aglio e un altro una rosa selvatica? Benedetta sia la brava ostessa che mi fece dono di questa crocetta il cui solo contatto mi rassicura. Chi è questo Conte Dràcula? Cercherò di farlo parlare, stassera, senza tuttavia destar sospetti.
Mezzanotte.
Ho parlato a lungo col Conte, gli ho rivolto alcune domande sulla storia della Transilvania e questo soggetto lo appassiona. Parla degli eroi nazionali come se li avesse conosciuti e delle battaglie come se vi avesse preso parte. «La gloria dei Boiardi, ha detto, è la mia.» Quando parla della sua casa, dice sempre «noi» come un re. Mi ha interessato molto col suo entusiasmo.
«Ahimè! ha sospirato, i tempi guerreschi non torneranno più, non si osa più spargere il sangue, ai dì nostri, e i grandi nomi non possono più segnalarsi in combattimenti gloriosi.
Non mi sono coricato che al mattino. Questo giornale somiglia alle Mille e una Notte; la storia si ferma al canto del gallo.
12 maggio.
Non voglio dar relazione qui che di fatti constatati.
Iersera il Conte è venuto nella mia stanza e m’ha interrogato su questioni legali. Mi ha chiesto se in Inghilterra un uomo potesse avere due procuratori e più?
— Una dozzina, se lo desiderate — gli ho risposto; — ma non servirebbe che ad aggrovigliare gli affari e sarebbe contrario ai vostri interessi.
Parve capire. Poco dopo mi domandò a bruciapelo:
— Avete scritto delle lettere dopo quella indirizzata a mister Pietro Hawkins?
Gli risposi, con leggera ironia, che non sapevo in qual modo avrei fatto partire la mia corrispondenza.
— Ma me ne incaricherò io, mio giovane amico, scrivete! — disse, appoggiandomi sulla spalla la mano pesante. Scrivete per annunziare ai vostri amici ed alle vostre conoscenze che vi trattengo per tutto un mese.
— Tanto tempo! — esclamai, sentendomi stringere il cuore.
— Lo desidero — ribattè con autorità. — Mister Hawkins mi ha detto che posso disporre di voi interamente. Mi avrebbe forse ingannato?
Che fare, se non arrendermi? Devo aderire agli interessi del mio principale; e inoltre, non sono il prigioniero del Conte, che io lo voglia o no?
Vide il mio turbamento e aggiunse:
— Spedite poche righe soltanto ai vostri amici per informarli che state bene ed annunziare il prossimo ritorno.
Mi tese tre fogli di carta e tre buste così sottili ch’era facile leggervi attraverso.
Manderò, per la forma, lettere insignificanti ma, in segreto, scriverò ad Hawkins; ed a Mina stenograferò la mia lettera. Tanto peggio se il Conte s’incuriosisce.
Il Conte, di fronte a me, fece la sua corrispondenza, poi si alzò portando via inchiostro e penna. Durante la sua assenza, mi permisi di scorrere i suoi indirizzi. La prima lettera era indirizzata a Samuele Billington, n. 7. La Mezzaluna, Whitby. Un’altra a Leutner, Yarna. La terza a Coutts e C., Londra, e la quarta a Klopstock e Billreuth, banchieri, a Budapest.
Avrei spinto l’indiscrezione fino a leggere le due prime lettere che non erano suggellate, ma il Conte entrò. Timbrò le buste e mi disse:
— Scusatemi se vi lascio stassera, ma ho una quantità di cose da fare.
Nel momento di richiudere la porta mi lanciò quest’avviso:
— Vi consiglio, mio giovine amico, di non dormire che nella vostra stanza; il castello è vecchio e non potrei giurare che non ci siano gli spiriti. Credo davvero che voi non siate al sicuro se non in quest’ala del castello. Ma beninteso fate ciò che vi piacerà, io me ne lavo le mani.
Queste parole non erano fatte per rassicurarmi.
Alcune ore dopo.
M’ero dapprima ritirato nella mia stanza. Dopo qualche tempo, il silenzio m’oppresse e provai il bisogno di respirare l’aria pura. Soffocavo di sentirmi prigioniero. Questa esistenza notturna mi deprime; trasalisco alla mia propria ombra e sono angosciato dai più sinistri presentimenti.
Scesi la grande scala di pietra in fondo alla quale una larga vetrata lascia scorgere tutta la corte e l’ala sud del castello. Un magnifico chiaro di luna bagnava di luce il paesaggio. Le colline sfumavano in lontananza e in quella pallida luce le vallate parevano grandi buchi d’ombra. La dolcezza di questa bella notte mi riconfortò alquanto.
A un tratto vidi muoversi una cosa lungo il muro esterno nel punto ove guardano, credo, le finestre degli appartamenti del Conte. Mi celai un po’ nell’ombra senza tuttavia staccar gli occhi dal muro. In quell’ombra movente riconobbi il Conte. Non distinguevo il viso ma le sue mani speciali lo tradiscono abbastanza. La mia prima impressione fu di curiosità; di lì a poco provai del terrore: l’uomo, con la testa all’ingiù, strisciava su quel muro a piombo sull’abisso. Il suo mantello si spiegava a foggia d’ali. Come credere a’ miei occhi? Non era un giuoco della mia immaginazione? No, davvero non mi sbagliavo: quell’uomo, con l’agilità d’un ramarro s’aggrappava mani e piedi ad ogni angolo della pietra. A quale creatura mi sono dato in mano? Ho paura! ho paura! ho paura!
15 maggio.
Vidi un’altra volta il Conte uscire dal castello in quello strano modo. Ne ho subito approfittato per esplorare gli appartamenti. Ho preso nello mia stanza l’unica lampada e sono sceso nell’hall, ove ho constatato che si poteva facilmente tirare i catenacci della grande porta e togliere le catene. Ma la serratura è chiusa a chiave. Bisognerà che io cerchi questa chiave. Errai per i corridoi, tentando d’aprir le porte. Invano. Una o due, tuttavia, erano spalancate: le stanze non racchiudevano nulla di notevole, ma soltanto vecchi mobili polverosi e tarlati. In cima ad una scala una porta cedette dopo qualche resistenza.
Dava adito all’ala sud. Come l’altra, domina un precipizio. Mi rendo conto che il castello è costrutto sopra una collina e circondata per tre lati da un abisso. All’ovest si stende la vallata e sullo sfondo s’ergono le montagne. È in questi appartamenti che si viveva, senza dubbio, or sono alcuni anni, poiché i mobili qui sono più comodi che altrove.
La luna, dalle finestre senza tende, versa il suo chiarore e la mia lampada non serve a nulla: ma la sua piccola fiamma mi riscalda il cuore.
Questo posto mi piace, non vi sento la detestata presenza del Conte. Mi sono seduto davanti a un tavolino di quercia ove forse, nel passato, qualche bella dama scarabocchiò la sua corrispondenza amorosa e ho stenografato nel mio giornale il racconto di queste ultime ore.
16 maggio, mattina.
Purché io non diventi pazzo! È il mio solo timore.
Per fortuna posso analizzare e scrivere per disteso le mie impressioni; è un gran sollievo.
I misteriosi avvertimenti del Conte non erano superflui: non dubiterò più di lui, nell’avvenire.
Perchè ebbi l’imprudenza di disobbedirgli?
Finito ch’ebbi il mio giornale, non volli lasciare il luogo ospitale, tirai fuor dall’alcova un tarlato divano che trascinai davanti alla finestra per contemplare la valle bagnata di luna.
Poi, devo essermi addormentato. Spero di aver dormito, perchè se non ho sognato son diventato pazzo. Eppure!... Ecco:
Sono tuttora nello stesso locale e scorgo la traccia delle mie scarpe nella polvere; di fronte a me, in un raggio di luna, tre leggiadre donne mi contemplano. Cosa strana, non proiettano ombre dietro a loro. S’accostano a me, m’osservano con attenzione e mormorano alcune parole di cui non afferro il senso. Le due prime sono brune, con nasi aquilini come quello del Conte, e grandi occhi neri taglienti che luccicano di strano splendore. L’ultima è bionda al par della canape; ha occhi di zaffiro. Mi par di conoscerla. Ma mi è impossibile ricordarmi dove e quando l’ho incontrata. Tutt’e tre hanno denti di avorio la cui bianchezza risalta fra le belle labbra rosse. Mi inquietano e mi seducono insieme.
La bionda mi s’avvicina, ed io l’osservo fra le palpebre socchiuse. Col cuore che batte, aspetto. Essa si lecca le labbra golosamente ed applica la bocca sulla mia gola. Sento il morso di due denti acuti che mi fa svenire...
Di botto ho la sensazione della presenza del Conte. Apro gli occhi e vedo il mio ospite furibondo afferrare il fragile collo della giovine bionda. Gli occhi del Conte scintillano come due bragie ardenti, il suo viso è pallido e contratto. Con un gran gesto, simile a quello con cui fece indietreggiare i lupi, ordina alle donne di ritirarsi.
— Come osate voi toccarlo! — grida con voce sorda. — Come osate avvicinarvi a lui quando ve l’ho proibito! Indietro, vi dico, quest’uomo mi appartiene.
— Non avremo nulla, dunque, stassera — chiese una delle brune, indicando un sacco che il Conte aveva gettato sul pavimento e che si muoveva come se contenesse un animale.
— Prendete — disse il Conte.
Allora una delle donne aperse vivamente il sacco. Se le mie orecchie non mi hanno ingannato, ho udito istintivamente i vagiti d’un neonato. Poi tutt’e tre sparvero con la loro preda. Non so dove fuggirono poichè svenni d’orrore.