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sempre nella sua nicchia, ma stavolta il coperchio è abbassato. L’ho sollevato pianamente: bisogna pure che frughi nelle tasche del mio nemico. Lo spettacolo che m’appare mi terrifica.

E il Conte, sì, ma ringiovanito: i capelli e i baffi bianchi sono ridiventati grigi, le guancie sono più rotonde, la carnagione è più chiara, la bocca più rossa; sugli angoli della bocca, sul collo e sul mento, alcune goccie di sangue si sono seccate. Ho toccato i suoi vestiti con inesprimibile repulsione; ho frugato le sue tasche, non ho trovato la chiave. Il Conte mi contempla con un sorriso beffardo. Ecco dunque il mostro che io aiuto ad attirare a Londra ove commetterà altri delitti. No, no, non è possibile! Bisogna che ne sbarazzi il mondo. Bisogna che questo uomo perisca.

Non ho armi, ma ecco una vanga, scordata senza dubbio da uno degli operai. Brandisco l’arnese, sto per colpirlo in viso... In quel momento, il Conte volge il capo e mi volge uno sguardo di orrore. I suoi occhi mi affascinano e paralizzano il mio gesto. La vanga mi sfugge dalle mani e cade sul coperchio che si riabbassa con un rumore secco.

Che fare? Odo a un tratto delle voci, dei canti, uno scoppiettar di frusta, uno stridere di ruote. Gli zingari, senza dubbio. Scivolerò fuori, quando apriranno. Ritorno in fretta nella stanza del Conte. Tendo l’orecchio. Una grossa chiave stride in una serratura. Si direbbe che la porta si apra dalla parte della cappella. Dei passi scalpicciano. C’è senza dubbio nel castello un’entrata ch’io non conosco. Torno nel sotterraneo, ma, in quel mentre, una brusca ventata rin-