Atto primo

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Interlocutori Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA I

Orti pensili, corrispondenti a vari appartamenti della reggia di Demofoonte.

Dircea e Matusio.

Dircea. Credimi, o padre: il tuo soverchio affetto

un mal dubbioso ancora
rende sicuro. A domandar che solo
il mio nome non vegga
l’urna fatale, altra ragion non hai
che il regio esempio.
Matusio.   E ti par poco? Io forse,
perché suddito nacqui,
son men padre del re? D’Apollo il cenno
d’una vergine illustre
vuol che su l'are sue si sparga il sangue
ogni anno in questo dí; ma non esclude
le vergini reali. Ei, che si mostra
delle leggi divine
sí rigido custode, agli altri insegni
con l’esempio costanza. A sé richiami
le allontanate ad arte
sue regie figlie. I nomi loro esponga
anch’egli al caso. All’agitar dell’urna,
provi egli ancor d’un infelice padre

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come palpita il cor; come si trema,

quando al temuto vaso
la mano accosta il sacerdote, e quando
in sembianza funesta
l’estratto nome a pronunciar s’appresta;
e arrossisca una volta
ch’abbia a toccar sempre la parte a lui
di spettator nelle miserie altrui.
Dircea. Ma sai pur che a’ sovrani
è suddita la legge.
Matusio. Le umane sí, non le divine.
Dircea.   E queste
a lor s’aspetta interpretar.
Matusio.   Non quando
parlan chiaro gli dèi.
Dircea.   Mai chiaro a segno...
Matusio. Non più, Dircea; son risoluto.
Dircea.   Ah! meglio
pensaci, o genitor. L’ira ne’ grandi
sollecita s’accende,
tarda s’estingue. È temeraria impresa
l’irritare uno sdegno
che ha congiunto il poter. Giá il re pur troppo
bieco ti guarda. Ah! che sará, se aggiunge
ire novelle all’odio antico?
Matusio.   Invano
l’odio di lui tu mi rammenti e l’ira:
la ragion mi difende, il ciel m’inspira.
          O piú tremar non voglio
     fra tanti affanni e tanti;
     o ancor chi preme il soglio
     ha da tremar con me.
          Ambo siam padri amanti,
     ed il paterno affetto
     parla egualmente in petto
     del suddito e del re. (parte)

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SCENA II

Dircea e poi Timante.

Dircea. Se il mio principe almeno

quindi lungi non fosse... Oh ciel, che miro!
ei viene a me!
Timante.   Dolce consorte...
Dircea.   Ah! taci:
potrebbe udirti alcun. Rammenta, o caro,
che qui non resta in vita
suddita sposa a regio figlio unita.
Timante. Non temer, mia speranza. Alcun non ode.
Io ti difendo.
Dircea.   E quale amico nume
ti rende a me?
Timante.   Del genitore un cenno
mi richiama dal campo,
né la cagion ne so. Ma tu, mia vita,
m’ami ancor? ti ritrovo
qual ti lasciai? pensasti a me?
Dircea.   Ma come
chieder lo puoi? Puoi dubitarne?
Timante.   Oh Dio!
non dubito, ben mio; lo so che m’ami,
ma da quel dolce labbro
troppo, soffrilo in pace,
sentirlo replicar, troppo mi piace.
Ed il picciolo Olinto, il caro pegno
de’ nostri casti amori,
che fa? cresce in bellezza?
a qual di noi somiglia?
Dircea.   Egli incomincia
giá col tenero piede

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orme incerte a segnar. Tutta ha nel volto

quella dolce fierezza,
che tanto in te mi piacque. Allor che ride,
par l’immagine tua. Lui rimirando,
te rimirar mi sembra. Oh, quante volte,
credula troppo al dolce error del ciglio,
mi strinsi al petto il genitor nel figlio!
Timante. Ah! dov’è? Sposa amata,
guidami a lui; fa’ ch’io lo vegga.
Dircea.   Affrena,
signor, per ora il violento affetto.
In custodita parte
egli vive celato; e andarne a lui
non è sempre sicuro. Oh, quanta pena
costa il nostro segreto!
Timante.   Ormai son stanco
di finger piú, di tremar sempre: io voglio
cercare oggi una via
d’uscir di tante angustie.
Dircea.   Oggi sovrasta
altra angustia maggiore. Il giorno è questo
dell’annuo sagrifizio. Il nome mio
sará esposto alla sorte: il re lo vuole;
si oppone il padre; e della lor contesa
temo piú che del resto.
Timante.   È noto forse
al padre tuo che sei mia sposa?
Dircea.   Il cielo
nol voglia mai. Piú non vivrei.
Timante.   M’ascolta.
Proporrò che di nuovo
si consulti l’oracolo. Acquistiamo
tempo a pensar.
Dircea.   Questo è giá fatto.
Timante.   E come
rispose?

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Dircea.   Oscuro e breve.

«Con voi del ciel si placherá lo sdegno,
quando noto a se stesso
fia l’innocente usurpator d’un regno».
Timante. Che tenebre son queste!
Dircea.   E se dall’urna
esce il mio nome, io che farò? La morte
mio spavento non è: Dircea saprebbe
per la patria morir. Ma Febo chiede
d’una vergine il sangue. Io, moglie e madre,
come accostarmi all’ara? O parli o taccia,
colpevole mi rendo:
il ciel, se taccio, il re, se parlo, offendo.
Timante. Sposa, ne’ gran perigli
gran coraggio bisogna. Al re conviene
scoprir l’arcano.
Dircea.   E la funesta legge
che a morir mi condanna?
Timante.   Un re la scrisse:
può rivocarla un re. Benché severo,
Demofoonte è padre, ed io son figlio.
Qual forza han questi nomi,
io lo so, tu lo sai. Non torno alfine
senza merito a lui. La Scizia oppressa,
il soggiogato Fasi
son mie conquiste; e qualche cosa il padre
può fare anche per me. Se ciò non basta,
saprò dinanzi a lui
piangere, supplicar, piegarmi al suolo,
abbracciargli le piante,
domandargli pietá.
Dircea.   Dubito... Oh Dio!
Timante. Non dubitar, Dircea: lascia la cura
a me del tuo destin. Va’! Per tua pace
ti stia nell’alma impresso
che a te penso, cor mio, piú che a me stesso.

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Dircea.   In te spero, o sposo amato;

     fido a te la sorte mia,
     e per te, qualunque sia,
     sempre cara a me sará.
          Pur che a me nel morir mio
     il piacer non sia negato
     di vantar che tua son io,
     il morir mi piacerá. (parte)

SCENA III

Timante e Demofoonte con séguito; indi Adrasto.

Timante. Sei pur cieca, o fortuna! Alla mia sposa

generosa concedi
beltá, virtú quasi divina, e poi
la fai nascer vassalla. Error sí grande
correggerò ben io. Meco sul trono
la Tracia un dí l’adorerá. Ma viene
il real genitor. Piú non s’asconda
il mio segreto a lui.
Demofoonte.   Principe, figlio.
Timante. Padre, signor. (s’inginocchia e gli bacia la mano)
Demofoonte.   Sorgi.
Timante.   I reali imperi
eccomi ad eseguir.
Demofoonte.   So che non piace
al tuo genio guerriero
la pacifica reggia; e il cenno mio,
che ti svelle dall’armi,
forse t’incresce. I tuoi trionfi, o prence,
e perché mie conquiste e perché tuoi,
sempre cari mi son; ma tu di loro
mi sei piú caro. I tuoi sudori ormai
di riposo han bisogno. È del riposo

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figlio il valor. Sempre vibrato, alfine

inabile a ferir l’arco si rende.
Il meritar son le tue parti, e sono
il premiarti le mie. Se il prence, il figlio
degnamente le sue compí finora,
il padre, il re le sue compisca ancora.
Timante. (Opportuno è il momento: ardir!) Conosco
tanto il bel cor del mio
tenero genitor, che...
Demofoonte.   No, non puoi
conoscerlo abbastanza. Io penso, o figlio,
a te piú che non credi;
io ti leggo nell’alma, e quel che taci
intendo ancor. Con la tua sposa al fianco
vorresti ormai che ti vedesse il regno.
Di’: non è ver?
Timante.   (Certo ei scoperse il nodo
che mi stringe a Dircea.)
Demofoonte.   Parlar non osi;
e a compiacerti appunto
il tuo mi persuade
rispettoso silenzio. Io, lo confesso,
dubitai su la scelta; anzi mi spiacque.
L’acconsentire al nodo
mi pareva viltá. Gli odii del padre
abboría nella figlia. Alfin prevalse
il desio di vederti
felice, o prence.
Timante.   (Il dubitarne è vano.)
Demofoonte.   A paragon di questo,
è lieve ogni riguardo.
Timante.   Amato padre,
nuova vita or mi dai. Volo alla sposa,
per condurla al tuo piè.
Demofoonte.   Ferma! Cherinto,
il tuo minor germano,
la condurrá.

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Timante.   Che inaspettata è questa

felicitá!
Demofoonte.   V’è per mio cenno al porto
chi ne attende l’arrivo...
Timante.   Al porto!
Demofoonte.   ...e, quando
vegga apparir la sospirata nave,
avvertiti sarem.
Timante.   Qual nave?
Demofoonte.   Quella
che la real Creusa
conduce alle tue nozze.
Timante.   (Oh dèi!)
Demofoonte.   Ti sembra
strano, lo so. Gli ereditari sdegni
de’ suoi, degli avi nostri, un simil nodo
non facevan sperar; ma in dote alfine
ella ti porta un regno. Unica prole
è del cadente re.
Timante.   Signor... Credei...
(Oh error funesto!)
Demofoonte.   Una consorte altrove,
che suddita non sia, per te non trovo.
Timante. O suddita o sovrana,
che importa, o padre?
Demofoonte.   Ah! no: troppo degli avi
ne arrossirebbon l’ombre. È lor la legge
che condanna a morir sposa vassalla
unita al real germe; e, fin ch’io viva,
saronne il piú severo
rigido esecutor.
Timante.   Ma questa legge...
Adrasto. Signor, giungono in porto
le frigie navi.
Demofoonte.   Ad incontrar la sposa
vola, o Timante. (Adrasto si ritira)

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Timante.   Io?

Demofoonte.   Sí. Con te verrei,
ma un funesto dover mi chiama al tempio.
Timante. Ferma! Senti, signor.
Demofoonte.   Parla: che brami?
Timante. Confessarti... (Che fo?) Chiederti... (Oh Dio,
che angustia è questa!) Il sacrifizio, o padre...
La legge... La consorte...
(Oh legge! oh sposa! oh sacrifizio! oh sorte!)
Demofoonte.   Prence, ormai non ci resta
piú luogo a pentimento. È stretto il nodo:
io l’ho promesso. Il conservar la fede
obbligo necessario è di chi regna;
e la necessitá gran cose insegna.
          Per lei fra l’armi — dorme il guerriero;
     per lei fra l’onde — canta il nocchiero;
     per lei la morte — terror non ha.
          Fin le piú timide — belve fugaci
     valor dimostrano, — si fanno audaci,
     quand’è il combattere — necessitá. (parte)

SCENA IV

Timante solo.

Ma che vi fece, o stelle,

la povera Dircea, che tante unite
sventure contro fer? Voi, che inspiraste
i casti affetti alle nostr’alme; voi,
che al pudico imeneo foste presenti,
difendetelo, o numi: io mi confondo.
M’oppresse il colpo a segno,
che il cor mancommi e si smarrí l’ingegno.
          Sperai vicino il lido,
     credei calmato il vento;

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     ma trasportar mi sento

     fra le tempeste ancor;
          e da uno scoglio infido
     mentre salvar mi voglio,
     urto in un altro scoglio
     del primo assai peggior. (parte)

SCENA V

Porto di mare, festivamente adornato per l’arrivo della principessa di Frigia. Vista di molte navi, dalla piú magnifica delle quali, al suono di vari strumenti barbari, preceduti da numeroso corteggio, sbarcano a terra

Creusa e Cherinto.

Creusa. Ma che t’affanna, o prence?

perché mesto cosí? Pensi, sospiri,
taci, mi guardi, e, se a parlar t’astringo
con rimproveri amici,
molto a dir ti prepari, e nulla dici.
Dove andò quel sereno
allegro tuo sembiante? ove i festivi
detti ingegnosi? In Tracia tu non sei
qual eri in Frigia. Al talamo le spose
in sí lugubre aspetto
s’accompagnan fra voi? Per le mie nozze
qual augurio è mai questo?
Cherinto. Se nulla di funesto
presagisce il mio duol, tutto si sfoghi,
o bella principessa,
tutto sopra di me. Poco i miei mali
accresceran le stelle. Io de’ viventi
giá sono il piú infelice.
Creusa.   E questo arcano
non può svelarsi a me? Vaglion sí poco
il mio soccorso, i miei consigli?

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Cherinto.   E vuoi

ch’io parli? Ubbidirò. Dal primo istante...
Quel giorno... Oh Dio! No, non ho cor! Perdona;
meglio è tacer: meriterei, parlando,
forse lo sdegno tuo.
Creusa.   Lo merta assai
giá la tua diffidenza. È ver che alfine
io son donna, e sarebbe
mal sicuro il segreto. Andiamo, andiamo.
Taci pur: n’hai ragion.
Cherinto.   Férmati! Oh numi!
Parlerò: non sdegnarti. Io non ho pace;
tu me la togli; il tuo bel volto adoro;
so che l’adoro invano,
e mi sento morir. Questo è l’arcano.
Creusa. Come? che ardir!
Cherinto.   Nol dissi
che sdegnar ti farei?
Creusa.   Sperai, Cherinto,
piú rispetto da te.
Cherinto.   Colpa d’amore.
Creusa. Taci, taci: non piú. (volendo partire)
Cherinto.   Ma, giacché a forza
tu volesti, o Creusa,
il delitto ascoltar, senti la scusa.
Creusa. Che dir potrai?
Cherinto.   Che di pietá son degno,
s’ardo per te; che, se l’amarti è colpa,
Demofoonte è il reo. Doveva il padre,
per condurti a Timante,
altri sceglier che me. Se l’ésca avvampa,
stupir non dee chi l’avvicina al fuoco.
Tu bella sei; cieco io non son. Ti vidi,
t’ammirai, mi piacesti. A te vicino
ogni dí mi trovai. Comodo e scusa
il nome di congiunto

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mi die’ per vagheggiarti; e me quel nome,

non che gli altri, ingannò. L’amor, che sempre
sospirar mi facea d’esserti accanto,
mi pareva dovere; e mille volte
a te spiegar credei
gli affetti del german, spiegando i miei.
Creusa. (Ah! me n’avvidi.) Un tale ardir mi giunge
nuovo cosí, che istupidisco.
Cherinto.   E pure,
talor mi lusingai che l’alme nostre
s’intendesser fra loro
senza parlar. Certi sospiri intesi,
un non so che di languido osservai
spesso negli occhi tuoi, che mi parea
molto piú che amicizia.
Creusa.   Orsú! Cherinto,
della mia tolleranza
cominci ad abusar. Mai piú d’amore
guarda di non parlarmi.
Cherinto.   Io non comprendo...
Creusa. Mi spiegherò. Se in avvenir piú saggio
non sei di quel che fosti infino ad ora,
non comparirmi innanzi. Intendi ancora?
Cherinto.   T’intendo, ingrata!
          vuoi ch’io m’uccida:
          sarai contenta,
          m’ucciderò.
               Ma ti rammenta
          che a un’alma fida
          l’averti amata
          troppo costò. (vuol partire)
Creusa. Dove? Ferma!
Cherinto.   No, no! troppo t’offende
la mia presenza. (in atto di partire)
Creusa.   Odi, Cherinto.
Cherinto.   Eh! troppo

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abuserei, restando,

della tua tolleranza. (come sopra)
Creusa.   E chi finora
t’impose di partir?
Cherinto.   Comprendo assai
anche quel che non dici.
Creusa.   Ah, prence! ah, quanto
mal mi conosci! Io da quel punto... (Oh numi!)
Cherinto. Termina i detti tuoi.
Creusa. Da quel punto... (Ah, che fo!) Parti, se vuoi.
Cherinto. Barbara! partirò; ma forse... Oh stelle!
ecco il german.

SCENA VI

Timante frettoloso, e detti.

Timante.   Dimmi, Cherinto: è questa

la frigia principessa?
Cherinto.   Appunto.
Timante.   Io deggio
seco parlar. Per un momento solo
da noi ti scosta.
Cherinto.   Ubbidirò. (Che pena!)
Creusa. Sposo, signor.
Timante.   Donna real, noi siamo
in gran periglio entrambi. Il tuo decoro,
la vita mia tu sola
puoi difender, se vuoi.
Creusa.   Che avvenne?
Timante.   I nostri
genitori fra noi strinsero un nodo,
che forse a te dispiace,
ch’io non richiesi. I pregi tuoi reali
sarian degni d’un nume,

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non che di me; ma il mio destin non vuole

ch’io possa esserti sposo. Un vi si oppone
invincibil riparo. Il padre mio
nol sa, né posso dirlo. A te conviene
prevenire un rifiuto. In vece mia,
va’, rifiutami tu. Di’ ch’io ti spiaccio;
aggrava, io tel perdono,
i demeriti miei; sprezzami, e salva
per questa via, che il mio dover t’addita,
l’onor tuo, la mia pace e la mia vita.
Creusa. Come!
Timante.   Teco io non posso
trattenermi di piú. Prence, alla reggia
sia tua cura il condurla. (a Cherinto, partendo)
Creusa.   Ah! dimmi almeno...
Timante. Dissi tutto il cor mio,
né piú dirti saprei: pensaci. Addio! (parte)

SCENA VII

Creusa e Cherinto.

Creusa. Numi! a Creusa, alla reale erede

dello scettro di Frigia un tale oltraggio!
Cherinto, hai cor?
Cherinto.   L’avrei,
se tu non mel toglievi.
Creusa.   Ah! l’onor mio
vendica tu, se m’ami. Il cor, la mano,
il talamo, lo scettro,
quanto possiedo, è tuo: limite alcuno
non pongo al premio.
Cherinto.   E che vorresti?
Creusa.   Il sangue
dell’audace Timante.

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Cherinto. Del mio german?

Creusa.   Che! impallidisci? Ah, vile!
Va’! troverò chi voglia
meritar l’amor mio.
Cherinto.   Ma, principessa...
Creusa. Non piú! Lo so, siete d’accordo entrambi,
scellerati, a tradirmi.
Cherinto.   Io! Come! E credi
cosí, dunque, il mio amor poco sincero?
Creusa. Del tuo amor mi vergogno, o falso o vero.
               Non curo l’affetto
          d’un timido amante,
          che serba nel petto
          sí poco valor,
               che trema, se deve
          far uso del brando,
          ch’è audace, sol quando
          si parla d’amor. (parte)

SCENA VIII

Cherinto solo.

Oh dèi! perché tanto furor? che mai

le avrá detto il german? Voler ch’io stesso
nelle fraterne vene... Ah! che, in pensarlo,
gelo d’orror. Ma con qual fasto il disse!
con qual fierezza! E pur, quel fasto e quella
sua fierezza m’alletta: in essa io trovo
un non so che di grande,
che, in mezzo al suo furore,
stupir mi fa, mi fa languir d’amore.
          Il suo leggiadro viso
     non perde mai beltá:
     bello nella pietá,
     bello è nell’ira.

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          Quand’apre i labbri al riso,

     parmi la dea del mar;
     e Pallade mi par,
     quando s’adira. (parte)

SCENA IX

Matusio esce furioso con Dircea per mano.

Dircea. Dove, dove, o signor?

Matusio.   Nel piú deserto
sen della Libia, alle foreste ircane,
fra le scitiche rupi, o in qualche ignota,
se alcuna il mar ne serra,
separata dal mondo ultima terra.
Dircea. (Aimè!)
Matusio.   Sudate, o padri,
nella cura de’ figli. Ecco il rispetto,
che il dritto di natura,
che prometter si può la vostra cura.
Dircea. (Ah! scoprí l’imeneo. Son morta!) Oh Dio!
Signor, pietá!
Matusio.   Non v’è pietá né fede:
tutto è perduto!
Dircea.   Ecco al tuo piè...
Matusio.   Che fai?
Dircea. Io voglio pianger tanto...
Matusio. Il tuo caso domanda altro che pianto.
Dircea. Sappi...
Matusio.   Attendimi. Un legno
volo a cercar, che ne trasporti altrove. (parte)

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SCENA X

Dircea, poi Timante.

Dircea. Dove, misera! ah! dove

vuol condurmi a morir? Figlio innocente,
adorato consorte, oh dèi! che pena
partir senza vedervi!
Timante.   Alfin ti trovo,
Dircea, mia vita.
Dircea.   Ah! caro sposo, addio,
e addio per sempre. Al tuo paterno amore
raccomando il mio figlio:
abbraccialo per me, bacialo, e tutta
narragli, quando sia
capace di pietá, la sorte mia.
Timante. Sposa, che dici? Ah! nelle vene il sangue
gelar mi fai.
Dircea.   Certo scoperse il padre
il nostro arcano. Ebbro è di sdegno, e vuole
quindi lungi condurmi. Io lo conosco:
per me non v’è piú speme.
Timante.   Eh! rassicura
lo smarrito tuo cor, sposa diletta;
al mio fianco tu sei.

SCENA XI

Matusio torna frettoloso, e detti.

Matusio.   Dircea, t’affretta!

Timante. Dircea non partirá.
Matusio.   Chi l’impedisce?
Timante. Io.
Matusio.   Come!

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Dircea.   Aimè!

Matusio. (snuda la spada) Difenderò col ferro
la paterna ragion.
Timante. (fa lo stesso) Col ferro anch’io
la mia difenderò.
Dircea. (si frappone) Prence che fai?
Férmati, o genitor!
Matusio.   Empio! impedirmi
che al crudel sacrifizio una innocente
vergine io tolga?
Dircea.   (Oh dèi!)
Timante.   Ma dunque...
Dircea. (piano a Timante, fingendo trattenerlo) (Ah! taci.
Nulla sa: m’ingannai.)
Matusio.   Volerla oppressa!
Dircea. (Io quasi per timor tradii me stessa.)
Timante. Signor, perdona: ecco l’error. Ti vidi
verso lei, che piangea, correr sdegnato;
tempo a pensar non ebbi; opra pietosa
il salvarla credei dal tuo furore.
Matusio. Dunque la nostra fuga
non impedir. La vittima, se resta,
oggi sará Dircea.
Dircea.   Stelle!
Timante.   Dall’urna
forse il suo nome uscí?
Matusio.   No; ma l’ingiusto
tuo padre vuol quell’innocente uccisa
senza il voto del caso.
Timante.   E perché tanto
sdegno con lei?
Matusio.   Per punir me, che volli
impedir che alla sorte
fosse esposta Dircea; perché produssi
l’esempio suo; perché l’amor paterno
mi fe’ scordar d’esser vassallo.

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Dircea.   (Oh Dio!

ogni cosa congiura a danno mio.)
Timante. Matusio, non temer: barbaro tanto
il re non è. Negl’impeti improvvisi
tutti abbaglia il furor; ma la ragione
poi n’emenda i trascorsi.

SCENA XII

Adrasto con guardie, e detti.

Adrasto.   Olá! ministri,

custodite Dircea. (le guardie la circondano)
Matusio.   Nol dissi, o prence?
Timante. Come?
Dircea.   Misera me!
Timante.   Per qual cagione
è Dircea prigioniera?
Adrasto.   Il re l’impone.

(a Dircea) Vieni!
Dircea.   Ah! dove?

Adrasto.   Fra poco,
sventurata! il saprai.
Dircea.   Principe, padre,
soccorretemi voi;
movetevi a pietá.
Timante.   No, non fia vero...
  (in atto d’assalire)
Matusio. Non soffrirò...
Adrasto.   Se v’appressate, in seno
questo ferro le immergo. (impugnando uno stile)

Timante. (si fermano) Empio!
Matusio. Inumano!
Adrasto. Il comando sovrano

mi giustifica assai.

[p. 94 modifica]
Dircea.   Dunque...

Adrasto.   T’affretta:
sono vane, o Dircea, le tue querele.
Dircea. Vengo. (incamminandosi)
Timante e Matusio.   Ah! barbaro! (in atto d’assalire)
Adrasto.   Olá! (in atto di ferire)
Timante e Matusio.   (arrestandosi) Ferma, crudele!
Dircea.   Padre, perdona... Oh pene!
     Prence, rammenta... Oh Dio!
     (Giá che morir degg’io,
     potessi almen parlar!)
          Misera! in che peccai?
     come son giunta mai
     de’ numi a questo segno
     lo sdegno a meritar? (parte)

SCENA XIII

Timante e Matusio.

Timante. Consigliatemi, o dèi!

Matusio.   Né s’apre il suolo!
né un fulmine punisce
tanta empietá, tanta ingiustizia! E poi
mi si dirá che Giove
abbia cura di noi!
Timante.   Facciamo, amico,
miglior uso del tempo. Appresso a lei
tu vanne, e vedi ov’è condotta. Il padre
io volo intanto a raddolcir.
Matusio.   Non spero...
Timante. Oh Dio! Va’: troverassi
altra via di salvarla, ove non ceda
del genitor lo sdegno.

[p. 95 modifica]
Matusio. Oh di padre miglior figlio ben degno!

  (l’abbraccia e parte)
Timante.   Se ardire e speranza
     dal ciel non mi viene,
     mi manca costanza
     per tanto dolor.
          La dolce compagna
     vedersi rapire,
     udir che si lagna,
     condotta a morire,
     son smanie, son pene
     che opprimono un cor. (parte)