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atto primo 79


Dircea.   Oscuro e breve.

«Con voi del ciel si placherá lo sdegno,
quando noto a se stesso
fia l’innocente usurpator d’un regno».
Timante. Che tenebre son queste!
Dircea.   E se dall’urna
esce il mio nome, io che farò? La morte
mio spavento non è: Dircea saprebbe
per la patria morir. Ma Febo chiede
d’una vergine il sangue. Io, moglie e madre,
come accostarmi all’ara? O parli o taccia,
colpevole mi rendo:
il ciel, se taccio, il re, se parlo, offendo.
Timante. Sposa, ne’ gran perigli
gran coraggio bisogna. Al re conviene
scoprir l’arcano.
Dircea.   E la funesta legge
che a morir mi condanna?
Timante.   Un re la scrisse:
può rivocarla un re. Benché severo,
Demofoonte è padre, ed io son figlio.
Qual forza han questi nomi,
io lo so, tu lo sai. Non torno alfine
senza merito a lui. La Scizia oppressa,
il soggiogato Fasi
son mie conquiste; e qualche cosa il padre
può fare anche per me. Se ciò non basta,
saprò dinanzi a lui
piangere, supplicar, piegarmi al suolo,
abbracciargli le piante,
domandargli pietá.
Dircea.   Dubito... Oh Dio!
Timante. Non dubitar, Dircea: lascia la cura
a me del tuo destin. Va’! Per tua pace
ti stia nell’alma impresso
che a te penso, cor mio, piú che a me stesso.