Delle strade ferrate italiane e del miglior ordinamento di esse/Appendice e Documenti/Documento 13

Documento N.° 13

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Documento N.° XIII.


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LETTURE DI FAMIGLIA


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Lettera del conte Sauli, con nota relativa a diramazioni di strade ferrate nell’interno del Piemonte.


Amico carissimo,

Gli è già gran tempo che debbo e voglio scrivervi non già uno di quei vostri bellissimi letteroni (chè io non son da tanto), ma una semplice letteruccia di rendimento di grazie, un appicco a certe cose che avete detto voi. Né fu pigrizia s’io nol feci sinora; chè dall’accidia, come da qualsivoglia altro vizio capitale, mi vo schermendo il meglio che so e posso. Me ne fecero rimanere certi riguardini e certi rispetti che sono una vera calamità per noi animi ammaccati, intormentiti dalla memoria di fiere procelle e dalla lunga esperienza, avvezzi dai più verdi anni a sottoporre non solo le azioni, ma ben anche le parole, i sospiri e persino gli sguardi alla legge della più circospetta e della più meticulosa prudenza. Per amor della quale vi so dire che, se mi accade talvolta di aprir bocca, parlo a monosillabi o sole per non lasciare che infracidisca la lingua, ma col desiderio che nissuno dia retta a’ miei discorsi. Nè in ciò ho motivo di lamentarmi dei soliti miei circostanti, che per lo più interrompono il filo d’ogni mio ragionamento, anzi mi rendono il segnalato servizio di troncarlo sul bel principio, ogni volta che, per segreto istinto, credono d’indovinare ch’io stia per dire alcunché di sustanzievole; e così facendo, tornano a casa interi nelle loro opinioni, tali e quali, nè più nè meno, come erano al punto che in me s’incontrarono; ed anch’io da lor mi dilungo vuoto e leggiero dal peso d’ogni maniera di responsabilità. E me ne appago a maraviglia, chè non ambisco l’onore di essere aggregato al collegio dei Floridani, consiglieri gratuiti, che per qualsivoglia faccenda hanno una sentenza apparecchiata, la proferiscono e la sostengono imperterriti con quanto fiato hanno in corpo, guidati alla fiducia d’incerto lume, e mossi sempre da rette intenzioni. [p. 571 modifica] Ma a che cosa giovano la temperanza di chi parla, e la trascuratezza di coloro che ascoltano? A nulla giovano, o mio buon Baruffi; ed anche voi ne fate esperienza. Voi chiedeste ed ancor chiedete, se mal non m’appongo, che sieno riveduti i regolamenti sanitari osservati sinquì nei porti del Mediterraneo; ch’essi sieno modificati secondo che lo consigliano una più lunga pratica, e le osservazioni moltiplicatesi in proporzione che si moltiplicarono le relazioni dei commerci e degli studi tra l’Europa ed il Levante, e che si tenga conto dei minori pericoli che risultano dalle precauzioni adottale dai Musulmani, i quali, non già per essere anticontagionisti, ma per una falsa interpretazione del Corano, si lasciavano sinquì mietere a torme dalla peste, abbandonando all’arbitrio del caso la salute e la vita. Voi desiderate insomma che i varii reggimenti d’Europa convengano insieme alfine d’istituire, per questo rilevantissimo rispetto, norme costanti ed uniformi da cui sia tutelata la salute dei popoli, ma da cui non venga incagliata per troppo lunghi indugi, nè gravata di soverchi dispendii l’azione dei trafficanti. Il vostro desiderio non oltrepassa i confini dell’onesto, poiché lascia che la questiono sia definita da uomini per dottrina e per autorità competenti; seppure vi sono uomini competenti a sentenziare intorno a certi misteri della peste e della natura, e di sì saldo cuore per combattere i frutti di diuturna e salutare esperienza. Eppure, chi’l crederebbe? Mentr’erano ancor umide le pagine eloquenti dove avete deposto i vostri pensieri, voi venivate tacciato di volere che, senza far divario di provenienza, appena salita in porto ogni nave, venga ammessa a libera pratica; ogni merce, per quanto suscettibile ella sia, posta nel comune commercio, senza previo spurgo o sciorinamento di sorta; che sia mandata a monte e squarciata la tela delle regole sanitarie, pregevole monumento della sapienza e della civiltà de’ padri nostri, per cui le belle contrade d’Europa furono salve dal mortifero furor della peste, la quale non partorì mai altro bene, che una pagina di Tucidide e il Decameron del Boccaccio. Così si ragiona, così le vostre opinioni si travisano dai disattenti.

Ed a me venne pure dato taccia testé d’essere nemico del progresso anche il meglio inteso che imaginare si possa, di essere una lumaca, un gambero, uno spegnitoio, un paracarro. E perchè tanti titoli di biasimo o di lode? Perchè ancor io non mi posi a gridare a tutta gola insieme cogli altri tutti, che facea d’uopo cacciarsi innanzi a fare le strade ferrate; che a restarsi un solo istante sarebbe certa rovina, un basire nel cataletto. Era. un tale ronzìo di ululati e di voci proferite da mille bocche di giudici pratici e non pratici, che anche le più salde orecchie doveano rimanerne assordate. Il mio silenzio, in mezzo a quello strepito fu preso in segno di disapproviazione. Altre volte un bel tacere non si poteva scrivere; or si rinfaccia. Oh malinteso progresso! Non niego che dell’entusiasmo non mi so fidare, e che, per tutte quella cose dove mi sembra scorgere il caldo della passione, mi [p. 572 modifica]tengo in sulle guardie. Confesso che tutto questo correre ad affaccendarsi a diritto ed a traverso, che quell’essere balestrati gli uomini come saette a grandi distanze colpisce sommamente la mia immaginazione. Non fuvvi cosa mai che tanto confondesse i miei sensi qnanto il trovarmi dentro ai porti franchi od ai magazzini degli spedizionieri, in quei vortici e bollimenti di uomini, di donne e di valigie, Ma so pur anche che gli uomini rimasero barbari sinché furono condannati a stare immobili entro i confini d’anguste signorie; che cominciarono a dirozzarsi allorché poterono comunicare insieme; e che per legge di proporzione, crescendo le comunicazioni e la fratellanza degli uni cogli altri, crescerà eziandio la civiltà, il cui pregio principale consiste nel far si che le umane azioni sieno sempre uniformi ai precetti della vera sapienza. In faccia a cosiffatte benedizioni meriterei l’onta di essere, all’età nostra, tenuto per un ganascione del medio evo, se mi opponessi, anche con semplici voti è con detti inmportuni, alla confezione delle strade ferrate. Chi avrebbe ragionevolmente il diritto di lagnarsi di quelle? Nissuno, eccetto la terra istessa, la quale, per la diminuzione e pel quasi annientamento delle distanze, da quella superba palla lanciata nello spazio dalla mano dell’Eterno, da quel bel pianeta ch’ell’era, passa alle umili proporzioni d’un semplice granello omeopatico, quale apparve in sogno a Scipione. Del resto so benissimo che quando gli altri fanno, volere o non volere, è giocoforza che facciamo anche noi; so che in mezzo ad un cenacolo, dove tutti tengono una facella accesa in mano, uno non può procacciarsi le dolcezze delle tenebre spegnendo la sua. Queste cose me le insegnò la nutrice sin dalle fasce. E così avrei esclamato ancor io, se non avessi creduto che una voce di più o di meno a nulla montava. Per un altro verso non avrei voluto mancare al municipio mio nativo, giacché, dopo che le mie treccie se ne sono ite con quelle di Berenice, il santo amore di patria sbandeggiò gli altri teneri affetti dell’animo, e regna solo.

È la mia terra nativa collocata dalla natura in sito dove sarà pur necessario che facciano capo o canali o strade ferrate e da ferrare, ogni volta che non si voglia escludere l’alto Piemonte dai più vicini e dai più facili commerci del Mediterraneo. Chiamar l’attenzione a quella parte era lo stesso come svolgerla dalla linea che s’avea in mira, vale a dire quella di Genova; laonde, invece d’essermi apposto a vergogna, dovrebbe essere lodato il silenzio osservato da me a bello studio, per non frammettere un intoppo di più ai consigli concernenti a quest’importantissima risoluzione; e ciò sia detto con tutte quante le restrizioni richieste per salvar l’amor proprio e per fuggire il ridicolo della vanità. Ma ora che il difficile problema è sciolto, posso sfogarmi finalmente con voi, e dire aperto il parer mio; e poiché parlo dopo che la cosa è fatta, sarà ben maligno chi vorrà appormi la taccia, che voglio schivare, di gratuito consigliero.

Voi siete l’Ulisse, anzi il Marco Polo piemontese; se non che Ulisse lasciò [p. 573 modifica]scrivere i suoi viaggi ad Omero, e Marco Polo gli scrisse ai pari di voi o li dettò a Rostichello da Pisa, che vale lo stesso. Dopo aver discorso le terre che sono dalla occidentale Inghilterra sino all’orientale Costantinopoli, e dalla punta settentrionale di S. Pietroburgo e di Mosca sino alle antiche piramidi d’Egitto, voi vi siete nel passato autunno condotto a visitare la patria mia, e ne faceste un cenno nel Museo scientifico che si stampa dal Fontana. Della quale amorevolezza vi porgo le più distinte grazie in nome mio e in nome de’ miei compaesani. Il vostro articolo può servir di norma in parte e giovare ai compilatori della statìstica piemontese. In fatto di statistica mi piacque sempre molto quella che Torquato Tasso stese del regno di Francia quando si recò in Parigi in compagnia dell’invidioso cardinale Ippolito d’Este. Ora si è progredito d’assai. La statistica insegna a puntino quale sia la vera condizione di un dato paese nell’istante in cui si raccolgono le notizie che le servono di fondamento, per modo che non lascia cosa a desiderare. A voi non talentava cadere nell’inconveniente che tocca a coloro i quali intendono di dir tutto, e perciò con savio consiglio vi atteneste alla succinta maniera del Tasso. E se non fosse stato di quell’incredibile fretta che sempre vi punge e vi caccia innanzi con furia, se non fosse stato quel nero tempaccio che cominciò ad assalirci là sull’acropoli di Ceva e imperversò poi tutta quanta la settimana seguente, vi avrei portato senza fallo, sul colle di S. Bernardo, che sta a cavaliere di Garessio, e vi avrei fatto toccar con mano come quel colle sia proprio il filo per cui l’Appennino si appicca alla radice delle Alpi, e che la natura accenna per esso la più comoda via ohe dal mare Mediterraneo possa mettere nel cuore del Piemonte.

Sapete voi che cosa è il Mediterraneo? Lasciate che facciano le strade ferrate, lasciate che speculino sui futuri accidenti felici, lasciate che d’altronde traggan gli augurii. Ma voi ritenete per fermo e saldo giudicio che la migliore e la più sicura speranza di risorgimento non solo per l’Italia ma per tutte le intorpidite meridionali contrade d’Europa sta riposta nel Mediterraneo. Oh! se mi reggesse il cuore di ripigliare gli studi nei quali mi sono ingolfato altra volta; se potessi di bel nuovo recarmi a meditare sulle leggi statuite da Giustiniano pel governo dell’Egitto, rivedere la storia del commercio degli Antichi dell’Uezio e dell’Heeren, internarmi ancora nei Secreta fidelium crucis di Marin Sanuto, riveder ciò che scrissero il Robertson ed il Depping tra i forestieri, e tra i nostrani il Mengotti, il Formaleoni, il Filissi, il Fannucci ed il Baldelli-Boni, e portar con pace la più. dura di queste fatiche, quella cioè di rileggere ciò ch’io scrìssi della colonia dei Genovesi in Galata, vorrei, giusta il pensiero caduto in mente d’un amico, mio più ingegnoso e più fecondo per ogni verso di me, stendere una compendiosa istoria di quel magnifico braccio di mare, rivelare qual vita novella per esso si apparecchi, e consigliar le imprese che condur si deggiono con amore, affinchè qoesta novella vita non rimanga del tutto infruttifera per noi e pei [p. 574 modifica]figli nostri. Cosi si vorrebbero compilare le statistiche; dire ciò che fu, dire ciò che è, dire ciò che sarà ogni volta che gli uomini non si sgomentino dell’usare le virtù del pensiero e delle braccia.

« Cerca, misera, intorno dotte prode

» Le tue marine e poi ti guarda in seno».

E si che bisogna adoperarsi a serbar vivo l’amore della navigazione; e sì che fa d’uopo guardarsi in seno, cioè proporsi a tema principalissimo il moltiplicare e rendere agevoli, il più che far si possa, le comunicazioni dal mare all’interno delle terre italiche. E questo po’ di commento all’Alighieri val meglio che il Landino, il Blanci e il Velutello e tutta quanta la lunga fila dei pedanti.

Tornando ora sul colle di San Bernardo mirate come, con dolce pendio lungo alla valle della Neva, si discenda alla pianura dov’essa si congiunge coll’Arocia e forma il torrente del Centa per lo più feconda e talvolta minaccia le amenissime campagne in mezzo alle quali s’innalzano le torri di Albenga. La storia c’insegna quanto potentissima fosse la capitale degli Ingauni e qual durissima resistenza opponessero alle aquile romane i Liguri Alpini, di cui essa era capo, prima della fatal giornata combattuta nella valle di Taggia. E le splendide reliquie dei romani edifizi, onde tuttavia s’abbella quell’illustre città, appalesano agli occhi come le sia riuscito in appresso di restaurare i danni della sofferta sconfitta. Dell’importanza di lei e della vastità del suo dominio, delle sue antiche relazioni, coll’Africa da una parte e coll’Insubria dall’altra, della sua condizione a’ tempi di Cario Magno e della dipendenza ch’ell’ebbe dagli antichi marchesi di Susa, da cui pigliò radice e gran parte di signoria la Reale stirpe di Savoia, sufficientemente discorre l’avvocato Giuseppe Cottalasso, che con assai lume di critica e con lungo amore descrisse l’istoria della patria sua. Con più leggiadria e con troppo maggior parsimonia ne ragiona l’amico mio Davide Bertolotti nel suo viaggio nella Liguria marittima. Ad ugni modo egli è impossibile che da Albenga non si spiccasse una di quelle strade, che lo stesso Bertolotti chiama di fianco, e che gli abitatori della Liguria distrussero a furia di popolo, dopo che i tristi scempi di Federico II fatti gli avevano capaci della necessità di scansare i pericoli corsi e i danni patiti. Varcato il colle di San Bernardo siffatta strada di fianco dovea necessariamente discendere nella valle del Tanaro a Garessio e condursi, sempre lunghesso il fiume, sino al punto dove riceve in tributo le acque della Stura. Date un’occhiata alla carta dell’antico Piemonte pubblicata da Jacopo Durandi, e vedete se nel bel paese havvi parte alcuna in cui si trovi l’impronta di tre rilevanti città cosà vicine tra di loro che quasi si toccano, come sono l’Augusta dei Vagienni, Pollenza ed Alba Pompeia; considerate se, ad alimentare l’operosità delle numerose popolazioni, bastassero i soli commerci della via Aurelia, che, vegnendo, da [p. 575 modifica]Tortona e passando per Pollenza, ingolfavasi nelle Alpi marittime e metteva capo al mare; osservate che gli stessi nomi di casati, di borghi e di poderi, ch’erano frequenti in Albenga, si ripetevano eziandio nella città di Alba, e poi dubitate ancora, se il potete, che fra quelle due romane città vi fossero quotidiane corrispondenze di traffico. I Romani lo intendevano assai bene il sistema stradale; seguivano le vie additate dalla più facile natura dei siti; ma non avevano ancora la polvere piria, nè i metodi perfezionati, nè i savi regolamenti di che abbondiamo noi. Non erano ancora nè scritti nè stampati i maravigliosi concetti coi quali Leon Battista Alberti insegna il metodo cosi detto delle conche; il canale di Caledonia, che con benissimo traslato chiamano scala di Nettuno, non offeriva ancora lo spettacolo di navi volanti sul giogo di altissimi colli. E pure io reputo, anzi ritengo per fermo che le frequenti comunicazioni tra Pollenza, Alba ed Albenga si esercitassero per le valli del Tanaro e della Neva, le quali si aprono quasi spontanee ad un tal fine; che vi si esercitassero non solamente ne’ bei tempi dell’imperio di Roma, ma durante que’ secoli eziandio in cui le invasioni settentrionali e gli ordini o disordini feudali cominciavano a sottentrarvi, e a distruggere l’ombra persino del vivere agiato e civile. Che bel regalo avrebbe fatto alla cara figliuola l’imperatore Ottone assegnandole in dote e dando in governo al gran padre Aleramo, marito di lei, quelle province ricche di nient’altro che de’ propri prodotti, se contribuito non avesse a renderle popolose ed importanti la frequenza dei commerci? Ritengo di più che una segreta rimembranza dell’antica prosperità commerciale di quei siti e la speme di vederla rinascere sieno state come un fluido elettrico e voluttuoso che scorse tra le vene e le fibre di coloro che intervennero al primo congresso dell’associazione agraria colà celebrato: Non sine Deorum immortalium providentissimo consilio primus fratrum arvalium conventus Pollentiæ habitus est. Così avrebbe detto Tito Livio; ma noi scrittori moderni e meschinelli, per la paura d’essere beffati, noi difettiamo sempre di magniloquenza.

Ora in tanta dovizia d’ingegneri e di macchine le quali assoggettano alle voglie degli uomini la natura, anche dove è più aspra, ora, al dir di dotti idraulici, le acque del fiume Tanaro, costeggiando il monte Galero, menar si possono sulla cima del colle di San Bernardo già più d’una volta accennato. Colà con un sistema di larghissime conche alimentate dalla ricca vena delle medesime acque possono salire le navi onuste di merci provenienti da Albenga da una parte e da Garessio dall’altra; di là con maggiore facilità discendere dall’uno e dall’altro lato. Da Garessio, mercè di un tronco di strada ferrata, senza veruno ostacolo e con insensibilissimo pendìo, i vaggoni possono giungere a Ceva. Da Ceva poi nel punto dove il Tanaro s’impingua della Bovina e della Cevetta esso fiume si può rendere navigabile, sino a Pollenza o ad Alba. Ed eccovi nel cuor del Piemonte, da dove continuando a navigare per la diritta via giungerete in brev’ora ad Asti ed [p. 576 modifica]all’importante emporio di Alessandria, e prendendo a mano stanca per meno d’un po’ di strada ferrata, vi condurrete in un batter d’occhio a Torino. Lungo il Tanaro, ridotto a canal navigabile, s’istituirebbero di per sé comodi scali por lo smercio, da una parte, dei saporiti vini delle Langhe, inospitali tarre al giorno d’oggi, dove poco manca che gli abitatori non disperino, e dall’altra per ricevere i ricchi prodotti dell’industre ed ubertosa patria vostra.

Chè dal Mondovì fa d’uopo aprire una via ferrata, lungo l’Ellero, sino a Carrù, e da Cuneo, lungo la Stura, sino a Cherasco. Questa è l’arteria che sola può sciogliere il problema di moltiplicare le comunicazioni col Mediterraneo, di dare o per lo meno di conservare moto e vita ai paesi dell’alto Piemonte e di far sì che la capitale di questi Regi Stati, il cui nome fu sa qui poco meno che ignoto ai trafficanti, possa d’or innanzi aggiungere agli altri infiniti suoi pregi quello, che nel nostro secolo di moneta tutti li supera, dell’importanza commerciale. Se ci fosse riuscito d’andar di conserva al colle di S. Bernardo, voi vi sareste convinto della verità di quanto vi scrivo, e se vi foste poscia condotto all’antico convento dei cappuccini di Bra, non avreste mancato di convenir meco che, senza aver visitato quei due punti, senza aver gettato uno sguardo d’aquila sul magnifico aspetto che dall’uno e dall’altro agli occhi si svela, niuno può farsi giudice delle comodità e dei bisogni del commercio nelle nostre contrade. E la vostra intima persuasione voi l’avreste trafusa nell’animo dei vostri leggitori, laddove io temo che il languido impallidito mio stile non trovi lettori, o seppure ne trova, non li lasci in un’indifferenza supina.

Ma ad ogni modo prevedo che questa mia tiritera incontrerà alcune obbiezioni, e che queste, com’è facile il supporre, batteranno sopra tre punti principali. Dirassi cioè 1.° che non havvi in Albenga porto alcuno per dar ricovero alle navi; 2.° che le mercatanzie deggiono essere travasate tre volte prima di giungere a Torino; 3.° finalmente, che dovendosi già erogare ingente pecunia nella costruzione della strada ferrata di Genova, sarebbe prodigalità imprudente gettarsi nel tempo medesimo ad altra impresa da non condursi senza gravissimo costo. Lievi non sono queste difficoltà, ma facendosi ad esaminarle senza prevenzione, non mi paiono impossibili a superarsi.

Non havvi porto in Albenga, lo so; ed avvegnaché dalla storia e dagli antichi statuti apparisca che molti erano i navigli degli Albingauni, i quali si cimentavano a lunghi viaggi, e quantunque per conseguenza congetturare si debba che vi fosse qualche sito idoneo a dar loro ricetto, pure non voglio nemmeno soffermarmi un istante a discorrere della stazione che i natii chiamano il porto Vadino. O che quel porto sia stato realmente, ovvero ch’e’ sia una semplice falsa tradizione, il fatto sta che a’giorni nostri più non c’è. Ma c’è l’isola Gallinaria per breve spazio discosta dalla terra, alla quale, si può congiungere con un molo, che ivi costituisca sicuro asilo ai legni [p. 577 modifica]mercantili, senza che il vento da niuna parte vi possa. Già veggo inarcare le ciglia a cosiffatta proposta e gli animi sgomentarsi al calcolo della spesa. Dal nulla si fa nulla, ab nihlio nihil fit. Ma quando rammenterete non già i docks e i canali scavati in Inghilterra e nella Francia, chè questi son paesi di troppo pingue finanza, ma sibbene il dock di Carlscrona, i docks ed il canale di Gozia, scavati nel duro granito, e da chi? dagli Svedesi, i quali altra ricchezza non hanno che un po’ di ferro, stimerete ch’io non proponga cosa la quale ecceda le forze nostre; ed ove sia tuttor tenuta a troppo gigantesca l’impresa, piangerete che nella fusione delle italiche schiatte siensi del tutto smarriti i generosi effluvii del seme onde nacquero i maestri che nelle terre d’Italia edificarono i muri ciclopei. Questa difficoltà verrebbe da picciolezza di cuore; e se v’ha chi la muova, sia rimandato a leggere l’aureo volumetto stampato in Genova nel 1842 dal’marchese Camillo Pallavicini.

Più grave agli occhi di taluni parrà la difficoltà dei triplici travasamenti. Morsicati dalla tarantola molti, dopo aver caricato la derrata e la persona, non vedono l’ora di giungere. Dàgli, dàgli, galoppa, galoppa; più frettoloso cammini, più presto giungi alla meta. Ma bada bene che la meta di tutte le umane cose (triste sentenza!) è la morte. Queste ultime parole, affinchè non falliscano l’effetto a cui mirano, vogliono essere pronunziate con tuono cupo e sepolcrale e con cipiglio molto severo; e poi si dee soggiungere con voce rimessa: «alla morte è meglio andare il più adagio e il più tardi che si può». Ma lasciamo andare queste sceniche farse. I travasamenti delle mercanzie, giusta il mio sistema, dovranno dunque, lungo la linea di cui si ragiona, essere tre; vi vorranno ampii magazzini ed una schiera di facchini in Garessio, In Ceva, in Pollenza od in Alba. Non è poca cosa davvero! Ma e perchè mai i travasamenti danno tanto fastidio e tanta tremarella ai trasportatori ed agli spedizionieri? Perchè cagionano perdita di tempo ed aumento di spesa. Ma la perdita del tempo non mi sembra doversi calcolar molto nel nostro caso. Isocrate ha cantato le lodi di Atene, ed io quelle di Albenga. Con tutto ciò non le ho assegnato il vanto Siesssere arbitra della moda. Perdona, amata figlia d’Ingauno, ricca dei doni della natura, troppo tu trascuri i fregi dell’arte per diventare il figurino del giornalin delle dame. E voi ben sapete, o Baruffi, che niun’altra derrata ha bisogno di correre frettolosa come le nuove fogge create e prescritte dalla volubile dea. Ogni mercante vuol essere il primo a smerciarne, ogni bella essere la prima a fregiarsene. Gli oggetti che passeranno per la strada proposta non saranno già i cappellini del signor d’Herbelot, non le vesti, i camagli, o le berte di madama Palmira; saranno i cotoni greggi, i pesci salati, le corna, le pelli, lo zucchero, il caffè e le altre spezierie che manda il gran padre Oceano; saranno i prodotti del suolo, vale a dire gli olii di Oneglia e di Nizza, la lignite d’ottima qualità e di facile scavazione, di cui son pregni i nostri monti: i marmi, le legna, il carbon vegetale, i cereali, i vini, [p. 578 modifica]i tartufi dei paesi adiacenti, e per ultimo i pistolografi: chè se in mole v’assomigliaste a me, basteremmo in noi due a caricare una barca. Qual havvi premura che tali merci giungano un giorno prima o un giorno dopo? I consumatori sono sempre apparecchiati. Resta a1 discorrere della spesa. Mi sono provato a fare le mie ragioni per questo rispetto, ma non essendo profondamente versato nelle dottrine del carrettiere e del barcaiuolo, confesso che non me ne fido abbastanza per pubblicarle. Onesto ben vi so dire che il trasporto per acqua è molto men costoso che non per virtù del vapore, massimamente in un paese dove il carbon fossile è tuttavia un problema nascosto nelle viscere delle montagne. E così, la via di cui si tratta, essendo parte per acqua e parte per istrada ferrata, stimo non debba essere priva di fondamento la speranza che una tonnellata di mercatanzia caricata ad Albenga possa giungere a Torino con una spesa uguale a quella a un dipresso che costerà un’equipesante quantità di merci che giunga alla capitale per la strada ferrata di Genova. A siffatti cómputi si dovrà poi aggiungere l’economia e il maggior comodo dei produttori e dei consumatori locali per quei prodotti ch’essi hanno a smerciare, i quali, senza di ciò, resterebbero fondi di niun valore, e per quelli che denno ricevere. Di più i travasamenti considerar si vogliono come un gran benefizio alle popolazioni intermedie. I piccoli guadagni sono una rugiada d’amore, una manna per la gente minuta. Son troppo tenui per riporne parte nel salva-danaio; si raggirano tre o quattro volte al giorno, quindi procacciano occasione di lavoro ed alimento di vita a più persone. Essi giovano mirabilmente a liberarvi dai mendici, i quali crescono a dismisura dove alla mercede si sostituiste l’elemosina, quantunque scarsa ella sia; chè non ebbe torto il gran Bellingeri allorché v’insegnava essere il digiuno potentissimo aiuto alla procreazione. Le città capitali s’accrescono anche più dd dovere, e se queste Babilonie centralizzanti s’impinguano oon pregiudizio e discapito delle province, tale accrescimento è una vera cefalalgia, è segno di morbo e non già di salute. Trovate una persona di membra estenuate e sottili, avente il capo grosso come una botte; poi dite a Fidia che la pigli a modello per far la statua di Giove Olimpio o dell’Apollo di Belvedere.

E s’egli è vero, come si va dictitando, che il trasporto delle mercatanzie per la strada ferrata da Genova a Torino costerà un terzo di meno di ciò che costa oggidì, se questa non è vana speranza; oh poveri paesi dell’alto Piemonte! oh misera patria mia, che fosti ricco emporio altre volte di ragguardevoli commerci, capitale di provincia e di circondario, tu che coll’ardimento de’ tuoi figli snidasti dalla tua cittadella un forte presidio nemico, ridotta ora, in premio di tanta fede e di tanta virtù, alla meschina condizione di semplice capo-luogo d’un mandamento di quarta classe! Più non fia che ti consoli il cigolìo delle ruote di un carrettone, ìe tue arenarie non echeggeranno più alla canzone, al fischio del carrettiere, nè allo schioppettio [p. 579 modifica]del suo flagello; tu siederai addolorata e sola, patria dell’idillio e della fame!

Veniamo ora alla terza ed alla più grave di tutte le difficoltà, a quella cioè che nasce dal dire che sarebbe spensieratezza mettersi a novella impresa, mentre già la maggior parte dei mezzi vuoi essere assorbita dalla costruzione dei varii rami di strada ferrata che mettono capo a Genova. Ahi quante belle e grandi e piccole imprese vanno a monte per la mancanza dei nummi! all’ignavia di quanti serve di pretesto e di scusa il difettar del danaro! Pei prodigi dell’antica sua istoria, di cui la parte più splendida sta nel commercio, per causa del suo avviatissimo porto, pel numero dei doviziosi mercatanti che v’hanno stanza, Genova meritava senza fallo la preferenza; e non peno a comprendere, e debbo pur confessare che dovendola fare coi fondi del governo, la prudenza vuole che questo non si accinga per ora a fatiche novelle, atte a far credere che trascurar si voglia ogn’altro ramo di pubblico servizio e di pubblica prosperità, da quello in fuori delle strade ferrate. Ma fondi del Governo non sono i soli mezzi coi quali si conducano si vaste e così illustri imprese. Veggo che negli altri Stati, dove un maggior bisogno d’operosità si appalesa, il metodo il quale con savio consiglio venne da noi adottato, s’avvicenda e s’alterna con quello delle compagnie, posti gli opportuni confini e le provvide cautele idonee, a salvar le sostanze dei privati dalle insidie degli speculatori sottili. Non coi soli danari degl’ingegnosi, ma non troppo ricchi Toscani s’aprono e stan per aprirsi le innumerevoli vie che solcheranno tra breve la superficie del gran ducato. Ad una colà si accenna che da Livorno dovrà per Pontremoli condursi a Modena. Affine di controbilanciarne gli effetti è conveniente che questa via d’Albenga pel Tanaro si faccia. E tal convenienza meglio che non altrove vuol essere sentita in Torino, dove non mancano gii uomini che sanno profondarsi nell’esame delle più ardue questioni, e comprendere che, per salire all’utile grado di emporio operoso, non basta che una città abbondi di consumatori, ma fa di mestieri che sia luogo opportuno al transito e comodo agli scambi. Le provenienze di Genova le vengono di traverso, e, per cercar loro una continuazione di via, v’ha chi con nobile ardimento pensava doversi aprire lunga spelonca nel fianco delle Alpi, per giungere senza troppo rapide salite dalla valle della Dora sino a quella dell’Arc. Ma le Alpi son esse di si severo contegno, che sembra più facile vezzeggiarle al di fuori che non piantarvisi dentro, fintanto che meglio conosciuto dagli uomini il modo di usar la forza elettro-magnetica, non ci suppediti la virtù di perforarle da banda a banda. Laddove le provenienze di Albenga giungerebbero a Torino per la diritta via; e per diritta via trasmettere si potrebbero al lago Maggiore dal Ticino, o mercè di una strada ferrata o per via di quel canale che venne, non son molti anni, ideato e proposto dal valente ingegnere milanese il signor Carlo Parea. In vista di così sterminato vantaggio come mai si chiuderebbero le [p. 580 modifica]borse dei capitalisti torinesi? Una ciliegia tira l’altra, ed ai nostri capitali verrebbero tra non molto a congiungersi i capitali stranieri. Per ora basterebbe che il governo si mostrasse inclinato ad accoglier favorevolmfente le proposte che gli verrebbero inoltrate per un tale oggetto. Che se, dopo fatti gli studi ed i cómputi, pur si scorgesse necessario il compenso di qualche sacrificio; chi dubita non sia per farlo volontieri un paternale governo che, molto spendendo per una parte degli Stati suoi, non vuol patire certamente che l’altra languisca per difetto di lieve soccorso? Del resto rammento gli anni miei giovanili, allorché studiando in Vitruvio, ammirava la somma cura posta dagli antichi maestri nell’aprire i vomitorii negli edifizi de’ teatri, affine di agevolare senza pericolo lo scolo degli spettatori affollati, ogni volta che il fuoco appiccato nell’auleo o al velabro, o una dirotta pioggia fosse sopragiunta importuna ad affrettarne l’uscita. Ora é sereno il cielo; non una nube leggera offusca la bella faccia del sole. Ma quando giungono i tempi grossi, allora si scorge quanto rilevi che la casa non abbia una porta sola. Mi vien da ridere al vedere certi andazzi abbandonati, certe dottrine ieri derise tornar oggi in onore. I fisiologi non rinnegano più il fluido nerveo, ed io v’offro un saggio delle oscurità profetiche del Nostradamus. Povera umana razza, perpetuo trastullo di chi ti canzona, non insuperbirti almeno della tua sagacità nè della tua costanza! Basti questo lievissimo cenno; chè non veggo gl’improvidi tra la gente che mi circonda, e l’effettuazione delle strade ferrate ridesta le menti assopite. Di cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Chi sa che il tempo non incarni il disegpo da me appena abbozzato fin qui? La è un’utopia, sento bisbigliarmi dintorno. Sarà. Ma e chi non fa le utopie all’età nostra, che tante ne vide mandarsi ad effetto? La schiatta di Tommaso Moro s’è moltiplicata come le arene del mare, e le utopie sono entrate nel luogo dei dilettevoli racconti di Falerina e di Armida. Se poi la voce mia andasse perduta nel deserto... tanto peggio; qualche danno di più, qualche vantaggio di meno, e direi con Orazio: «Lusimus, abbiamo scherzato»; niuno si adombri agl’innocentissimi scherzi!

Intendeva di scrivervi una semplice letteruccia, ed ecco ch’essa è cresciuta a forma di lungo dispaccio da disgradarne la più sbrodolata legazione dell’universo. Ma l’economia politica è in gran parte scienza di applicazione; in essa pochi sono i maestri, per lo più concisi, molti i ripetitori, sempre prolissi. Credo ch’essa debba mirar principalmente a secondare i voti della natura, a volgere a comune benefizio i comodi ch’essa ci porge. Di più, sapete che al congresso degli scienziati in Milano feci grandissimo plauso al pensiero che dettò il bellissimo libro delle notizie naturali e civili della Lombardia, nobile pensiero del dottore Carlo Cattaneo, il quale vorrebbe che libri di tal fatta si sostituissero alle semplici guide della città dove si celebreranno i futuri congressi. Se nel 1846 Genova adotta un cosiffatto pensiero, gli è una maniera di debito portare il nostro obolo a quel tesoro [p. 581 modifica]comune. Le cose già falle, i comodi già aperti sono il patrimonio, lo strumento di vita per quelli che sono; i comodi da aprirsi e le cose da farsi costituiscono il penso, il patrimonio e gli stromenti di vita per quelli che denno venire. Ed oltre a ciò, proponendo che invece di una sola vi sieno per noi due agevoli vie al mare Mediterraneo, mi premeva di far ricredere gli amici e dimostrar loro ch’io non sono avverso a quel ben inteso progresso di cui voi siete apostolo candidissimo.

Con tutta l’effusione del cuore sono il vostro affezionatissimo

Torino, 11 marzo 1845.

Sauli.


Nota. — Abbiamo creduto conveniente inserire la lettera del nostro amico, quantunque non ci persuada quella sua idea di fare un porto ad Albenga, poiché si hanno su quelle spiaggie nello Stato sardo altri porti già avviati e sicuri; e quantunque neppur si approvino da noi quelli che vorrebbero sostenere convenienti i replicati travasi, e dimostrare chimerico il divisato traforo dell’Alpi.

Sebbene coteste idee siano enunciate forse per celia soltanto, ed al fine di meglio far gradire l’idea più seria d’un avviamento de’ traffici per la diletta sua patria, ora, invero, a men felice condizione ridotta; — e sebbene cotesto spiritosissimo modo di trattare cose gravi, malgrado l’oraziano detto invocato, da tutti non sia approvato; quand’anche suppongasi usato ad arte, come già fu dal Galiani per far penetrare pensieri che altrimenti non potrebbero forse aver adito; sta in fatto che l’opinione del Sauli, posto specialmente a parte il porto d’Albenga coi suoi docks, che il Pallavicini propose a Genova, e non altrove; — e tralasciato anche il canale a conche, sforzo lodevole de’ tempi antichi, oggi men utile e di soverchio dispendio; sta in fatto, ripetesi, che l’opinione del Sauli non è poi nè strana, nè difficile , o di poco pregevole applicazione, come vollero taluni.

Quando dal Varo oltre Nizza al mare, là dove ha confine lo Stato sardo suddetto, una linea ferrata corrispondente con altra, la quale tosto verrebbe di Francia a collegarsi con essa, si continuasse in riva al mare; e superando i varii capi o promontorii, i quali sembrano ostacolo, con non lunghi trafori, venisse fino al piano su cui giace Albenga; — quando da quel punto per la valle che conduce al colle detto di San Bernardo, questo si superasse, come è facile, con non lungo traforo, onde giugnere nella valle del Tanaro, scendendo la quale per Ceva ed Alba s’arriverebbe in Asti alla linea condotta da Torino in Alessandria ed oltre; — quando nella detta valle del Tanaro, là dove in esso entra la Stura, a Pollenzo, superata la conca di questa, salito il vallo, onde vassi alta popolata e trafficante città di Bra, pel pianoro ove questa giace, s’arrivasse a Savigliapo, centro delle relazioni del [p. 582 modifica]Piemonte, per andar quindi a Racconigi e Carmagnola, da dove a punto più opportuno si potrebbe entrare nella detta via che da Torino a Genova sarà rivolta: non è a dubitare, che siffatta linea dall’estero in riva al mare all’interno dello Stato condotta, potrebbe singolarmente avvivante le relazioni commerciali. — Sarebbe essa linea inoltre un sicuro succedaneo per corrispondere dalla Francia all’Italia con una via ferrata, nel caso che le altre divisate vie incontrassero ostacoli insuperabili, — porgerebbe dal Piemonte alla Provenza mezzo di versarvi i tanti nostri prodotti, or già colà difficilmente per aspri monti avviati. — Darebbe alla valle del Tanaro ed alle circostanti province, taluna delle quali (le Langhe) per difetto di traffico è ora in poco felice condizione economica, un impulso di attiva operosità, onde ne avverrebbe per esse una felicissima mutazione di cose. — E se, come vuolsi proposto, si stabilisse nella detta valle del Tanaro, a Garessio, dove ferro, legname e lignite diconsi abbondare, un opificio meccanico, il quale fabbricasse il materiale occorrente alle vie ferrate dello Stato sardo; il quale opificio potrebbe col tempo anche provvedere il resto della Penisola; un’altra fortunatissima mutazione di cose si procurerebbe a quelle contrade, onde nascerebbe larga sorgente di vita e di profitti allo Stato intero.

Arroge a questi vantaggi innegabili quello di collegare con un non luogo tunnel sotto Montalbano il vasto e securo porto di Villaficanca a Nizza per modo, che questa città, il cui porto di Limpia, sì angusto ed insufficiente, non concede di’estendere il suo traffico marittimo, ben tosto diventerebbe un altro emporio, che lo Stato sardo avrebbe molto profittevole ed in certe date emergenze anche più opportuno lll’esportazione de’ suoi prodotti per quella parte, tra i quali gli olii, le canape, il riso.

Queste vantaggiose possibili condizioni, nelle presenti circostanze d’ardite imprese chiarite non tanto difficili, solo potrebbero trovare nell’ordinamento loro un ostacolo, quello del forse fondato timore di non ritrarre dall’intera linea dal Varo in Asti ed a Torino prodotto adequato alla spesa di essa; posciachè codesta linea sarebbe tra quelle secondarie, che nel sistema misto cui incliniamo, è conveniente, a parer nostro, lasciare all’industria privata con una concessione temporanea.

Quando quella però volesse assumere l’impresa, noi la riputiamo cosi profittevole al commercio interno, ed anche in parte a quello estero degli Stati sardi, che avvisiamo degno dell’illuminato e solerte governo che li regge, di accogliere favorevolmente le domande che per avventura fossero al proposito insinuate; con che, ben inteso, siffatte domande avessero tutti i caratteri di realtà che potrebbero renderle caute e positive; nè fossero a solo fine di giuoco formolate.

Dopo aver toccato cotesto tasto, ricordiamo ancora le cose dette al capitolo 5.° del Discorso III intorno alle altre linee interne che si potrebbero aprire negli Stati preallegat. [p. 583 modifica]A quella accennata da Savigliano a Torino procederebbe, come fu detto prima, la proposta via, che arriverebbe dalla valle del Tanaro diramata sul pianoro che separa Bra da Savigliano.

Quand’anche non potesse quella diramazione attuarsi, sempre utile sarebbe una linea che dal solo punto di Savigliano partisse, a Racconigi ed a Carmagnola rivolta, per raggiugnere la linea governativa da Genova a Torino prima ch’essa passasse il Po a quel punto che sarà determinato.

Savigliano è, come già si è detto, centro delle relazioni dell’intero Piemonte. Le provenienze di Saluzzo e della valle del Po, come quelle delle valli di Vraita, della Maera, della Stura e della Vermenagna; e quelle del Mondovì e della valle superiore del Tanaro, ed anche della Riviera di Ponente nella sua parte estrema, verso la Provenza, tutte sarebbero condotte, come or già sono in gran parte, a quel punto centrale ed in maggior copia per arrivare più sollecitamente a Torino.

Questa naturale condizione di cose promette ad una siffatta linea un avviamento tale, che può presumersi atto a compensarne la d’altronde non grave spesa, attese le poche difficoltà che incontrerebbe l’opera.

Questa pur converrebbe lasciare all’industria privata, senza necessità di speciale sussidio però, e con sola concessione temporanea. — E, se male non siamo informati, già una società sta ordinandosi col lodevole scopo di rassegnarne al governo la domanda, la quale domanda giova sperare che sia accolta con quelle cautele atte a premunire dai pericoli del giuoco, di cui abbiamo tante volte parlato, e che perciò è qui inutile ripetere.

Abbiamo pure toccato all’indicato capitolo d’una linea da Pinenolo a Torino, dichiarandola facilissima, molto produttiva per gran concorso, epperciò di somma convenienza.

Confermando queste asserzioni, aggiungiamo che due partiti si presentano, i quali converrebbe accuratamente studiare prima di risolversi. Primo, quello della linea retta da Pinerolo a Torino più breve, men costosa per le occupazioni di proprietà di minor prezzo e meno estese,e di nessuna difficoltà quanto ai ponti ed altre opere d’arte, in numero minimo occorrenti. L’altro, quello di adottare una linea più lunga Che per Buriasco, Vigone e Carignano venisse incontrare la linea da Genova a Torino al punto che sarebbe giudicato più opportuno.

Questa linea sarebbe assai più costosa per la sua maggiore lunghezza; per il più caro prezzo degli ubertosi terreni che converrebbe occupare; pei ponti in ben maggior numero e più ragguardevoli, che sarebbe necessario di costruire lungo di essa. In compenso avrebbe forse il vantaggio di raccogliere molte popolazioni agglomerate, già di presente solite a venire a Torino per ogni occorrenza loro.

Un calcolo comparativo, istituito sulle probabili risultanze delle due speculazioni, potrà servire di norma alla società, il cui ordinamento dicesi combinato per attendere a siffatto assunto. [p. 584 modifica]Noi, sprovvisti degli occorrenti riscontri, ri asterremo da un giudicio, il quale sarebbe per ora prematuro; ristringendoci ad affermare, che nell’una o nell’altra direzione la speculazione non può fallire, scelta che sia la linea più conveniente; laonde confortiamo i fondatori a proseguire nel concepito divisamento, convinti come siamo dell’utilità d’esso, e della sollecitudine del governo nel favorirlo, accordando una concessione temporanea, osservate pure le sopraindicate cautele.

Dopo aver parlato di queste due linee interne rivolte alla capitale da quella parte dello Stato sardo, bastevoli, a nostro parere, ad accrescerne singolarmente le relazioni personali e di traffico: di due altre, da un’altra parte provenienti, ci resta soltanto a parlare, come possibili all’eventualità d’un già preveduto caso.

Al citato capitolo 5.° del Discorso III preallegato vedemmo col tempo probabile, perchè possibile, e da sufficienti prodotti compensata, una lined diretta tra Torino e Milano, la quale per Chivasso, Vercelli e Novara condoducesse al confine sul Ticino, dove abbiamo presunto non difficile tanto come altrove il congiungimento d’una linea lombarda, che, in fin di conto, ivi arriverebbe pure.

In questo caso sarebbe conveniente una linea minore, la quale da Ivrea per la valle della Dora Baltea venisse a congiungersi alla linea da Torino a Milano verso Cigliano.

Questa linea, che raccoglierebbe molte provenienze della popolatissima provincia del Canavese, e tutte quelle dell’industriosa valle d’Aosta, potrebbe essere d’un prodotto sufficiente forse a compensarne la spesa. Una società si troverebbe probabilmente pertanto, che assumerebbe l’impresa, e sarebbe convenientissimo all’universale interesse di accoglierne la domanda con favore, senza sussidio alcuno però, ed in via temporanea sempre, coll’osservanza, ripetesi, delle suggerite cautele.

La provincia di Biella, dove tanti sono gli opifici, avrebbe pure in quel caso somma convenienza di collegarsi con una linea particolare, alla detta linea prindpale da Torino a Milano, all’incirca verso lo stesso punto, o non molto da esso lontano; ovvero ancora di venire per quella d’Ivrea raggiunta al punto cereduto più conveniente.

Il partito da prendersi in tal caso dovrebb’essere preceduto da accurati studi, i quali chiarissero i punti e le direzioni meno costose e più atte a chiamare un grande concorso alle divisate vie.

Mercè di queste linee interne minori, lasciate, ripetesi, colle volute cautele all’industria privata, gli aviti domìni della real casa di Savoia avrebbero una compiutissima rete di vie ferrate, la quale grandemente ne accrescerebbe l’attività commerciale, e cogli utili d’essa la ricchezza e la prosperità.

Allora può presumersi che l’agricoltura degli ubertosi terreni del [p. 585 modifica]Piemonte non tarderebbe a perfezionarsi ancora, incitata come sarebbe dalla prontezza, somma facilità ed economia delle comunicazioni.

Allora l’industria manifatturiera potrebbe avere un ben più esteso sviluppo, perchè il più facile e men costoso arrivo delle materie prime, il pur facile ed economico trasporto de’ manofatti, sarebbero un immenso incitamento ad un sempre crescente lavoro più sicuro di spaccio.

Allora pertanto la somma degli utili maggiori ricavati, successivamente cumulata, accrescerebbe i capitali privati, e viepiù aumentandosi la produzione loro, ne deriverebbe quella generale ricchezza, che è la meta cui tende l’onesto lavoro, quando, tenuto conto delle imperfezioni che sono inseparabili dall’umana natura, si cerca però di mitigarle colla migliore educazione, e con appropriata istruzione.

Allora un governo, sempre notato per paternale saviezza, mutando nel presente progresso le sue tendenze, indirizzate non più allo stato agricola soltanto, come altre volte, ma anche a quello industriale, come il richiedono l’aggregazione delle nuove province, e la pure variata condizione de’tempi, proverà con sì accorto procedimento, che, professando i veri princìpi d’un savio pubblico reggimento, sa far servire l’autorità direttiva e tutoria onde fu dalla divina Provvidenza investito, al maggior bene de’ popoli ch’essa gli ha confidati.

Allora, finalmente, le benedizioni di questi, che gli ottimi prìncipi della real casa di Savoia sempre seppero procacciarsi, aumenteranno ancora e tramanderanno alle più tarde età la fama d’un governo forte, illuminato, paterno.

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