Delle speranze d'Italia/Capo V
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CAPO QUINTO.
della confederazione degli stati presenti
1. Ma il fatto sta che tutti questi o rimasero puri sogni ineseguiti o passarono tutt’al più ai primi e vani atti d’esecuzione; che la loro stessa moltiplicità e la loro non riuscita provano il piccol numero di chi s’abbandonò a ciascuno, o forse a tutti insieme; che la grandissima pluralità degli Italiani, tutti quelli di qualche pratica o di qualche senno, non tennero nè tengono per possibile nè desiderabile nè niuno sminuzzamento nè niuna riunione universale degli Stati esistenti; e che non desiderano, non sono pronti a promuovere di lor concordia, se non quel progredir dalle cose presenti alle future, il quale fu sempre il solo giusto e il più util modo di mutazioni, ed è desiderio, vanto, carattere, virtù speciale dell’età nostra.
2. Ora, quando un’opinione si vien facendo universale, ella non tarda a trovare un interprete. E questa dell’ordinare sul presente il futuro della nostra Italia, ne ha trovato uno eloquentissimo, il Gioberti. Noi riconoscemmo già in lui il merito d’aver parlato il primo opportunamente delle cose future italiane. Riconosciamogliene ora un altro; d’averne parlato secondo giustizia, fondando le speranze future su’ diritti e doveri presenti, proponendo una confederazione degli Stati ora esistenti.
3. Le confederazioni sono l’ordinamento più conforme alla natura ed alla storia d’Italia. L’Italia, come avverte molto bene il Gioberti, raccoglie da settentrione a mezzodì provincie e popoli quasi così diversi tra sè, come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa; ondechè fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste provincie. E come in Europa rimasero, salvo le brevi eccezioni, quasi sempre distinte quelle sue divisioni di Britannia, Gallia, Spagna, Germania, Italia e Grecia; così nell’interno della penisola nostra rimasero quasi sempre distinte: la punta meridionale, la valle Tiberina co’ suoi monti e sue maremme, il bel seno dell’Arno, e l’Italia settentrionale divisa o non divisa in occidentale ed orientale; la Magna-Grecia o Regno di Napoli, il Lazio o Roma, l’Etruria o Toscana, la Liguria o Piemonte, la Insubria o Lombardia, con nomi e suddivisioni varie ma tornanti alle primarie. Ma ei vi son pure somiglianze in queste varietà; unità in queste divisioni, communanze di schiatte, di lingua, di costumi, di fortune, di storie, d’interessi e di nome tra queste provincie italiane; è una antica ed incontrastabile Italia. E quanto men sovente queste comunanze si manifestarono in produrre uno stato universale italiano, tanto più sovente elle produssero confederazioni or provinciali or nazionali. — Nella storia primitiva è sola illustre la confederazione delle città etrusche; ma quanto più si va studiando, tanto più si trova il medesimo ordinamento comune tutto all’intorno. Non sono dubbie oramai una confederazione Latina, una Sannite, una Gallo-Cisalpina; e sono poco men che certe una Sabina, una Umbra, una Ligure, una Veneta e forse altre. Delle quali non so veramente se gli storici antiquari troveranno monumenti sufficienti a dimostrarle; ma so bene, che, senza supporle, gli storici filosofi o spiegatori non ispiegheranno mai nulla dell’Italia anteriore ai Romani, e poco forse della Romana. — Ad ogni modo, riunite e poi sciolte dall’imperio, le città italiane non tardarono a rifar confederazioni. L’indipendenza serbata da Roma, da Venezia, dalle città dell’Esarcato e da parecchie meridionali per due secoli contro a’ Longobardi così forti e così vicini, non si spiega con gli aiuti dei Greci deboli e lontani; non si può spiegare se non colla esistenza di confederazioni, quali che fossero, simili a quella accennata indubitabilmente dal nome della Pentapoli. E se così fu, si potrebbe forse far risalire a Gregorio Magno la rinnovazione delle confederazioni italiane. Ma io crederei che debbasi tal somma gloria a quel Gregorio II, il quale sin dal principio del secolo viii riunì sotto la presidenza sua una confederazione di città poco diversamente indipendenti quinci e quindi da’ Longobardi e da’ Greci; quel Gregorio II, che aspetta solamente uno storico o biografo o monografo, per esser posto pari a qualunque de’ maggiori papi politici. I successori del quale poi, lasciate improvvidamente le confederazioni, chiamati i Franchi ed avutane signoria su Roma ed altre città, serbarono queste più o meno indipendenti parecchi secoli, non con altro modo se non tornando alle confederazioni. E Gregorio VII, in mezzo a tutte le sue grandezze, fu grandissimo confederatore di città; intorno a Roma, in Toscana, in Puglia, intorno a Milano. Ma il confederatore massimo fu Alessandro III, la confederazione grandissima fu la Lega di Lombardia: quella che essa pure (vergogna nostra) aspetta uno storico. Dall’elezione di Gregorio VII alla pace di Costanza, dal 1073 al 1183 corre un lungo secolo, solo o sommo della virtù politica italiana, il secolo ove nacquero que’ Comuni, quella indipendenza, quel primato di civiltà e coltura, onde poi la civiltà e la coltura di tutta la Cristianità. Che se non furono ben ordinati que’ Comuni, non compiuta quella indipendenza, non durevole quel primato nostro, colpa fu, colpa sola ma incommensurabile, di non avere allora fatta continua ed universale in Italia quella confederazione temporaria di Lombardia. Ma che? non eran maturi i tempi; era appena nascente la civiltà; non si sapeva quel sommo dogma politico che la indipendenza si vuol compiere prima di tutto; non s’immaginava nemmeno una indipendenza compiuta dall’imperatore romano. Sciolsesi la lega in parte fin dalla tregua di Venezia, sciolsesi del tutto nella pace di Costanza; pattuironsi, ottennersi i troppo esclusivamente desiderati diritti regali dai Comuni; ma ottenendoli ad uno ad uno, si sciolse la lega, si perdette il più bel frutto della vittoria. E corsi dieci altri anni, i grandi propugnatori della indipendenza, il gran Comune centrale, il capo già della lega, Milano, troppo stolta, festeggiava con applausi e solennità di che restano deplorabili descrizioni, quel matrimonio di Arrigo VI di Svevia con la erede di Puglia e Sicilia, che fece impossibile per gran tempo il compimento d’indipendenza, irrimediabilmente perduta per molti secoli l’occasione. — E sorsero poi una seconda Lega lombarda, una toscana e forse altre; ma tutte minori, anche meno pretendenti, anche meno fruttifere, e talor dannose; leghe di parti più che nazionali, fin verso il fine del secolo xv. — Quando, Lorenzo dei Medici (quel Lorenzo che alcuni osano mettere in fascio e vituperare insieme co’ Medici del degenere Seicento), il magnifico Lorenzo immaginò, trattò e adempì la più ampia confederazione che sia stata mai di Stati italiani. E non durò il grand’esempio, pur troppo: un decennio all’incirca. Ma questo non è distante da noi, se non di tre secoli e mezzo, non è di età e d uomo barbaro; è dell’età e dell’uomo più civile. e più colto che sia stato mai in Italia e forse altrove. — Morto lui, sorto Ludovico Sforza il gran traditore, disceso Carlo VIII, e seguendo i secoli delle preponderanze straniere, si spense ogni uso di confederazioni, non fecersi quasi nemmeno alleanze italiane. Anteponevansi da ciascuno le straniere, o come più forti, o come meno invidiose.
4. E quindi non parrà strano ormai ciò che ridico: che la proposizione d’una nuova e continua confederazione italiana, la proposizione di fare compiutamente e durevolmente colla civiltà adulta ciò che la fanciulla non seppe se non incompiutamente e temporariamente, è più che un evento letterario, è un fatto nazionale. Non importa, che altri possa pretendere d’aver avuta od anche espressa la medesima idea. Delle idee come dell’invenzioni ha men merito chi le concepisce o le accenna adombrate, che chi le svolge in modo da divulgarsi ad utile comune. Nè importerà che l’idea proposta sia criticata, migliorata o guastata da altri poi; egli è appunto da tali incontri che può venir la luce, da tali discussioni l’opinione, dall’opinione universale la possibilità dell’esecuzione. Ed aggiugnerei, che non è se non dal passar così ne’ tre gradi di discussione, opinione, ed esecuzione che può venire il sommo grado di gloria al proponitore; se non che, volendo disporre un Gioberti a tollerare contraddizione, mi paiono più a proposito argomenti di patria utilità che non di propria gloria. Egli non ha voluto senza dubbio dare un’idea morta, ma una viva; non una immobile, ma una capace di progredire; non un’utopia da rimaner proprietà dell’autore, ma un gran pensiero da diventar nazionale, e soprattutto efficace.
5. Epperciò noterò arditamente una che mi pare esuberanza, ed una che mi pare deficienza nella proposizione di lui. — Quando d’un ordinamento proposto sono incerti il tempo, l’occasione in che si eseguirà, e chi, quali e quanti l’eseguiranno, quali interessi lo moveranno e vorranno essere rispettati, quale opinione pubblica regnerà allora, l’aggiugnere particolari panni esuberanza, difficoltà aggiunta alle difficoltà naturali. Non che questo preveder lungo sia (come dicono alcuni) quasi usurpazione d’uffizio contro alla Provvidenza. Lunganime è la Provvidenza, nè si offende di chi con animo sincero e rispettoso tenta indovinarle gli arcani; il nostro Dio è Dio geloso contro a chi il tradisce, non contro a chi si addentra in lui con amore e fiducia. Ma più gelosi sono gli uomini, e fra lutti, gli uomini di stato; e lasciano bene, talora, che noi uomini di penna spaziamo sulle generalità; ma se scendiamo ai particolari, di che pretendono essi la privativa, allora ei sono pronti a farci mal viso; a rimandarci al nostro mestiero, ad annientare di un tratto l’idea proposta, sotto i nomi d’idea da scrittore, da filosofo, da sognatore. E noto il detto usuale di Napoleone, che qualunque idea non gli andasse a grado, o s’opponesse alla pratica sua, la tacciava d’Idealismo. E molti uomini di pratica, senza esser Napoleoni, hanno preso il modo di lui; e perchè non quadra alla pratica un particolare aggiunto all’idea della confederazione italiana, diranno o dicono: filosofia! e passan oltre. A me par più giusto dire: è idea senza paragone più vicina a pratica che niuna delle proposte finora, salvo forse un solo particolare, che convien dunque esaminare.
6. L’idea di dar fin d’ora al papa la presidenza della confederazione futura, è senza dubbio una magnifica idea) fu idea, fu fatto incontrastabile del medio evo. E questo fatto, oggetto già di scorno in bocca a storici e filosofi volontariamente od involontariamente ignoranti, è col progresso della scienza diventato oggetto dell’ammirazione e della gratitudine di molti scrittori più sinceri o meglio informati. Ma potrà egli mai restaurarsi tal fatto? E quello dei terzo gran primato d’Italia, sperato insieme come conseguenza? Io dirò schietto e con molti: crediam difficili e l’una e l’altra restaurazione. Difficili sono per sè le restaurazioni tutte. Di cento ideate s’arriva appena a tentarne dieci; di dieci tentate se ne compie una; e quest’una compiuta non suol durare senza modificazioni, rimane men restaurazione, che mutazione nuova ella stessa. La confederazione sarebbe pur essa restaurazione; già difficile dunque per sè, in generale; non v’aggiungiamo la difficoltà maggiore dell’imitazione più particolare. Quando quei Gregori I, II e VII, ed Alessandro III, ed Innocenzo III restaurarono le confederazioni italiane, essi non imitarono già così particolarmente i modi delle antiche; nè Lorenzo imitò i modi di quelle non antiche ma già antiquate; tutti questi ne inventarono delle nuove, secondo i tempi. Imitiamo anche noi, o i nostri nepoti, non i particolari, ma gli autori delle opere grandi; quella è, in ogni cosa, imitazione sempre servile, questa sola talora grande. — Del resto noi crediamo, che nè il sommo pontefice il quale regna ora con quel nome ben augurato de’ Gregori, nè i successori di lui, nè i buoni e sodi servitori di essi, non desiderano nè desidereranno mai più siffatte presidenze; come i sodi Italiani non desiderano all’Italia quel gran primato, che pur fu, ma non può esser più nemmen esso, in niun futuro prevedibile. Non sono più i tempi delle dispute d’Egemonia fra quelle repubblichette greche in cui era raccolto tutto il fior d’una nuova e stretta civiltà; non più i tempi delle dispute d’imperio tra Roma e Cartagine, che si dividevano quella civiltà cresciuta e pur limitata ancora; non più i tempi delle contese tra la monarchia universale affettata dagli imperatori germanici, e la monarchia ecclesiastica tenuta dai papi; non più i tempi che una sola nazione cristiana raccoglieva in sè quasi tutta la cristiana civiltà, è ne teneva quindi incontrastabilmente il primato; non più tempo nemmeno delle guerre che si chiamavan d’equilibrio e furono di preponderanza europea tra Francia e Spagna, Francia ed Austria, Francia ed Inghilterra. Ora son tempi felicemente diversi; ora è forse men sogno sperare una indipendenza universale, una guarentigia reciproca di tutti gli Stati cristiani, che non nè una monarchia universale, nè una preponderanza, nè un primato durevole, nè uno stesso equilibrio; men sogno l’indipendenza reciproca delle due potenze temporali e spirituali che non una temporal presidenza della spirituale. — Accettiamo dunque il gran pensiero del Gioberti; trattiamo della confederazione italiana in generale, senza scendere a’ particolari nè della presidenza, nè delle leggi e dei patti di essa, nè del numero e qualità dei confederati eventuali. Anche ridotta alle generalità la questione è ispida di difficoltà, per la lontananza e le incertezze d’esecuzione. Non accresciamo quelle difficoltà collo scendere ai particolari incertissimi d’un ordinamento già incerto. Lasciamo ai posteri qualche cosa da fare; ai contemporanei dell’evento qualche libertà d’esecuzione. — Se Dio voglia, se mai venga il gran dì della confederazione, i confederali pongano essi patti, limiti e presidente.
7. Ed all’incontro parmi sia da scendere ai particolari del primo eseguimento; sia da trattare almeno della prima e più ovvia difficoltà. Non facciam dire ai soliti derisori: «Tutto ciò è bello e buono. Tutto ciò starebbe bene. Ma a tutto ciò è un ostacolo grave, attuale, irremovibile; il sappiam noi che non iscriviamo, ma operiamo, noi che siamo all’opera, alla guerra effettiva, alla breccia. Sogno, sogno anche questo j scrittura, filosofia, idealismo». — Ma anche qui parrebbemi più giusto dire: l’ostacolo vi è, l’ostacolo non fu considerato sufficentemente, consideriamolo; vi fu defficenza nella proposizione, facciamo un supplemento o complemento. Il rimanente della breve opera mia non sarà altro oramai.