Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (Rosmini)/Delle cinque piaghe della Santa Chiesa/Capitolo III

Capitolo III

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CAPITOLO III.

Della piaga del costato della santa Chiesa, che è la disunione de’ Vescovi.

45. Il divino Autore della Chiesa, prima di lasciare il mondo pregò il Padre celeste che facesse sì che i suoi Apostoli formassero insieme una unità perfetta, come egli e il Padre insieme formavano la più perfetta delle unità, avendo una stessa natura. Questa unità sublimissima, di che parlava l’Uom Dio in quella orazione maravigliosa che fece dopo la cena, poche ore prima della sua passione, era principalmente una unità interiore, una unità di fede, di speranza, di amore. Ma a questa interiore unità, che non può mancar mai intieramente nella Chiesa, dovea rispondere l’esteriore, come l’effetto alla cagione, e l’espressione alla cosa che viene espressa, e la fabbrica al tipo o disegno su cui viene fabbricata; «Un corpo ed uno spirito,» dice l’Apostolo (Ephes. iv, 4.); il che comprende tutto; perchè nel corpo viene significata la unità nell’ordine delle cose esterne e visibili, e nello spirito la unità nell’ordine delle cose che si tolgono a’ nostri sguardi corporali; «Un Signore, soggiunge, una fede, un battesimo: Un Dio e Padre di tutti, che è sopra tutto, e per tutte le cose, e in tutti noi (Eph. iv, 5, 6.)» Ecco di nuovo l’unità della divina [p. 35 modifica]natura, posta a fondamento ammirabile dell’unità che debbono formare gli uomini, que’ dispersi che Cristo congregò sotto le sue ali, siccome una gallina congrega i suoi pulcini, e ne formò una sola Chiesa; ed ecco il fonte ad un tempo di quella unità dell’Episcopato nella Chiesa di Cristo, che venìa sì altamente sentita da’ primi Vescovi, e che S. Cipriano esprimeva con sì eloquenti parole nel libro che intitolò appunto «Dell’unità della Chiesa.»

46. Gli Apostoli ebbero e mantennero questa doppia unità in grado eminente; perocchè in quanto all’interiore, una stessa dottrina e una stessa grazia tutti, per così dire, in comunione possedevano; e in quanto all’esteriore, un solo fra essi era il primo1 e l’origine di quell’unico Episcopato, «come dice il gran Vescovo e Martire di Cartagine che in solido tutti possedevano2.» Ad un solo era stato dato in particolare ciò stesso che era stato dato a tutti in comune; e sopra un solo, come sopra un solo e indiviso scoglio, era edificata quella Chiesa di cui tutti insieme con esso lui e sopra lui collocati erano altresì in egual modo il fondamento.

47. La consapevolezza di questa perfetta unità nella gerarchia che è l’espressione bellissima, e quasi il vago riflesso della unità interiore dello spirito, ingrandiva il petto de’ primi successori degli Apostoli, che si sentivano, tanti quanti erano sparsi per le nazioni, non formare tuttavia che un solo quasi direi autorevolissimo personaggio, e realizzare tutti insieme quell’ideale divino di un potere benefico, che a similitudine di Dio si trova tutto in ogni luogo; nè ignoravano, che questa stupenda unità era il testamento che Cristo avea lasciato a’ suoi inviati pria di morire, cioè prima di spargere un sangue che suggellava quel suo nuovo ed eterno testamento. E in vero, l’unità de’ suoi, simboleggiata nell’Eucaristico Pane, simboleggiata anche in quella tunica inconsutile che copriva le sue carni divine, era siccome l’ultimo segno di tutti i voti di Cristo, e dovea essere il frutto de’ suoi infiniti patimenti, avendo egli detto al Padre, che per ciò appunto desiderava «che fossero salvati nel suo nome, acciocchè potessero divenire una cosa sola3

48. Ora dominando nelle menti degli antichi Vescovi una sì grande idea della unità, e più ancora portandola essi nel cuore; niente trascuravano di tutto ciò che potesse avvincolarsi insieme; e non che mantenere tutti la credenza perfettamente uguale, e l’amore pel corpo de’ Pastori; ma altresì, ciò che sommamente importa al retto governo della Chiesa di Dio, niente amavano tanto; niente avevano, come si suol dire di più antico, quanto operare tutti con uniformità. Chi considera la vastità del governo della santa Chiesa sparsa per tutte le nazioni della terra, avrà certamente a stupire in trovare introdotto ovecchessia tanta consensione di dottrine, di discipline, e fino di consuetudini; e quanto poche e non punto essenziali sieno le differenze che vi si riscontrano.

49. Ma ciò onde nasceva, onde si continuava?

1.° Dal conoscersi i Vescovi personalmente: la qual conoscenza cominciava fra essi anche prima di esser fatti Vescovi, ed era una natural conseguenza della dignitosa educazione, alla quale si formavano gli uomini grandi, fra’ quali poi erano sempre eletti i Vescovi della Chiesa. Conciossiachè cotesti o erano stati condiscepoli nelle scuole di altri grandi Vescovi4, o aveano cercato [p. 36 modifica]co’ viaggi, fatti a posta, di conoscersi scambievolmente. Chè non si risparmiavano allora viaggi lunghissimi e oltremodo disagiati, per godere pur della vista di un uomo grande e celebre in santità e in dottrina, ed avere la ventura inestimabile di udire la sua voce, e di approfittare della sua conversazione; appunto perchè v’era quella persuasione, che i libri non bastano a comunicar la sapienza, nel senso in cui ella prendevasi questa parola, cioè non una sterile cognizione, ma una intelligenza intima, un sentimento profondo, una convinzione operativa; e che all’opposto la presenza, la voce, il gesto, e fino le azioni più differenti5 de’ grandi hanno virtù di trasfondere in altrui e comunicare essa sapienza, e accender ne’ giovanetti scintille di genio, il qual si muore, o rimane sepolto ed inerte, ove non venga quasi direbbesi percosso dal genio altrui. S. Girolamo dalla Dalmazia venne a Roma a ricevervi la prima educazione; indi viaggiò nelle Gallie, dove visitò tutti i personaggi che ivi fiorivano; passò in Aquileja a udire il Vescovo S. Valeriano, sotto il quale è memoria che si trovavano assembrati più uomini celeberrimi; poi se ne andò, in Oriente ad Apollinare in Antiochia, si fece alunno di Gregorio Nazianzeno in Costantinopoli, e co’ capelli canuti non isdegnò di apprendere in Alessandria dalla bocca del cieco Didimo quel sapere di verità, di cui a quel tempo non si finiva di andare in cerca se non per morte. Che più? anco per ben conoscere una sola questione di ecclesiastica dottrina, non si viaggiava mezzo mondo? Valga in esempio il prete Orosio, che dalla Spagna essendo andato in Africa ad imparare da S. Agostino il modo di confutare le eresie che allora infestavano la Chiesa; e questi il rimise pel medesimo fine a S. Girolamo, che andò trovare nella Palestina. Così apprendevano teologia i maggiori Sacerdoti di que’ tempi; così i grandi uomini di quel Clero mettevano diligenza in conoscersi fra di loro!

50. 2.° Dalla corrispondenza epistolare che avevano insieme continuamente i Vescovi anche più lontani; e ciò sebbene mancassero i mezzi tanti che noi abbiamo oggidì di comunicazione. Per esempio fa maraviglia il veder come un S. Vigilio Vescovo di Trento mandi in dono, accompagnata con lettera di amicizia, una parte delle reliquie de’ Martiri dell’Anaunia, fino a S. Giovan Grisostomo Vescovo di Costantinopoli, e un’altra parte a Milano a S. Simpliciano. Ed oltre queste lettere di privata amicizia di Vescovo a Vescovo; si scrivevano ancora le Chiese l’una all’altra massime le principali alle loro soggette; e in questa pia corrispondenza prendeva parte il presbiterio ed il popolo stesso; e quelle venerabili lettere venivano poi con riverenza lette nelle pubbliche adunanze i giorni festivi. Tale era l’esempio dato dagli Apostoli ai loro successori: tali sono le lettere di S. Pietro, di S. Paolo, di S. [p. 37 modifica]Giovanni, di S. Giacopo e di S. Giuda, che ancor si conservano inserite nel corpo delle Scritture canoniche; tali le lettere de’ sommi Pontefici S. Clemente, e S. Sotero alla Chiesa di Corinto; come pure quelle che scrissero S. Ignazio, e S. Dionigio Vescovo di Corinto a varie Chiese, e specialmente alla Romana6, e tante altre.

51. 3.° Dalle visite che si facevano i Vescovi gli uni gli altri, o mossi dalla scambievole carità o dallo zelo per gli affari della Chiesa; e non solo dallo zelo per la Chiesa particolare a loro affidata, ma assai più per la universale, consapevoli, sì com’erano, di esser tutti i Vescovi della Chiesa cattolica7, e che una diocesi non può essere segregata dall’intero corpo de’ fedeli più di quello che il possa essere un membro del corpo. Perciocchè come qualunque membro del corpo umano ha bisogno di venire inaffiato da quella massa di sangue che tutto il corpo trascorre: e penetra per gli meati delle vene grosse e mezzane e capillari, fino alle ultime sue estremità, e da per tutto continuamente si cangia e si tramuta, per così dire, di vaso in vaso, sicchè non si può assegnare una porzione di quel sangue, che sia propria di un braccio, e un’altra che sia propria di una gamba, ma tutto è a tutto il corpo comune: e lo stesso si può dire di vari altri umori che girano secondo loro proprie leggi per l’intero corpo, siccome pure dell’azione simultanea di tutte le parti concordi a produrre un solo effetto, cioè la vita, di cui ciascun brano del corpo partecipa e vive, non perchè abbia una vita sua particolare, ma perchè la vita comune è appunto vita sua; così medesimamente è nella Chiesa cattolica, nella quale ciascuna Diocesi particolare conviene che viva della vita della Chiesa universale, mantenendo con questa una continua vitale comunicazione, e ricevendone la salutare influenza; e dove da questa si separi alcun poco, ella incontanente si fa come morta; o pure, ove si metta un impedimento al comunicare col tutto della Chiesa, ella non ha più che una vita assai languida e spossata, in ragione di quell’impedimento che la stringe e riduce svigorita; siccome un braccio legato strettamente da funicelle, a cui vien meno la sensitività e il movimento; se non anco alla guisa di un braccio, che tocco da accidente diventa paralitico, o intormentito, o agghiadato, ove la circolazione è oggimai lenta, e le funzioni sono arrestate, o sospese. Ma queste idee sono straniere alla massima parte del nostro Clero; e procedendo così, noi avremo necessariamente di que’ Vescovi, il cui vedere appena che giunga ai confini della loro diocesi, e i quali si persuaderanno di avere soddisfatto assai acconciamente all’incarico episcopale, allorquando non sieno mancati alle comparse di uso nella loro Chiesa cattedrale, o in Seminario; quando il servizio esterno della diocesi sia in qualche modo coperto e non promuova reclamo da’ laici; e finalmente quando abbiano eseguito materialmente le funzioni tutte del Ponteficale del Cerimoniale dei Vescovi8.

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52. 4.° Dalle frequenti adunanze e Concilî specialmente provinciali che si tenevano. L’unità della Chiesa si volea che fosse unità di voleri, unità di persuasioni; e ad ottener questa, niente vale il comandare di un solo con autorità, la quale, tutta sola, trae seco pur sempre qualche cosa di invidioso e di ostile, nè, per l’ordinario, rende i soggetti più illuminati, ma solo più aggravati. Di che l’Apostolo stesso diceva: «Tutto a me lice, ma non tutto è spediente (i Cor. vi, 12.)»

E quindi proveniva quel volersi continuamente anche il voto del popolo, che si può dire che fosse a que’ tempi il consigliere fedele de’ governatori della Chiesa9; e quel render conto che faceva il Vescovo al popolo stesso di tutto ciò che nel governo della Diocesi egli operava10; e quel cedere e condiscendere ai voleri popolari in tutto ciò che si poteva, il che è tanto dolce e affabile cosa, e sommamente conveniente al governo episcopale, governo sublime e che può tutto, ma non tuttavia come quello de’ re della terra; perchè può tutto, solo pel bene, e niente pel male; e per la stessa sua essenza è decorato di umiltà, di modestia e di carità immensa; e in ogni cosa è al sommo ragionevole, e perciò stesso forte di sua dolcezza11. Quindi ancora traeva origine quella congiunzione de’ Vescovi co’ loro presbiteri, di cui richiedevano il parere in ogni affare spettante il governo della Chiesa acciocchè quelli che erano in parte della esecuzione, fossero anche in parte delle disposizioni che si venivano prendendo, e queste riuscissero consonanti al voto comune, e fossero conosciute nel loro spirito e nelle loro ragioni da quelli che le dovevano ridurre ad effetto12. Quindi ancora que’ concilî in cui tutti i Vescovi [p. 39 modifica]comprovinciali, come altrettanti fratelli, trattavano insieme due volte l’anno13 degli affari comuni, si consultavano su’ casi difficili che incontravano ne’ loro governi particolari, e accordavano insieme tutto ciò che era mestieri per togliere i disordini; decidevano le cause, davano i successori a’ Vescovi che morivano, i quali successori stabiliti da’ Vescovi comprovinciali erano a questi non solo noti ma aggraditi, e tali che, ottimamente contribuivano a conservare quella perfetta armonia che accordava insieme il corpo episcopale; quindi finalmente i Concilî maggiori di più provincie, i nazionali, e gli ecumenici.

53. 5.° Dall’autorità del Metropolitano che presiedeva a tutti i Vescovi di una provincia, e delle sedi maggiori che più provincie e più metropolitani avevano sotto di sè; la quale ben ordinata distribuzione del reggimento ecclesiastico tutto mirabilmente univa ed incatenava per così dire tra sè il corpo della Chiesa; non essendo per avventura una gerarchia vana, e di solo onore.

54. E finalmente sopra tutto dall’autorità del sommo Pontefice, pietra precipua e sempre e sola immobile della gran mole dell’edificio episcopale, e perciò pietra di verace fondamento, che dà a tutta la Chiesa militante identità, e perennità. A lui ricorrevano in ogni loro grave bisogno tutti i Vescovi e tutte le Chiese del mondo siccome al padre, al giudice, al maestro, al centro, al fonte comune; da lui ricevevano consolazione i pastori perseguitati, e limosina gl’impoveriti e spogliati, come pure i fedeli di ogni nazione; da lui lume, e direzione, e difesa, e sicuro e tranquillo stato tutto l’intero orbe cattolico.

55. Tali erano i sei anelli d’oro costituenti i saldissimi vincoli che stringevano insieme il corpo episcopale ne’ più bei tempi della Chiesa: e veramente d’oro! perchè non d’altra materia formati che di santità, di carità, di adesione alla parola di Cristo e agli esempî apostolici, di zelo per quella Chiesa che col sangue di Cristo era fondata ed alle mani dei Vescovi commessa, e di timore e tremore che avean sempre presente nell’animo del conto inesorabile Che ne dovea domandar loro un giorno lo stesso Signore ed invisibile Capo e Pastore Gesù Cristo.

Abbiamo veduto che le invasioni de’ barbari, le quali rovesciarono il dominio romano, fecero cominciare alla Chiesa un di que’ nuovi periodi che si possono chiamare di movimento, ne’ quali ella si leva quasi direi dalla sua stazione, e comincia una marcia novella: periodi in cui ella sviluppa di sè un’attività nuova, prima nascosta nel suo seno per mancanza d’occasione di manifestarsi, e allora esercita sull’umanità una nuova azione, e si produce una nuova serie di benefici effetti. Ed ora il periodo di cui parliamo ha per suo carattere l’ingresso de’ Vescovi nei governi politici: » e il fine della Provvidenza in avvenimento così rilevante, dicemmo essere stato manifestamente di fare che la Religione del Cristo penetrasse l’intimo della società, e dominandola la santificasse; e quel fine fu conseguito, giacchè l’ordine della Providenza è immancabile e certo; ma fu conseguito a prezzo di gravi mali, giacchè le cose umane, colle quali opera la Providenza, sono tutte necessariamente limitate e imperfette. Ora uno di questi mali, oltre quelli che abbiamo enumerati, fu la disunione dell’Episcopato, terribile lanciata che andò a squarciare il petto e a trapassare il cuore stesso della tenera sposa di Gesù Cristo!

56. Noi dobbiamo vedere per quali gradi avvenisse uno scempio così [p. 40 modifica]crudele. Ma prima mi sia permesso di fare una osservazione sulle leggi, secondo le quali vengono da Dio attemperate le vicende della santa Chiesa.

La Chiesa ha in sè del divino e dell’umano. Divino è il suo eterno disegno; divino il principal mezzo onde quel disegno viene eseguito, cioè l’assistenza del Redentore; divina finalmente la promessa che quel mezzo non mancherà mai, che non mancherà mai alla santa Chiesa e lume a conoscere la verità della fede, e grazia a praticarne la santità, e una suprema Providenza che tutto dispone in sulla terra in ordine di lei. Ma dopo ciò, oltre a quel mezzo principale; umani sono altri mezzi che entrano a eseguire il disegno dell’Eterno: perciocchè la Chiesa è una società composta di uomini, e, fino che sono in via, di uomini soggetti alle imperfezioni e miserie della umanità. Indi è che questa società, nella parte in cui ella è umana, ubbidisce nel suo sviluppamento e nei suoi progressi a quelle leggi comuni che presiedono all’andamento di tutte le altre umane società. E tuttavia queste leggi, a cui le umane società sono sommesse nel loro svolgersi, non si possono applicare intieramente alla Chiesa, appunto perchè questa non è una società al tutto umana, ma in parte divina. Quindi, a ragione d’esempio, la legge che «ogni società comincia, progredisce fino a sua perfezione, poscia decade e perisce,» non è intieramente applicabile alla Chiesa, a cui assiste una forza che sta fuori della sfera delle umane vicende, una forza infinita, che ripara le sue perdite, che le rifonde la vita quando questa le vien meno; sicchè questa società singolare ed unica disorbita dalla via comune delle altre società, appunto perchè ha qualche cosa in sè di estraneo e di superiore alle pure società umane. La Chiesa in somma è altrettanto ferma quanto la società umana presa in generale, la quale, costituita insieme coll’uomo, non perisce se non coll’ultimo individuo della specie.

Or perciocchè le altre società particolari si formano, si distruggono e si riformano di nuovo; v’ha per esse un periodo di distruzione che succede a un periodo di formazione, e che è susseguito da un altro periodo di formazione novella. Ma questi periodi organizzatori, e questi periodi critici non si possono applicare alla società umana in generale, nè medesimamente alla Chiesa di Gesù Cristo, le quali sempre sussistono, ma bensì solo al modo accidentale dell’una e dell’altra: questo solo si organizza, si distrugge, e si riorganizza. Il momento, in cui comincia ad operare la forza che presiede all’organizzazione, si può chiamare l’epoca di marcia; il momento in cui l’organizzazione è finita si può chiamare l’epoca di stazione. La Chiesa si trova successivamente in queste due epoche; ora vedesi in movimento verso qualche suo nuovo e grande sviluppo, ora vedesi in riposo come quella che è pervenuta al fine del suo viaggio14.

57. Un’altra osservazione si dee fare relativamente alla legge che presiede all’andamento della società, ove applicar si voglia alla Chiesa; ed è che nelle altre società la ricomposizione succede alla distruzione, imperocchè quella tende a rifabbricare in un modo migliore ciò che prima era stato distrutto. Ma nella Chiesa la distruzione e la composizione sono contemporanee, non [p. 41 modifica]operandosi quella e questa intorno allo stesso oggetto; come succede nelle altre società; ma distruggendosi un qualche ordine nel tempo stesso che se ne compone un altro. Prendiamo l’esempio appunto da quel memorabile tempo in cui il Clero per cagione dell’invasione dei barbari15 fu spinto ne’ governi temporali, epoca di marcia per la Chiesa di Dio, quell’epoca che forma l’oggetto principale della nostra attenzione.

Il progresso della Chiesa in quel tempo, il nuovo ordine che andava organizzandosi, era la santificazione della società civile. Questa società, fino allora pagana, dovea convertirsi al Cristianesimo; cioè dovea conformare tutte le sue leggi, la sua costituzione, e fino i suoi usi, al nuovo codice di grazia e di amore, il Vangelo; ma insieme con questo progresso venia distruggendosi un altro ordine di cose, e vi avea nella Chiesa anche un regresso. Poichè il nuovo avviamento, che portava la Chiesa nella società civile, traeva seco lo sconcio indicato, che l’Episcopato, distratto dalle sue naturali incumbenze, istruzione e culto16, venisse gittato nel pelago de’ secolareschi negozî. Tale occupazione fu una tentazione pel Clero improvvisa, sconosciuta, di cui si presentiva bensì il periodo17, ma a cui perciò non s’era ancora per esperienza appresa l’arte di resistere e di vincerla. Quindi a lungo andare l’umanità cadde nel terribil cimento: la santità del Clero diede un tracollo, e i più begli usi, e i più bei costumi ecclesiastici perirono. Ecco la distruzione che si operava a canto della organizzazione. Tale il dirò ancora, è la limitazione umana! Ella apparisce fino nella Chiesa, la quale nei suoi nuovi progressi e sviluppi soggiace pure ad una alterazione e ad un guasto.

58. Ma che succede a ciò? Dopo che l’organizzazione, che si intendeva conseguire, è compiuta, dopo che il periodo della distruzione è trascorso e tutto ha divorato ciò che era abbandonato dalla Providenza per così dire alla sua voracità; allora sembra per pochi istanti che questa distruzion consumata metta in pericolo la stessa esistenza della Chiesa, e che assorbisca nelle sue ruine, nell’abisso aperto dinanzi a lei anche in ciò che si era ottenuto e organizzato simultaneamente. In tale frangente la Chiesa, è turbata; appena la sua fede la sostiene; e nel suo estremo turbamento volge delle lamentevoli suppliche al divin Autor suo, che dorme nella navicella pericolante, ed allora batte il momento in che egli si desta, e minaccia il vento ed il mare. Allora l’esperienza è fatta; si conoscono a prova gli effetti funesti del principio [p. 42 modifica]distruttore, e si pensa finalmente a trovarvi i rimedî. Allora comincia il periodo nuovo in cui si toglie a ristorare i guasti sofferti dal gran vascello nella lunga e difficile sua navigazione: epoca di stazione, perocchè questi risarcimenti non portano la Chiesa innanzi, non le danno qualche nuovo e grande sviluppamento, ma solo lo rassettano per così dire in quelle sue parti che hanno troppo sofferto dal faticoso viaggio. Intanto però un gran tratto di cammino è già percorso; e dopo racconciata la nave che non può perire, ella affrontar deve ancora altri mari, altri venti, altre procelle.

59. Per il che l’ordine della Providenza nel governo della Chiesa è cotale, che la forza organizzatrice sia sempre più valida di quella che presiede alla distruzione; che le due forze operino contemporaneamente, acciocchè tutto avvenga colla massima celerità, e nulla si perda di tempo18: ma che finito il loro lavoro, succeda nella Chiesa un cotal riposo, nel quale essa non faccia gran viaggio, nè grandi imprese affronti, ma sì intenda a riparare a parte e con diligenza i suoi danni; fino che giunga il tempo di salpar nuovamente ad un’altra ardimentosa navigazione. E già da molti secoli, già fino dal sempre memorabile 1076, e con nuovo vigore dal Concilio di Trento, si lavora a ristorare minutamente i danni della disciplina e del costume ecclesiastico. Chi sa che non approssimi oggimai un tempo, in cui il gran naviglio sciolga nuovamente dalle sue rive, e spieghi le vele nell’alto alla scoperta di un qualche nuovo e fors’anco più vasto continente19!

60. Rimettendoci ora in via, ne’ capitoli precedenti noi abbiamo veduto l’attività infaticabile che una forza distruttrice spiegò a danno della Chiesa ne’ secoli che succedettero a’ sei primi relativamente all’educazione del popolo e del Clero (Cap. i, e ii.); seguitiamo ora a considerare questa forza inimica applicata a disciogliere l’unione dell’Episcopato.

I primi successori degli Apostoli, poveri e privati, trattavano fra di loro con quella semplicità che è infusa nell’anime dal Vangelo, e che è l’espressione del solo cuore. Per essa l’uomo comunica immediatamente sè stesso al suo simile, e per essa la conversazione de’ servi di Dio e così facile e soave, utile e santa. Tale era la conversazione de’ primi Vescovi. Ma ove questi furono circondati e quasi vallati dal potere temporale, il loro accesso divenne difficile; l’ambizione secolaresca inventò de’ titoli fissi, e determinò un cerimoniale materiale, esigendo dagli uomini, in prezzo del poter trattare co’ loro Prelati, de’ generosi sacrificî di amor proprio, però bene spesso un tributo di avvilimento, perchè di finzione e di menzogna. Per queste sempre crescenti esigenze si pervenne al punto che i soli preliminari del trattare de’ cristiani co’ principi della Chiesa si resero implicati di cavillose quistioni sopra formalità, e ben sovente tali, che non ammettevano una possibile, cioè una ragionevole soluzione; e il pensiero del pastore della greggia di Cristo, degno d’essere riserbato a meditare le sublimi verità, a trovare i prudenti consigli, si trovò esaurito nello studio e nella tutela di questi nuovi diritti della Chiesa, nascenti dal nuovo codice di cerimonia. Quindi il carattere si rese diffidente, serio, e [p. 43 modifica]ingannatore per prevenzione e per recriminazione. Tutto si avviluppò; e un’assemblea di Vescovi, cosa per sè sì dolce e sì facile, abbisognò d’allora in avanti i più serî e lunghi pensieri; giacchè prima di solo aderirvi fu necessario aver gran voglia di studiarne le cerimonie, aver gran borsa da farne le spese, aver gran tempo da gittarvi, e aver gran forze da sostenervi le fatiche pesanti di etichetta, che assai meno basta talora ad ammazzare de’ vecchi cadenti20.

61. Tali difficoltà che allontanano i Vescovi fra loro, circondandoli per così dire di una atmosfera ripulsiva, è il segno sicuro di ambizione entrata furtivamente ne’ loro petti. E qual mai cagione di divisione, ed anco di scisma, maggiore dell’ambizione, che è mescolata sempre colle sue due ministre, la cupidigia di ricchezza, e quella di potenza? Un fatto costante nella storia della chiesa è questo, che «ovunque ad una sede episcopale si congiunse per lungo tempo un assai grande potere temporale, ivi si manifestarono altresì cagioni di discordie.» Costantinopoli qui si affaccia tosto al pensiero. Non era un secolo dalla sua fondazione, che i Vescovi della nuova Roma, possenti per la vicinanza dell’Imperatore, ambirono di soverchiare le sedi più antiche e le più illustri della chiesa, e riuscirono dopo molti contrasti ad ottenere il secondo posto di essa chiesa21. Non contenti, rivaleggiarono con Roma e produssero il fatale scisma greco22. Ecco evidentemente una delle terribili conseguenze del potere temporale annesso alla sede costantinopolitana, la perdita che fece la chiesa, dell’oriente! Nell’occidente si offre alla nostra considerazione l’esarcato di Ravenna, stabilitovi nel VI secolo; e tosto rende quegli Arcivescovi indocili e insubordinati a Roma, a tale che solo con misure estreme finalmente si poterono umiliare23. L’immenso fonte però delle discordie e delle disunioni nella Chiesa occidentale furono i varî Antipapi che vi comparvero, e finalmente nel secolo xiv, il grande scisma d’occidente, che, anche estinto, lasciò i più profondi germi di divisione, d’invidie, di segrete ostilità fra le nazioni cristiane, germi rinforzati da tutto ciò che è stato fatto in occasione dello scisma dai sempre mai memorabili Concilî di Pisa, di Costanza, e di Basilea. Fu quello scisma, che preparò la defezione del settentrione dalla Chiesa, accaduta un secolo dopo; ed estinto materialmente, egli dura tuttavia, e col suo spirito infausto opera infaticabilmente ravvolto sotto il manto di aulicismo, e di gallicanismo; e i suoi frutti sono tante mal consigliate imprese ecclesiastiche di un Imperatore e di un Granduca; quella tanto cieca ambizione di quattro Arcivescovi di Germania che lottando colla Sede apostolica, unica leale protettrice de’ loro Stati temporali, perdettero que’ lor dominî; e tutto ciò che [p. 44 modifica]si desiderò, si disse, e si tentò più recentemente ancora di fare in una Capitale cattolica, per istituirvi un patriarca e produrre nella Chiesa un nuovo scisma.

62. Queste divisioni funestissime, che lacerano il seno della Sposa di Gesù Cristo, non fanno meraviglia, ove si consideri che se i primi Vescovi che dovettero immergersi ne’ negozî temporali, avevano il petto sì santo e l’animo veramente sì episcopale, che nol facevano se non con infinito dolore e con lagrime; non fu però il medesimo di tutti i loro successori. Dall’episcopato povero e faticante nella predicazion del Vangelo e nella cura immediata dell’anime, tutti quelli che erano dominati da uno spirito secolare, da cupidigia di ricchezza, e da avidità di potere profano, stavano assai lontani per sè medesimi; conciossiachè non trovavano in esso che travagli e sollecitudini, e ben sovente ancora persecuzioni, stenti, martirî; e tanta era poi la fortezza, tanto lo spirito di sacrificio da esse richiesto, che potevasi ben dire di un tal posto quello che ne disse l’Apostolo: «Chi desidera l’episcopato, desidera un’opera buona (Timoth. iii, 1.).» Ma gli uomini santi lo fuggivano tuttavia per un’altra ragione, cioè perchè vedevano in esso una dignità al tutto divina, quale è agli occhi della fede, a cui Iddio solo potea chiamare e sollevare; e perchè occupati da un umile sentimento di sè medesimi, non si credevano a pezza forniti di quelle virtù che sì grande e sì divino ministerio richiedeva per sua natura. Indi avveniva, che non presentandosi alcuno aspirante alle cattedre vescovili, la Chiesa era libera nella sua scelta, ed ella stessa andava in cerca degli uomini i più santi, con ispassionato giudizio, cioè senza che il giudizio fosse prevenuto e turbato da alcuna propensione degli elettori, e da alcun maneggio dei candidati. E così la elezione cadeva su personaggi, la pietà e sapienza de’ quali più risplendeva. Ma mutossi questo buon ordine, tosto che il Vescovato non fu più un puro potere spirituale, e si aggiunse a lui l’amministrazione di abbondanti ricchezze, e le cure di temporali reggimenti. Egli allora divenne via più pauroso e importevole ai santi, che con ogni industria da lui lontani si riparavano, fino ad obbligarsi co’ voti di schivarne il peso, come fecero quegli apostolici uomini che, avanti tre secoli, ebbero il Lojola a capitano in fondare una compagnia di operai infaticabili nella vigna del Signore24. E nel tempo stesso l’episcopato trovò d’allora in poi troppi più concorrenti, che non sarebbe a lui abbisognato, cioè tutti quelli che andavano in cerca di una temporale fortuna, ed avean chiusa altra porta migliore e più difficile a chiudersi, di quella della Chiesa.

Nacque allora appunto la divozione materiale e di formalità de’ nobili; nacque quel merito de’ plebei che si fece consistere in destrezza di maneggiare affari o in iscienza di leggi canoniche, anzichè in zelo e in virtù di maneggiare la spada della divina parola e di guidare anime al Cielo, allora non videro più i principi terreni e i grandi ne’ pingui vescovadi, che de’ mezzi di premiare dei loro adulatori o dei loro ministri, o pure collocamenti pei loro figliuoli cadetti o anche naturali: e ciò che da prima si fece per istinto d’inconsiderata cupidigia, non andò guari, che divenne un sistema politico e per poco costitutivo dello Stato. Potrei nominare in esempio di ciò che dico indifferentemente qualsivoglia nazione cristiana di Europa: perciocchè considerando in ciascheduna, a qual termine vennero le cose della Chiesa, troverassi che nel fondo [p. 45 modifica]le massime e lo spirito è quel medesimo che fu nella repubblica Veneta degli ultimi tempi; ne’ dominî della quale i Vescovi erano tutti cadetti delle case patrizie; ch’ebbero per avventura vocazione all’episcopato prima di nascere; cioè che prima di nascere furono condannati all’episcopato da uomini ingordi, crudeli, prosontuosi; i quali a compenso di quella condannazione dispensavano poi il pastore della Chiesa di Gesù Cristo da’ suoi sacri doveri, e di buon grado gli consentivano di condurre in una oziosa ignavia una vita dissipata. È egli fra tali Vescovi, che si può aspettarsi di trovare la carità maggiore e la fortezza, e quell’unione intima veramente pastorale, che nasce da uno zelo comune per la prosperità della Cara Sposa, la Chiesa, e da una sapienza che sente d’ingrandirsi e di fortificarsi colla consensione delle massime e coll’uniformità della condotta?

63. Degli uomini, ne’ quali è un solo pensiero, quello di far progredire l’uman genere verso la verità e la giustizia, e che non hanno, fuor di quest’uno, altro interesse, ben facilmente si stringono in fra loro co’ nodi della più sincera amicizia, e intima corrispondenza. La verità è universale e immutabile; e quella unione che ha per oggetto questo bene divino, non può a meno di essere anch’essa universale, non limitando il numero de’ suoi membri; come altresì avendo questo bene divino per vincolo, ella non può a meno di essere stabile e permanente, senza cessare per vicenda, nè allargarsi in mezzo al cangiamento pur di tutte le circostanze esteriori della vita. Tale era la fratellanza de’ Vescovi antichi, che aveva ad oggetto e a nodo l’evangelica verità, e Dio stesso a fondamento. Ma ove l’animo dell’uomo si volge a’ beni terreni, e se ne propone a fine il godimento, e per conseguente altresì la conservazione e l’aumento; egli non è più libero, non è più consegrato esclusivamente a quel bene sommo, che può esser di tutti senza che venga meno a nessuno, e che non riceve il prezzo dalle cose esteriori e mutabili, ma lo ha in sè solo immobilmente. L’uomo allora è vano: non può più formare una società veracemente leale, e di perpetua e indissolubile amicizia con altri uomini. La sua società non può essere altro mai che condizionata alle circostanze; sieno pure quali esser si vogliano le formalità esterne, sieno quali esser si vogliano in un tempo o nell’altro i segni convenuti di parziale affezione: l’unione ha tuttavia sempre un limite sottinteso, è accompagnata sempre di timori e di cautele, dee andar fornita di molte riserve, che incredibilmente la indeboliscono e le fanno del tutto cangiar natura. «Se, con chi, come, quanto, e fino a tanto che l’unione non nuoccia all’interesse preso di mira, che è l’oggetto, o almeno la condizione della unione medesima:» ecco quante formule sottintese. Ove adunque i Vescovi ricchi e possenti non sieno perni straordinarî di virtù, ma più tosto di quel genere d’uomini, i quali mirarono forse tutta la vita in una pingue Sede come in loro sospirata beatitudine, che ne avverrà? Che s’aspetterà da questi apostoli? Qual dubbio che la loro sollecitudine avrà per confine il loro avere e temporal potere? Beati nella temporale loro sufficienza, non mai gran desiderio potranno sentire di mantenere una spirituale corrispondenza cogli altri Vescovi: chè, assorbiti in materiali affari, non avanza lor gran tempo nè voglia da tener vivi simiglianti ecclesiastici carteggi, che pure richieggono altra disposizione e tempra d’animo, ed altro genere di studî; o se per miracolo procacceranno di conservare una qualche unione e corrispondenza, certo questa riuscirà impacciata da tutte quelle pastoie sopra espresse del modo, delle persone, del grado e del tempo, in una parola, del non provare alcuno sturbo a’ loro agi, o alcuna noia alla loro quieta beatitudine, o alcun pericolo di minorazione alla loro secolaresca grandezza.

64. La storia della Chiesa dimostra ancora, che i Vescovi venuti in possesso di signorie, furono inimicati fra loro, e implicati in fazioni, in guerre, in tutte le orribili discordie che hanno agitati i popoli de’ secoli interi, discordie atroci contro l’umanità, fatali a quella Chiesa che è fondata nell’amore, come pure [p. 46 modifica]orribilmente scandalose nelle mani di loro, a cui Cristo avea detto: «Vi mando siccome agnelli nel mezzo de’ lupi (Matth. x, 16.)» Ed era ben naturale che tali Vescovi, resi uno degli Stati del governo politico, e per avventura il più influente; e a questa loro temporale fortuna oggimai affezionati, avvolti fossero in quelle risse e discordie, che fra i potenti del secolo ribollivano; perocchè il potere e la ricchezza sono di lor natura infauste fonti di contese, o a chi le vuol difendere per conservarle, o a chi le adopera quali mezzi di offendere, per ingrandirle. Però l’unione santa, perpetua, universale dell’episcopato de’ primi tempi cessò, e a lei successero quelle unioni parziali e momentanee, che producono i temporali interessi, voglio dire le confederazioni, le leghe, le funzioni. Qual divario! Potea con tali partiti conservarsi l’unità del corpo episcopale? Non doveva necessariamente riuscirne un pò alla volta quell’isolamento universale de’ Vescovi, che pur troppo è una delle piaghe più gravi ed atroci che fanno inconsolabilmente lagrimosa la Chiesa di Dio?

65. Que’ Vescovi, i quali sono immersi in cure e negozi secolari, egli è bene evidente che debbono avvolgersi di continuo con magnati e con principi: ed è evidente ancora, che l’esser continuo con tali persone del secolo non può farsi a lungo senza prenderne i costumi e i modi, e senza modificare al gusto di quelle anche sè stessi, la propria famiglia, le proprie abitazioni. Egli è evidente ancora, che la conversazione secolare è assai opposta, all’ecclesiastica, e che chi si è reso vago del fasto, del clamore e della licenza di quella; schifa oggimai la modestia, l’ordine e la severità di questa. Dovea dunque necessariamente avvenire, che al prelato, dalla grandezza del secolo occupato, non solo noiasse il ravvolgersi fra la plebe, pur suo gregge, e co’ cherici inferiori, intesi esclusivamente alle umili funzioni della Chiesa e a’ particolari della cura d’anime; ma che anche alla conversazione stessa cogli altri prelati, appunto perchè ecclesiastici, preferisse quella de’ grandi secolari, più gaia, men censoria, e talora ben anco alle sue mire più vantaggiosa.

66. Indi l’abbandono delle proprie diocesi, fatto da tali pastori non pure per cagione di recarsi a’ parlamenti ed ai Concili nazionali; ma per diletto di stanziare abitualmente nelle corti de’ regi, donde indarno la voce di tanti Concili tentò richiamarli25. E a che fare nelle corti? Forse a godervi i piaceri; forse a cercar modo d’ingrandire quella fortuna terrena che apre nel cuore umano delle brame sempre implacabili; forse a pascersi di vanità, riscuotendone gli omaggi, e facendovi una figura vantaggiosa; forse a mescolarsi anche nelle doppiezze o nelle barbarie della politica; forse a farvi guerra finalmente alla stessa Chiesa, alla sua dottrina o alla sua disciplina; forse a tenervi l’ufficio infame di delatori; forse a soddisfare le personali loro animosità contro i loro confratelli nell’episcopato; forse a rinfiammarvi una guerra perfida e sacrilega contro il loro padre e maestro comune, il romano Pontefice, forse a liberare dal sorriso del principe la beatitudine delle loro anime avvilite; forse ad adularlo, a condirne i piaceri infami, a condirne le imprese crudeli con una giovialità scimunita e spensierata; che dico a condirle di giovialità? anzi a benedir quelle imprese, a santificar que’ piaceri con solenni [p. 47 modifica]parole episcopali, colla prostituzione del Vangelo e di tutte le forme della pietà26. Oh Dio! non recito non mere possibilità: di tutte le cose che ho detto, gli orribili esempi sono pur nella Storia! Vi stanno scritti a caratteri sì saldi e indelebili, che tutte le amarissime lagrime della Chiesa, e tutto lo strofinamento de’ secoli, non ne li potranno mai più scancellare!

67. Un fine della Providenza in far sì che la potestà ecclesiastica acquistasse grande influenza ne’ politici reggimenti, fu certo quello di costruire de’ mediatori pacifici fra i governanti ed i governati, fra i deboli ed i forti; acciocchè la Chiesa, dopo aver insegnato per sei secoli ai primi la sommissione e una mansuetudine senza esempio; insegnasse altresì ai secondi a mitigare l’uso della potenza, ed umiliasse anche questi sotto la Croce, e per la Croce sotto la giustizia; e così fosser cangiati da arbitri delle cose umane, in ministri del popolo di Dio per essa giustizia e per la beneficenza: e questa incumbenza della ecclesiastica potestà, questa nobile missione della Chiesa del Cristo, fu da lei esercitata colla bocca di tanti Vescovi che parlarono la verità e, come dice la Scrittura, i testimoni di Dio in cospetto de’ re, i quali Vescovi anche nella perversione di un gran numero di loro fratelli, non mancarono mai. Questi contrapponendo i loro petti episcopali ai primi feroci loro risentimenti, ne ruppero l’impeto: calmati poscia i subitanei furori, li resero atti a conoscere l’esistenza di una potenza morale, ben altra da quella puramente materiale che essi possedevano; pacifica potenza, e piena di mansuetudine, ma che non richiede meno che di essere la direttrice, la giudicatrice della forza bruta; e questa inaudita potenza era l’evangelica legislazione, dalla qual sola ebbero origine tutte quelle lotte, soggetto di tante dicerìe e di tante calunnie, e pur così ammirabili, così generose, che sostennero co’ monarchi in favore de’ popoli i Pontefici del medio evo, e che portarono al mondo per risultamento una tutta nuova sovranità, una tutta nuova monarchia, la monarchia cristiana. Così l’Eterno disponeva che il governo feroce dei signori della terra si modellasse a quello pacifico dei Vescovi della Chiesa, e che cessassero d’essere nel mondo cristiano degli schiavi, appunto perchè la Chiesa di Cristo non ha che dei figliuoli; che cessasse d’avervi un potere arbitrario, appunto perchè la Chiesa non ha che una potestà santa e ragionevole; che cessasse finalmente d’esservi pochi uomini a cui i molti fossero de’ puri mezzi, appunto perchè la potestà della Chiesa non è che un ministerio e un servigio che i pochi prestano ai molti, sacrificando sè stessi al bene degli uomini fatti lor prossimi. Iddio ottenne tutto ciò pel Cristo: l’ottenne ne’ fatti, e dove i fatti mancarono, l’ottenne nel giudizio pubblico grave sui prevaricatori non abbastanza difesi in contro a questo dalla loro potenza. Conciossiachè le massime evangeliche entrate in tutte le menti, divennero gli elementi di un nuovo senso comune che fa giustizia de’ monarchi, e la fa con quella severità che non si vide mai altro che ne’ popoli cristiani. Ma questa nobile missione del Clero cattolico è consumata: il periodo della conversione della società finì nel secolo xvi. Oggidì tutto mostra che si prepari una nuova Epoca alla Chiesa, che ha lavorato gli ultimi secoli a racconciare i più minuti suoi danni. Perocchè un Clero reso servo e adulator vile de’ principi, non è più un mediatore fra questi ed il popolo che lo rigetta; e nascono allora de’ tempi simili ai nostri, in cui tutto è irreligione ed empietà. Il potere ecclesiastico è allora slogato; egli non istà più in mezzo al potere legale de’ Re, e al potere morale dei popoli; ma assorbito dal primo, non è più che il primo medesimo, che da quell’ora [p. 48 modifica]rimane egli stesso mostruosamente snaturato, mostrante due facce, crudele l’una, e l’altra fraudolenta, e due forme, militare l’una, e l’altra clericale; e in quel tempo il mondo rigurgita quinci di bande militari, quindi di un numero eccedente d’inutili Sacerdoti; allora i re sono in cospetto ai popoli: vi sono o per riceverne la sentenza capitale, o (che è più funesto a dire) per darla: non è più chi li concilii, chi congiunga le destre degli uni e degli altri, chi ne benedica i patti, e ne riceva i giuramenti, senza fede, come senza sanzione: ciascuno de’ due paventa e minaccia: prepara una battaglia campale, e in una battaglia tutta avventura. Qual maraviglia però se in Russia, in Germania, in Inghilterra, in Isvezia, in Danimarca e in altre nazioni, tostochè i principi già cattolici, dominati dal capriccio accidentale di qualche passione, vollero dichiararsi capi della religione, e dividere i loro stati dalla Chiesa; non trovassero quasi nessuna resistenza nell’episcopato, trovassero anzi ne’ Vescovi i ministri più zelanti dello scempio crudele che intendevano fare del corpo della santa Chiesa? Quegli scismi erano fatti prima che si facessero: non furono aggiunte che le formalità esterne, non fu cangiato che un nome: il potere ecclesiastico, che solo poteva impedirli, non esisteva più, fuso nel potere sovrano: i Vescovi avevano rinunziato ad esser Vescovi, per esser grandi di corte; e non solo s’erano divisi fra loro, divenuti emuli gelosi e rissosi; ma altresì dal loro Capo il romano Pontefice, e dalla Chiesa universale, a tutto preferendo la loro unione individuale col Sovrano; così avevano rinunziato ogni esistenza propria; e col fatto, anteposto di essere anzi schiavi di uomini mollemente vestiti, che Apostoli liberi di un Cristo ignudo. Ahimè, qual vista danno di sè oggidì le nazioni cattoliche! Quale sarebbe la unione e la generosità dell’episcopato, se entrasse nell’animo ad un sovrano di dividersi dall’unità della Chiesa!

68. E si osservi, che quand’anco la prostituzione de’ pastori primari non venisse a tanta estremità (sebben niente può arrestarsi nel mezzo, e ogni male siccome ogni bene nella società coll’opera del tempo dee svilupparsi e toccare gli estremi suoi); tuttavia l’aderenza ossequiosa de’ Vescovi a’ principi, e il continuo avvolgersi di quelli materialmente nei negozi di questi diminuisce mai sempre l’unione del corpo episcopale. Perocchè il Vescovo fatto ministro al principe, o certo reso persona influente ne’ politici affari, dee tenersi con circospezione con quelli che usan con lui, e anco co’ medesimi confratelli suoi nell’episcopato; egli diventa da quell’ora uomo cauto, taciturno, riserbato, di difficile abbordo. In tali circostanze tutti i partiti politici che si formano in una nazione, anzi tutti i sistemi che si seguono nelle amministrazioni, separano e squarciano in altrettanti pezzi il corpo episcopale; pezzi che talora aderiscono fra sè quanto alle forme esterne, per qualche tempo di pubblica tranquillità; perocchè le forme ecclesiastiche ritenute dall’antichità non pubblicano che fratellanza ed amore; ma che però non sono meno disgiunti e rotti nel segreto; e più sciaguratamente rotti, perchè coperti superficialmente col manto della pastorale mitezza. Che poi diremo dell’unione de’ Vescovi di più nazioni? Avendo cessato, in quanto al fatto, di essere Vescovi della Chiesa cattolica, essi non sono più che pontefici nazionali: e come il grado episcopale si è cangiato in una magistratura, in un impiego come tutti gli altri impieghi politici; così fanno anch’essi coi Vescovi stranieri, e colla stessa Chiesa di Dio le loro guerre e le loro paci, le loro tregue e le loro ostilità. Già nei secolo xv videsi il più assurdo scandalo che siasi mai veduto nella Chiesa; congregarsi un concilio diviso per nazioni, nel quale, rinnegata col fatto la potestà che i Vescovi hanno ricevuto da Cristo di essere giudici della fede e maestri in Israello, si tolsero a decidere le controversie dogmatiche del cristianesimo non già a voti di prelati, ma a voti di nazioni; e nelle assemblee di ciascuna nazione ammettersi a votare co’ Vescovi e Sacerdoti e laici alla rinfusa: preludio infelice di quelle tante diete e congressi di principi secolari che nel xvi secolo susseguirono in Germania, in occasione della riforma, ai [p. 49 modifica]Concili deplorabili del secolo precedente; e di quelle decisioni, onde tante magistrature cittadinesche giudicando in materia di religione rinunziarono alla fede dei loro padri. I Vescovi aveano perduto il loro voto; la potestà laicale se l’avea divorato. E dopo ciò, qual maraviglia de’ preti costituzionali di Francia, e del mostruoso sistema della Chiesa Nazionale?

69. Sì; convien finire con una Chiesa nazionale, allorchè l’episcopato non si considera quasi più come il corpo de’ pastori, ma come il primo degli Stati; allorchè egli è divenuto una magistratura politica, o un consiglio di Stato, o un’accolta di cortigiani: e questa nazionalità della Chiesa, che esiste in fatto assai prima che in formalità, è direttamente l’opposto, è la distruzione intera di ogni cattolicità. In che modo il Capo della Chiesa cattolica, geloso di lei, sposa del solo Cristo, si affratellerà di buon animo con simili Vescovi nazionali o regi? Non si trova in questa sola dimanda una abbondantissima ragione de’ limiti messi dal Romano Pontefice al potere de’ Vescovi, e delle riserve pontificie che divennero pure lungo argomento di tante querele e di tante calunnie27? O ci avrebbe avuto altro mezzo di salvare la Chiesa nella dissoluzione di tutte le sue parti, nella divisione di tutti i suoi Vescovi, fuor di quest’uno, di rendere cioè più forte e più attivo il centro della medesima? Non era urgente in tali circostanze che il Capo de’ Vescovi stringesse a tempo quelle redini ch’essi lasciaronsi così miseramente cader di mano, acciocchè non precipitasse il carro celeste nella voragine? In fatti, se rimane alcun che di libertà nella Chiesa (e senza libertà la Chiesa non esiste meglio che l’uomo senz’aria di cui respira), questo poco che rimane non è presso a’ Vescovi soggetti a principi cattolici, ma si è tutto concentrato nella sedia Romana, salva forse la libertà che gode la Chiesa presso gli Stati uniti d’America, o in altre regioni acattoliche; quivi sotto il cattolicismo respira ancora in qualche modo. Dico in qualche modo; perchè tutto si è fatto, tutto si fa per trarre nell’ignominia de’ ferri universali anche il Pontefice Romano; e s’egli è libero, non è libero che di giorno in giorno e sempre stanco da’ combattenti; è libero, ma come un Sansone nel mezzo de’ Filistei, a patto che spezzi incessantemente e prodigiosamente le sempre nuove ritorte che gli si avvolgono intorno. E pure egli è libero; sì, egli è libero ancora a malgrado di tutte le transazioni che è costretto dolorosamente di fare con que’ «re della terra che si stanno intorno a lui, con que’ principi che sono convenuti insieme contro il Signore, e contro il suo Cristo (Ps. iv);» ma appunto perchè egli è libero, appunto perchè è indomabile, essendo superiore la virtù che il sorregge, alla potenza degli uomini, appunto per questo si è che «fremono le genti, e che i popoli meditano cose vane;» appunto per questo si leva la terra tutta, e fa impeto in lui solo tutto l’inferno, e non ha altra rocca inespugnata, in cui volgere le sue macchine: appunto per questo si è che le dissensioni tante degli uomini subitamente si attutano, ove si tratti di unirsi insieme ai danni del capo visibile della Chiesa. E appunto per questo si è ancora, che non pure gli empi, non pure gli eretici, non pure i [p. 50 modifica]regnatori ma i Vescovi, ma i Cleri aulici e nazionali nel loro secreto non hanno altro oggetto più odioso, più abbominevole che il loro Padre comune, il Vescovo Romano; perchè egli è l’unico ostacolo che incontrano ancora in sulla via della dispersione, per la quale si sono messi per ignoranza, per infermità, per pregiudizio, per corruzione, per indiavolata malizia; via, dico che conduce all’apostasia, alla vendita di Cristo, alla disperazione di Giuda; ed essi nulla pur ne comprendono! In tante sciagure della Sposa del Redentore, i fedeli discepoli del tradito Maestro non avrebbero conforto alcuno, se prima di essere crocefisso non avesse loro lasciata questa parola: «Tu sei pietra, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei (Matt. xvi, 18).»

70. Un altro deplorabile effetto di questa falsa posizione de’ Vescovi, che più e più li divise fra loro, si fu la gelosia de’ Sovrani verso di essi. Divenuti i prelati altrettanti signori temporali, subirono le gelosie e le vicende stesse della nobiltà; e quando questa fu temuta, o guerreggiata dal Supremo potere, furon temuti o guerreggiati ancora i Vescovi, e questi anche più de’ nobili. Quindi vennero altresì sopravvegliati, circoscritti sempre più nelle loro operazioni, vincolati in tutti i loro passi, chiusi e assediati come prigioni non solo dentro lo Stato, ma nelle stesse loro Diocesi. Così già furono divisi fra loro per massima di Stato, impediti dall’andare a’ Concilî o dal congregarne essi stessi, sottomessi a infinite umiliazioni; ben presto il loro potere politico cadde con quello de’ nobili; ma più deboli de’ nobili, furono più agevolmente di essi spogliati delle loro signorie, invidiate loro d’altra parte da’ nobili stessi; e per colmo di loro avvilimento, stipendiati: dal centro dell’unità cristiana, non se ne parla, tenuti lontani un milione di miglia; veduta di buon occhio ogni dissensione fra i Vescovi e il capo loro; seminata la zizzania; lodata, spalleggiata sotto mano, premiata la ribellione. Allora pertanto il Papa, questo Padre de’ Padri, questo giudice supremo della fede, questo maestro universale dei Cristiani, non potè più egli stesso comunicare liberamente co’ suoi confratelli e coi suoi figliuoli, con quelli che sono da Cristo incaricati di governar la Chiesa con lui e sotto di lui; non potè correggerli, chiamarli al suo tribunale, nè i suoi figliuoli poterono a lui ricorrere patendo ingiustizia28; le sue decisioni in materia di fede, le sue sentenze in materia di costumi, dovettero prima di pubblicarsi esser sottoposte ad un tribunale laico, che pretese d’innalzarsi sopra ogni tribunale ecclesiastico, anzi che dico a un tribunale? sì bene al calcolo della politica di un principe non turco, nè ebreo, ma battezzato, cioè di [p. 51 modifica]un figlio e suddito della Chiesa29, da cui egli ha pur ricevuto l’ammaestramento cristiano, e che ha giurato nel battesimo di mantenerlo; di un figlio e di un suddito, che può essere avvertito, ripreso, punito come qualsivoglia fedele fra il popolo; conciossiacchè la Chiesa non ha eccettuazion di persone, e gli uomini sono veramente eguali in faccia alla legge di Gesù Cristo. Finalmente ne’ progressi del secolo si giunse a organizzare un nuovo ramo di Polizia esclusivamente per gli ecclesiastici; e fu una polizia la più minuziosa, la più inquieta, la più petulante, sotto le punture innumerabili della quale il Clero cattolico rimane martirizzato col supplizio di que’ primi cristiani, che coperti di miele, ed esposti ai raggi del sole, morivano lentamente di beccature di mosche, di vespe, di tafani. Un sistema di questa fatta non fu però condotto alla perfezione tutto d’un tratto. La vasta sua costruzione fu l’opera lunga, faticosa e dotta de’ legali, di questi sottilissimi adulatori di tutti i governi: ma il pensiero primo e generale di quest’opera della umana prepotenza è suggerito naturalmente alla politica de’ regnatori e de’ governi dalla posizione falsa di un Clero decaduto: egli è uno di que’ pensieri che operano e dominano nell’anime, e nella condotta de’ governanti lungamente prima che nessuno di essi n’abbia formato una massa esplicita, o se n’abbia saputo render conto, e l’abbia ridotto a teoria. Viene più tardi qualche profondo politico, che si appropria quel pensiero; e da quell’ora egli si costituisce in sistema, e prende il nome dal ministro che prima l’ha veduto più chiaramente, e l’ha seguito più costantemente: indi in poi quel sistema si lavora con infaticabile industria, e si conduce con metodo rigoroso a tutti i gradi del suo ultimo sviluppamento. Chi crederebbe che un sistema politico sì rovinoso alla libertà, all’esistenza della Chiesa, noi lo dovessimo ad un prelato? Ad un prelato atteggiato di tutte le apparenze della pietà, ma però ministro di Principe? Ma non sapeva nè pure Richelieu, quando ribassava la nobiltà per render meno impacciato il potere supremo nelle sue mani, ch’egli componeva allora questa monarchia de’ moderni troni, la quale è fatta intollerabile ai popoli che le si ribellano contro, perchè forti; ed è fatta intollerabile ai Cleri che vi succombono sotto, perchè deboli: nè hanno per iscampo altro che il gemito secreto che prega dal cielo un nuovo Mosè, che liberi il popolo di Dio dall’Egitto. Ah lo invii senza indugio alla sua Chiesa oppressata quel Signore che abita nella fiamma di un roveto inconsumabile!

71. Se si considera poi come le ricchezze del Clero non usate in opere di carità doveano renderlo oggetto d’invidia alla plebe, di odî ai nobili che vedono in quelle ricchezze altrettanti beni patrimoniali sottratti alle loro famiglie, e di avida cupidigia ai Sovrani; non sarà difficile riconoscere in esse un fonte amplissimo di disunione nel popolo di Dio. Conviene riflettere oltracciò, che la ricchezza posseduta dal Clero non ha in questo corpo, per sè stesso alieno dalle armi, una forza corrispondente che la protegga; e che qualunque ricchezza grande priva di difesa, finisce presto o tardi coll’essere il pasto di chi è forte, le cui brame sono non poco irritate dall’aspetto di tesori di facile acquisto. Egli è evidente che tutti gli spogli dalla Chiesa tante volte ripetuti nelle varie età, ebbero questa sommaria cagione, o per dir meglio questa occasione della debolezza de’ possessori. Ciò ne spiega perchè non così di frequente furono spogliati i nobili come i cherici: quelli furono trovati bene spesso forti: ove però divennero deboli in paragone di altra forza estranea ad essi, questa non mancò mai di piombar su di loro; come ultimamente si vide nella francese rivoluzione, avvenimento men nuovo di quel che il vulgo suol darsi a credere. Ma ciò che è sommamente deplorabile negli spogliamenti del clero si è [p. 52 modifica]questo, che per l’ignoranza degli uomini entra nello menti una torta opinione, che le ricchezze della chiesa formino una cosa sola colla chiesa e colla cristiana Religione. Il clero stesso ebbe pur troppo fomentato questo pregiudizio. Perciocchè non avendo egli altro modo di difendere i suoi beni temporali dagli aggressori che il privar questi de’ beni spirituali; agli spogliatori della chiesa egli rese il delitto del sacrilego ladroneccio indivisibile dalla rinunzia alla religione. Quindi que’ principi che furono deliberati ad ogni costo di spogliare il clero, si deliberarono insieme a dividersi per intiero dalla santa chiesa. Certo è che se il clero è avveduto, egli dee procedere in un modo più cauto ne’ nostri tempi. Colle scomuniche annesse al rapimento delle sostanze ecclesiastiche si rendeva quel delitto maggiore; perocchè è maggior delitto il rapire e incontrare insieme ad occhi aperti la recisione di sè dalla chiesa, di quello che sia il solo rapire. E un delitto maggiore, una maggiore empietà, è più difficile che si trovi chi la commetta in popoli religiosi, dove ancor vive la fede, dove non è che un grado limitato di malizia: di che, per certi tempi e in certi luoghi, le scomuniche poterono difendere le ricchezze della chiesa30. Ma nei tempi d’incredulità, come pure ovunque la passione e il grado della perversità è trapassato e sa bravare qualunque delitto; la scomunica non raffrena gli scellerati, ma gl’incita e gli provoca a passare via oltre i termini nella loro stessa scelleraggine. Forse che in certe nazioni si avrebbe salvato il cattolicismo dal suo naufragio, sgravandolo a tempo dalle ricchezze mal usate, che il facevano pericolare; a quel modo che si alleggerisce una nave in furiosa tempesta, col gitto in mare delle cose anche più preziose e più care, acciocchè si salvi il legno colle vite de’ naviganti. Forse che abbandonando in tempo opportuno ad un Gustavo Vasa, ad un Federico I, e ad un Arrigo VIII le immense ricchezze che la chiesa possedeva in Isvezia, in Danimarca e in Inghilterra o parte di esse; il clero povero di quelle nazioni le avrebbe salvate salvando sè stesso, ed avrebbe risuscitata la fede con que’ mezzi appunto co’ quali gli Apostoli l’aveano piantata! Ma in che parte troveremo un clero immensamente ricco, che abbia il coraggio di farsi povero? o che pur solo abbia il lume dell’intelletto non appannato a vedere che è scoccata l’ora in cui l’impoverire la chiesa è un salvarla? Ah ma forse che l’esperienza lunga e funesta.... forse che il grido generoso di libertà mandato poco fa da un uomo, che, qualsiasi l’opinione che sott’altri rispetti s’abbia di lui, pure è dominato da un gran pensiero, che il solleva sopra tutte le particolarità, e un sentimento cattolico che ha qualche cosa di straordinario, si trasfonde in tutte le sue parole, non ha percosso l’aria in vano, non ha in vano irritati gli orecchi di quelle scolte che sono poste da Dio alla custodia d’Israello31! — forse quell’inquietudine stessa de’ popoli che nel [p. 53 modifica]manifestarsi prende delle forme al tutto materiali, perchè un sentimento che ha bisogno di espandersi, si veste di quelle forme che prima incontra, sebbene a lui inadeguate e può esser anco in contraddizione con esso, quell’inquietudine dico, que’ lamenti continui degli aggravi materiali, forse che ha una sorgente segreta, che i popoli stessi non hanno ancora rivelata a sè medesimi; e si nasconde per avventura un bisogno religioso dove pare che più trionfi l’irreligione; il bisogno di una religione libera di comunicarsi al cuore de’ popoli senza l’intermezzo de’ principi e de’ governi; e il grido irreligioso mentisce a sè stesso, e nell’odio di un ministero della religione asservato, confonde e ravvolge per errore la religione medesima; e nell’ordine della divina Providenza si prepara un rimescolamento delle nazioni che ha ben altro fine che di diminuire i tributi (cui i popoli rivoluzionanti sopportano pazientemente maggiori), ma chi lo crederebbe? di liberare la chiesa di quel Cristo, in cui mano sono tutte le cose.


Note

  1. Deus unus est, dice S. Cipriano in una lettera, et Christus unus, et una Ecclesia, et Cathedra una super Petrum, Domini voce fundata. Ep. 40.
  2. Episcopatus unus est, cujus a singulis pars in solidum tenetur Lib. de unit. Eccl.
  3. Pater sancte serva eos in nomine tuo, quos dedisti mihi: ut sint unum, sicut et nos. Jo. xvii, II.
  4. A ragion d’esempio, sotto S. Melezio in Antiochia fu istituito S. Giovan Grisostomo; e Socrate narra espressamente, che veggendo la bella indole del giovane, quel santo Vescovo gli concedeva d’esser sempre vicino a lui, battezzandolo dopo tre anni di ammaestramento, e facendolo Lettore, e più tardi ammettendolo agli ordini del Suddiaconato e Diaconato: Ora con S. Giovan Grisostomo insieme erano Teodoro e Massimo, che furono poi Vescovi di Mopsueste in Cilicia, e di Seleucia in Isauria. Diodoro, che li esercitava nella vita ascetica, fu pure Vescovo di Tarso. Basilio, amico di S. Giovan Grisostomo, fu ben giovane promosso all’episcopato. Ecco un nido di Vescovi, amici prima di essere elevati a quella dignità. Se si vuole un esempio tratto dall’Occidente, osservisi la scuola di s. Valeriano vescovo di Aquileja. Quando vi fu a visitarlo san Girolamo, oltre avervi san Cromazio, che fu poi successore di san Valeriano nel Vescovato Aquileiese, oltre Eliodoro che parimente fu poi Vescovo, fiorivano in essa dei dottissimi e piissimi Sacerdoti, Diaconi, e ministri inferiori, come il celebre Ruffino, Giovino, Eusebio, Nepoziano, Benoso ed altri rammemorati dalla storia. In Africa è noto che la casa o piuttosto il Monastero di sant’Agostino era un semenzaio di Vescovi.
  5. Questo si avvera tanto maggiormente nell’ordine soprannaturale. I Santi comunicano con ogni lor cura e quasi riversano lo spirito della santità in quelli che li circondano; e questo espresse Cristo con somma efficacia in quelle sue parole: «Chi crede in me, come disse la scrittura; usciranno del suo ventre fiumi di acqua viva.» Giov. vii, 38.
  6. In questa lettera di Dionigio alla Chiesa Romana il santo dice fra le altre cose: «Noi abbiamo celebrato in questo giorno la santa festa della Domenica, e abbiam letta la vostra lettera, la quale seguitiamo a leggere tuttavia per nostro ammaestramento; siccome la precedente scrittaci da Clemente.» Euseb. Stor. Eccl. Lib. iv c. 23. Sette lettere si conoscono di questo insigne Vescovo di Corinto, scritte ai fedeli di diverse chiese, cioè, oltre quella ai Romani, una ai Lacedemoni, una agli Ateniesi, una ai Nicomedii, una alla Chiesa di Amastris nel Ponto, una alla Chiesa di Gortina in Creta, e una ai Gnosiani nella medesima isola di Creta. Più note sono quelle sei bellissime di sant’Ignazio che ancor si conservano, agli Efesini, ai Magnesii, ai Tralliani, ai Romani, ai Filadelfini, ed agli Smirnei. Tanto estese erano le relazioni che conservavano quei Santi Vescovi, presbiterii, e popoli cristiani tra di loro!
  7. Si sottoscrivevano spesso con questa denominazione.
  8. Dell’uffizio che hanno i Vescovi di aver cura della Chiesa universale così dice san Cipriano: Copiosum corpus est Sacerdotum concordiae mutuae glutinae atque unitatis vinculo copulatum, ut si quis ex collegio nostro haeresim facere et gregem Christi lacerare et vastare tentaverit, subveniant caeteri. Nam etsi Pastores multi sumus unum tamen gregem pascimus et oves universas, quas Christus sanguine suo et passione quaesivit, colligere et fovere debemus. Ep. 68 al 67 ad steph.
  9. «Tutto si facea nella Chiesa, dice il Fleury, per consiglio, non volendo che vi regnasse altro che la ragione la regola e la volontà di Dio.» — «Le assemblee hanno questo vantaggio, che per ordinario vi ha sempre alcuno che mostra qual sia il partito migliore, e riconduce gli altri a ragione. Producono il rispetto vicendevole e si ha vergogna di palesarsi ingiusti in pubblico, quelli che sono più deboli in virtù vengono sostenuti dagli altri. Non è agevol cosa il corrompere una intera assemblea: ma è facile il guadagnare un solo uomo, o colui che lo governa: e se si determina da se solo, seguita l’inclinazione delle proprie passioni, che non hanno contrapposto. In ciascuna città il Vescovo non faceva niente d’importante senza il consiglio dei sacerdoti dei diaconi, e dei principali del suo Clero. Spesso ancora si consigliava con tutto il popolo quando avea esso interesse nell’affare, come nelle ordinazioni» Disc. I sulla Stor. Eccl. § v.
  10. S. Cipriano rendea conto al suo popolo di tutto ciò che faceva, e non potendo farlo di presenza, nel tempo della persecuzione il faceva tuttavia per lettere, alcune delle quali ancora si conservano (Ved. Ep. 38. Pam. 33). Due secoli dopo S. Agostino vedesi fare il medesimo col suo popolo. Nei suoi sermoni lo rende informato di tutte le bisogne della Chiesa, e gli dà minutissimo conto della sua condotta. Sono degni di essere osservati fra gli altri i sermoni 355, 356.
  11. «Si aveva tal riguardo all’assenso del popolo, dice il Fleury, nei sei primi secoli della Chiesa che se egli ricusava un Vescovo anche dopo consecrato, non veniva altrimenti costretto, ed un altro se ne creava che gli fosse accetto» (Discorso I sulla Stor. Eccl. § iv.) S. Agostino ne dice la ragione con queste parole dirette al suo popolo: Noi siamo cristiani per noi medesimi, e Vescovi per voi.» (Serm. 359).
  12. S. Cipriano in una lettera che scrive al suo Clero del nascondiglio ove si stava in tempo di persecuzione; rende per ragione del non aver dato risposta a certa lettera che alcuni suoi sacerdoti gli aveano inviata, l’esser egli solo; «perchè, dice, nel principio del mio vescovato deliberai di non far cosa di mio capo senza l’avviso vostro, e l’assenso del Popolo» (Ep. 14) Questo egli faceva secondo l’esempio dato costantemente dagli Apostoli. Si consideri il procedere Apostolico nell’elezione dei diaconi. Avevano certamente gli Apostoli la potestà di eleggere chi volevano. E tuttavia con quanto di dolcezza e di prudenza non propongono la cosa ai fedeli, perchè essi stessi i fedeli nominino quelli che stimassero i più degni ed idonei a quell’uffizio? «Prendete in vista essi dicono, o fratelli, degli uomini che godano di un buon testimonio, fino al numero di sette, acciocchè noi li possiamo costituire sopra questo ministerio» (Act. vi). E «piacque il discorso, seguita il sacro Storico, a tutta la moltitudine, che elesse i primi sette diaconi della Chiesa.»
  13. Il v dei venti Canoni disciplinari del gran Concilio di Nicea ordina che in ogni provincia il Concilio si tenga due volte l’anno.
  14. Distinguiamo adunque due epoche e due periodi. Il punto in cui comincia un ordine nuovo di cose, forma l’epoca di marcia; il punto in cui quest’ordine di cose è già formato e assestato compiutamente, forma l’epoca di stazione. Fra l’epoca di marcia e l’epoca di stazione v’ha un periodo nel quale la società lavora per organizzarsi, cioè per condurre alla perfezione quell’ordine di cose al quale si è volta, ed è questo che chiamiamo un periodo organizzatore. Organizzato perfettamente quel modo di essere della Chiesa, e così venuta l’epoca di stazione, non potendo le cose umane cessare dal loro movimento, succede ben presto un altro movimento in senso contrario, un movimento cioè di distruzione, e questo è quello che noi chiamiamo periodo critico.
  15. Varie furono le cagioni dalle quali il Clero fu tratto per forza delle circostanze e veramente contro suo volere nei temporali reggimenti. Alle addotte da noi si può aggiungere quella che un istorico celebre esprime colle seguenti parole: «I Romani avevano un sommo disprezzo ed avversione per questi nuovi signori (i barbari) che inoltre la loro rusticità e ferocia naturale erano tutti pagani ed eretici. All’opposto nei popoli si accrebbe la fiducia ed il rispetto verso dei Vescovi, che erano tutti Romani e spesso persone delle più nobili e delle più ricche.» A questa causa aggiunge: «Coll’andar del tempo però i barbari divenuti Cristiani entrarono nel Clero, e vi portarono i loro costumi: cosicchè si videro non solo i Cherici, ma fin anco gli stessi Vescovi cacciatori e guerrieri. Essi pure diventaron signori, e come tali obbligati a portarsi alle assemblee, nelle quali si regolavano gli affari dello stato, e che a un tempo medesimo erano Parlamenti e Concilî nazionali.» Fleury, Disc. vii sulla Stor. Eccl. § v.
  16. Quando nei primi tempi si trattò del ministrare alle tavole dei fedeli, gli Apostoli elessero i sette diaconi; di ciò incaricandoli. Quanto a se, dissero che non era conveniente che s’occupassero dei negozii temporali: e disegnarono le due funzioni eminentemente episcopali con queste parole: Nos ero orationi et ministerio verbi instantes erimus (Act. vi, 4). L’orazione corrisponde al Culto, e la predicazione all’Istruzione.
  17. Lo provano i timori che manifestano nei loro scritti S. Gregorio e gli altri Vescovi, che furono i primi a doversi ingolfare nei negozii secolareschi. Questi timori e lamenti vanno di mano in mano cessando nella Chiesa, sintomo dell’affezione che pigliava il Clero alle temporali fortune.
  18. Si può forse trovare un eccezione a questa legge solo noi primi secoli. In questi operò la sola forza organizzatrice, ma l’antagonismo non mancava, ella aveva la sua opposizione al di fuori della Chiesa nella società pagana.
  19. Al periodo di distruzione succede dunque un periodo di rifacimento. Questo rifacimento appartiene non al moto, ma allo stato della Chiesa. Contemporaneo poi alla distruzione è un periodo organizzatore: questo appartiene al movimento; è il tempo delle intraprese. A questo succede una stanchezza; tempo di stazione. Nel tempo di moto adunque lavorano due forze estremamente attive; l’una edifica, e l’altra distrugge. Nel tempo di stazione operano pure due forze ma di poca lena entrambi, l’una raggiusta partitamente i guasti, l’altra guasta ancora, ma più per negligenza che per altro, siccome in fabbrica a cui, dopo essere edificata, manchi una buona manutenzione.
  20. «I Vescovi dice il Fleury, trattavano fra loro a guisa di fratelli, con poche cerimonie e molta carità; e se vedete che si diano il titolo di santissimi, di veneratissimi od altri simili, attribuitelo all’uso che s’era introdotto nella decadenza del romano impero di dare a ciascuna persona i titoli proporzionati alla sua condizione.» Disc. sull’Istor. Eccl. dei sei primi secoli della Chiesa, § v.
  21. Nel Concilio di Costantinopoli dell’anno 381, quella Sede ottenne il primo posto dopo la romana. Non poco gli valse a ciò il nome che diede a sè stessa quella città di nuova Roma.
  22. Fu l’appoggio della potestà politica, che fece ribellare a Roma questi arcivescovi. Essi giunsero ad ottenere dall’Imperatore un’ordinanza che fu chiamata Tipo, mediante la quale venivano sotratti dalla Chiesa romana! Esso Tipo fu poi consegnato nelle mani del Papa, quando si sottomisero sotto Leone II.
  23. L’anno 677 Ravenna ritornò all’ubbidienza di Papa Donno. Quegli arcivescovi si ribellarono di nuovo nel 708, e fu un tratto della Providenza che quell’Esarcato ben presto cessasse, per la distruzione che fece di lui Astolfo re dei Longobardi l’anno 752 dopo esser durato soli 180 anni. Così la divina Providenza si servì di questi barbari invasori delle terre della Chiesa, a consolidare il romano dominio col porre in terra la potenza ravennate.
  24. Molti prendono una specie di scandalo in veggendo che i religiosi tanto fanno nella Chiesa, senza tuttavia esser pastori, e con privilegi che in gran parte li sottraggono al governo de’ Vescovi. Ma non è egli evidente, che questo fu un mezzo della Providenza, col quale ella sostenne la Chiesa di Dio, nel tempo appunto che i Vescovi erano distratti dalle temporali grandezze? L’istituzione dei frati mendicanti nel secolo xiii, e dei Cherici regolari nel xvi, ha manifestamente questo scopo di supplire a ciò che non faceva quello che si chiamò pur troppo il Clero Secolare.
  25. Il Concilio di Antiochia dell’anno 341, non che riprendere l’abitare del Vescovo alla corte, non parla tampoco di questo, come di un disordine ancora sconosciuto, e ordina che nessun Vescovo, prete, o altro cherico non possa nè pur fare una mera visita all’Imperatore senza il consenso e le lettere de’ Vescovi della provincia, e segnatamente del Metropolitano: e se alcuno infrange questa ordinazione del santo Concilio, egli sarà scomunicato, e sopra ciò sarà ancora privato della sua dignità! Tant’era la gelosia santa che aveasi allora per la libertà della Chiesa! tanto il timore del contagio delle grandezze temporali! Il Concilio di Sardica dell’anno 347 ordina che nè pure per gli affari che interessano la carità, vada il Vescovo a Corte, ma vi mandi un suo Diacono.
  26. Basta leggere la Storia di Cristierno tiranno di Svezia, e de’ Vescovi suoi adulatori, per convincersene. La Chiesa dee pur troppo la perdita di quella nazione a tali prelati! E si può dire il simile della Germania e dell’Inghilterra.
  27. I re francesi per esempio s’erano messi in testa, che morendo un Vescovo dello Stato, succedessero essi ne’ diritti del Vescovo per conferire i benefici semplici ecc. Può egli giovare alla Chiesa che i diritti di Vescovi venuti in tale condizione sieno molto estesi? e non più tosto che sieno moderati; acciocchè la Chiesa difendendo qualche residuo almeno di sua libertà, possa dire al re, quello che Gregorio ix scriveva all’Imperatore Federico ii, Esto quod in collatione Beneficiorum morientibus succedas, ut dicis, Episcopis: majorem in hoc ipsis non adipisceris potestatem (appresso Oderico Raynaldo, all’anno 1236). Le quali parole sono volte dal Pontefice ad un Sovrano che voleva appunto aver più diritti in Sede vacante, che non avesse il Vescovo stesso!! I Legisti francesi poi, i così detti prammatici, sostengono, che quand’anco il re trascuri di conferire i benefizi e così mandi l’anime de’ suoi sudditi in perdizione, il suo diritto non può essere però prescritto, nè provveduto in altro modo!!!!
  28. Essendosi agli ecclesiastici aggiunti molti beni temporali pretese il Sovrano d’esserne egli il dispensatore, egli ne volle dare il possesso al Prelato, che li riceveva dal re come un dono, secondo la frase che si trova nelle formole delle Investiture de’ secoli di mezzo. Ora il re con questa occasione esigeva dal nuovo prelato un giuramento, nel quale gli faceva promettere tutto ciò che volesse. Eadmero (Lib. ii. Histor. Novorum) racconta, che fra le altre belle cose, che Guglielmo ii re d’Inghilterra faceva giurare a’ nuovi prelati, v’era questa, che non appellerebbero al sommo Pontefice, nè anderebbero a Roma senza licenza del Re. L’appellazione de’ Cristiani tutti al supremo Gerarca è una libertà di diritto divino, che esce dalla intrinseca costituzione della Chiesa; l’oppugnarla è un tentativo di distrugger la Chiesa. Se v’entrano abusi, questi conviene perseguire ad emendare; ma non torre le appellazioni stesse. Medesimamente, ogni Cristiano dee potere liberamente recarsi appresso il Padre comune, il Romano Pontefice: tali sono le Libertà del Cristianesimo. Le provvidenze de’ governanti non debbono distruggere queste libertà; ma difenderle; ed è un difenderle l’impedire che col pretesto di esse si operi il male. Ma egli è egualmente vero; che col pretesto di levar l’abuso annesso all’uso di questa libertà, i principi recarono il dispotismo temporale nella Chiesa, e misero la forza bruta; dove dee solo trovarsi la forza morale, e cercarono l’impunità alle loro scelleratezze.
  29. S. Gregorio Nazianzeno (orat. ad Civ.) Quid vero vos Principes et praefecti, quid igitur dicitis?..... Nam vos quoque potestati meae lex Christi subjecit. Imperium et nos gerimus, adde etiam praestantius. Questa è dottrina della Chiesa cattolica.
  30. Ne’ buoni tempi della Chiesa si andava con assai di riserbo nell’usare le pene canoniche che troncano a dirittura dalla chiesa i colpevoli, per timore di mettere questi alla disperazione. Nel Concilio che S. Cipriano tenne in Cartagine dopo la persecuzione di Decio, l’anno 251, si esaminò la causa di quelli che avevano apostatato dalla fede nella persecuzione, e dopo lungo dibattimento si decise «di non levare in tutto ad essi la speranza della comunione; perchè disperandosi non divenisser peggiori, e veggendosi chiusa in faccia la Chiesa non ritornassero al secolo e alla vita pagana.» Ecco qual riguardo si aveva all’umana infermità.
  31. Si allude alla proposta che un prete fece al Clero di Francia di rinunziare agli stipendi che riceve dal governo, e ricuperare così la propria sua libertà; proposta generosa, e degna de’ primi tempi della Chiesa. Ella rammenta la libertà, di cui tanto era goloso l’Apostolo Paolo, che per non scemarlasi, non voleva esser mantenuto a spese de’ fedeli, sebben n’avesse il diritto come ogni altro Apostolo; e preferiva di aggiungere alle fatiche immense dell’Apostolato anche il lavoro delle mani, col quale guadagnarsi giornalmente quel poco di che avea bisogno per sostenersi: «Omnia mihi licent diceva, sed ego sub nullius redigar potestate (1 Cor. vi, 12). Sentimenti così nobili riescono strani a’ nostri tempi; ma qualche cuore li riceverà; il seme gittato non si morrà senza portare il suo frutto, chè la parola di Dio non ritorna vacua giammai.

    Ma chi la ha pronunziata questa parola divina, chi ha sentito sì altamente il prezzo della libertà della Chiesa perchè ha prodigata poi questa libertà della Chiesa agli empi? perchè non ha veduto che la libertà non è che un diritto esclusivo della verità? perchè ha accomunati i diritti della immutabile verità alla menzogna? ha innalzata l’umanità senza Dio a quell’altezza di grado che solo appartiene all’umanità divinizzata dal Cristo? non si è formato ad adorar nella Chiesa, cioè nella società de’ figliuoli di Dio, la colonna ed il firmamento della verità, e s’è lusingato di trovare questa colonna e questo firmamento nella società de’ discendenti d’Adamo, de’ figliuoli degli uomini? Certo il sistema è coerente: se all’umanità del peccato appartiene la verità, a lei appartiene altresì la libertà. Ma per me non veggo possibile che la verità e la giustizia si partano insieme; per me tengo che la verità sia l’appannaggio della società de’ giusti; che il diritto d’esser libero non appartenga all’errore; che perciò l’uomo non nasca, ma si renda libero pel Cristo, pel quale riceve la luce della verità e l’ornamento della giustizia. A coloro solo che sono conscii di non possedere la verità, ma di andarne perpetuamente in cerca, che non possono nè pur mentendo persuadere a sè stessi di averne più che una speranza vana che mai non si avvera, a costoro dico, appartiene quella dottrina di disperazione che «tutti i pensieri che ascendono dal cuore dell’uomo sieno egualmente in diritto di propagarsi e di assalire la persuasione inferma e cedevole de’ popoli.» Non è di un cattolico tale dottrina, no; perchè egli sa di possedere il vero; nè sente la dignità, il prezzo infinito, e vede che non istà in lui di alienare i diritti. E questa è la ragione perchè il Capo della Chiesa cattolica ha innalzata la sua voce contro una dottrina che si presentava a nome del cattolicismo, l’ha disconosciuta per tale. Doni Iddio lume alla mente dell’uomo, di cui non possiamo parlare senza trasporto di stima e di affetto; gli doni tanto dominio di sè stesso, e tanta fortezza di animo, che vincitore dell’amor proprio, e delle adulazioni degli amici e dei nemici, rientri interamente e lealmente nel cammino della verità, alla quale ha prestato tanti servigi, ed ha mostrato tanto di affetto e di devozione, che s’è messo in una fortunata necessità di non potere oggimai più essere coerente a sè stesso, se non ritrattando francamente i propri errori, e sottomettendosi appieno alla Cattedra eterna a cui il magisterio della verità è affidato.