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V. Emilio Praga

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V.

Il poeta di cui ci occuperemo oggi è morto da una diecina d’anni e più, e i suoi versi sono, come quelli del D’Annunzio, quasi tutti inaccessibili alle signorine. Pure se siete tutte coraggiose, o almeno ginnastiche discrete, tenteremo di dar la scalata anche a quest’albero del mio verziere per rubarne qualche frutto tra i più maturi. Quelli non fanno male. E se alcuno passando osserverà, come nel poetico frammento di Saffo, che i raccoglitori dimenticarono le dolci mele rosseggianti sulla cima estrema del ramo noi risponderemo con le parole medesime di Saffo: «No, non le dimenticarono, ma non le poterono cogliere.»

Il nome del poeta è Emilio Praga. Apparteneva a quel gruppo di artisti che, dopo Mürger, si credettero [p. 196 modifica]obbligati a darsi alla vita più dissoluta e più bizzarra, per la sola ragione che essendo artisti, era necessario scostarsi in qualche modo dagli altri uomini. Era come un privilegio della casta, un’affermazione e una necessità del mestiere: ma per emergere s’impantanavano. Cominciavano dal vino, passavano all’oppio e all’haschich e finivano coll’assenzio. Sciatti, disordinati, incolti, sgarbati per progetto, spesso brutali. Gente poco piacevole, come vedete. Pure era convenuto che fossero così e si rispettavano, precisamente come quei famosi santi della Turchia; certuni anzi li esaltavano.... sempre come in Turchia. Apro la prefazione alle Trasparenze del Praga e subito c’è un signore che mi avverte con piglio severo che «Il poeta, l’uomo di genio, non può essere giudicato alla stregua del volgare galantuomo....» Dunque attente signorine! Il poeta e l’uomo di genio da una parte e i galantuomini dall’altra. E che non nascano confusioni per carità....

Per buona ventura delle signore, però, quella razza non ha durato molto. Ora se restano dei bohémiens sono giudicati codini. I poeti moderni sono tutte persone serie, studiose, cortesi, ordinate, tranquille: alcuni giungono perfino a cantare le loro mogli e la loro casa; due cose che per gli altri non esistevano...

Ma per Emilio Praga . Strano amalgama di fango e di raggi! Accanto alle oscenità egli esalta la cosa più pura e più bella; il bambino, il suo bambino; la più soave: la casa sua. Una pesante nostalgia l’opprime: quella del buono, del vero, del sano, del semplice, dell’onesto. Questo dissoluto ha qualche volta accenti di così dimessa mestizia, di così ingenuo tripudio, che intenerisce e sorprende. [p. 197 modifica]A poco a poco quella sincerità d’arte, di pensiero, ci attrae, ci penetra, ci vince. Il ribrezzo svanisce, rimane il desiderio d’inginocchiarci accanto al ferito, di posargli la mano sulla fronte e di parlargli all’orecchio di fede e di perdono. E molto gli sarà perdonato poichè molto amò. La sua vita, i suoi canti sono un incendio, ma non un incendio vivo, libero, grandioso: la fiamma è nell’interno, soffocata, logoratrice, qualche volta aduggiata dal fumo, sovente guizzante all’esterno in lingue cocenti che avvolgono, lambiscono, scompaiono. Dal bruco all’astro, tutte le cose create cantò con anima di poeta vero. Quanti poeti inneggiarono alla neve! Eppure nessuno adoperò sfumature così delicate, nessuno ebbe accenti così spontanei, esultanze così fresche, quasi infantili:

La bella neve! scendete, scendete,
Leggiadri fiocchi danzanti nei cieli.
Come perluccie coprite, pingete
I tetti, i tronchi, la mota, gli steli.

Dacchè l’ottobre soffiando, spruzzando
Ingiallì tutta la vasta campagna,
Fuor da’ miei vetri ove fievole urtando
La farfalluccia dal freddo si lagna,

Mi morir cinque di rosa arboscelli,
E spirò l’anima a Dio la violetta;
Senza l’ammanto di viti, i cancelli
Sembran soldati disposti in vedetta.

Pur questa notte una mano furtiva
L’inaffiatoio rubommi in giardino!
(Se fu per fame che alcun lo rapiva.
Iddio nol vegga l’agreste bottino).

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Intirizzisco se schiudono l’uscio,
Ma qui la stufa borbotta tepente:
Oh benedetto il mio piccolo guscio,
Per me, nevata, sei tutta innocente!

Fa il tuo mestiere: scendete, scendete,
Leggiadri fiocchi danzanti nei cieli;
Come perluccie coprite, pingete
I tetti, i tronchi, la mota e gli steli...

Della mia donna nel fervido core
Aleggia sempre una brezza gentile,
E quando il poeta è ricco d’amore,
Anche il Gennaio somiglia all’Aprile.


I tenui episodi della farfalla smarrita, dei fiori moribondi, del furto dell’inaffiatoio, colorano questa nevata di delicati riflessi antelucani; quando l’aria è ancor pura e le passioni ancora dormono.

Potrebbe esser scritta da una di voi, signorine.

Il canzoniere del bimbo è una collana di piccole perle. Credo di poter accostare qui il nome del Praga a quello di Edmondo De Amicis per dirli i bardi del popolo minuscolo che ha per sè l’avvenire. I bambini sbocciano vivi dai loro canti in tutta la lor goffaggine deliziosa, in tutta la lor paurosa fragilità, in tutta la loro potenza di ispiratori della più schietta poesia. Vi basti qualche ritaglio per saggio:

Egli aperse quel dì le sue finestre,
Guardò nel cielo e ringraziò l’azzurro;
Sorrise ai fiori e ringraziò i profumi,
E disse all’aura: oh dolce il tuo susurro!
E alle rondini: addio!
E al passeggier: vi benedica Iddio!
                  . . . . . . . .
E poi disse a sè stesso: — Anima mia,
Bevi l’ambrosia dai polmoni ansanti;

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Centuplica le tue libre d’amore,
Ti stempra anima mia, ti stempra in canti,
È nato il bambinello
Candido, vispo, vigoroso e bello.

È nato il bambinello, il sospirato,
Il messia della placida casetta:
Egli è là, nella culla è già raccolto,
E gli han vestita già la camicetta;
La camicetta bianca,
Con due vaghi ricami a destra e a manca.

Egli è là: sul suo pallido visino
Tutti i sogni del cielo ho già sognati;
Credo agli angeli adesso, agli angioletti
Di vaghe aureole bionde incoronati...
Volumi, io vi saluto,
Imparai l’universo in un minuto.

E più innanzi:

Volin le nuvole
Brilli il sereno!
Dacchè cullandoti
Su questo seno
Vi scende il gaudio
Dal paradiso,
Più non interrogo
Che il tuo bel viso!

Quel viso candido
Dai capei d’oro
. . . . . . . . . . . .
Quel viso candido

Con quel nasino
Che sembra un pètalo
Di gelsomino:
Con quelle piccole
Guancie di rosa,
Parenti prossime
Della mimosa.

Oh, quando in braccio
Della nutrice
Il tuo ti coglie
Sonno felice,
E il capo dondoli
Come un vecchietto
Che sogni il ciondolo
Del suo berretto;

Quando, le deboli
Braccia incrociate
E le finissime
Mani allargate
Al par di un monaco
Fuor dal cappuccio,
Mi osservi attonito
Dal tuo lettuccio

Senti: io risuscito
Le ricordanze,
E per le cèrule
Mie lontananze
Ricerco l’èsule
Che fu me stesso,
Il bimbo, il giovane
Che un padre è adesso
. . . . . . . . . . . .

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E adesso anche quel bimbo che sognava il ciondolo del berrettino è un giovane e sogna la gloria, e s’avvia a diventare uno dei migliori drammaturghi italiani.

Ascoltate, ascoltate, fanciulle, e vi scenda sul cuore la pace onesta e blanda e beata a cui attinge il grillo le sue eloquenti canzoni, e l’uomo l’unica felicità:

Quando il sol cadde e tacquero le squille,
La quïete e l’amor cantano un coro
Alla tribù dell’anime tranquille.

L’uomo è stanco di passi e di lavoro,
La donna ha l’occhio languido e profondo,
Il focolare è una chiesetta d’oro.

Mentre il suo raggio acuto e rubicondo
Cresce o svanisce lottando col cero
E colla luna che accarezza il mondo;

Mentre il musino del gattuccio nero,
Immobile ed intento al limitare
Sogna il suo lungo sogno di mistero;

Come un mesto palombaro nel mare
Io discendo nel cor che Iddio m’ha dato,
E mi guida le perle a rintracciare

Il respiro del bimbo addormentato.

Vagliata così, la poesia di Emilio Praga pare onesta, casalinga, queta, tutta odorante di basilico e d’olivo. E forse questa è più sincera dell’altra che come un limo malsano viene a galla nell’effervescenza delle ore tumultuose. Udite che nomi di gentile tenerezza sa trovare per la madre sua in questi versi a lei dedicati: [p. 201 modifica]

I RE MAGI


I bei vegliardi dallo scettro d’oro
Che per la neve, sotto il ciel sereno,
Sostar sommessi alla mia porta udia,
La notte della santa Epifania,
O son morti di freddo, o son malati
Nei paesi del sole,
I bei vegliardi dallo scettro d’oro!

Quando la mia scarpetta sul verone
Tutta avvizzita facea la rugiada,
E tu, madre, domestica regina,
La colmavi di doni alla mattina,
Io ricciuto avea il crin, candida l’alma,
E ogni alba che venìa
Di giornate regali il don mi offrìa

Un giovin Sire senza scettro d’oro,
Ma cui nutrian d’aromi e terra e cielo,
E una corte di sogni e di speranze
Complimentava fra beate stanze,
Era in quei giorni io stesso:
Io che il perduto imper sospiro adesso!

I bei vegliardi dallo scettro d’oro
Che per la neve, sotto il ciel sereno,
Sostar sommessi alla mia porta udia,

La notte della santa Epifania,
O son morti di freddo, o son malati
Nei paesi del sole,
I bei vegliardi dallo scettro d’oro.

Quella vena d’amara nostalgia dell’innocenza, della semplicità, che insiste, insiste opprimente quasi come un rimorso, non è già l’elevazione dell’anima, la purificazione, la redenzione?

Fino a qualche tempo addietro io non avevo molta simpatia pel Praga; mi urtava troppo quella negli[p. 202 modifica]genza della forma che i vecchi e sommi maestri m’appresero ad adorare: ma vivendo adesso con lui qualche ora d’intimità spirituale, la fragile e fresca flora di quell’anima di poeta ha adornato la mia anima d’un’insolita primavera, una primavera mite e triste come veduta tra i languori della convalescenza...

Ah quante fantasie mi susciterebbe ancora il pallido cantore! Ma lo spazio incalza: non c’è più posto che per un’ultima nota — la nota eloquentissima d’un sentimento femminile. Essa vibra nella raccoltina che ha il grazioso titolo di Domus-Mundus:

La bella mano gli posò sul crine
E disse: — io vedo il tuo serto di spine
E sento l’onda che hai qui dentro ascosa,
O mio dolce poeta, e son gelosa!

Son gelosa de’ tuoi vaghi dolori,
Delle tue belle vendemmie di fiori,
Sono gelosa della fantasia
Che ti dilunga dalla soglia mia...

          . . . . . . . . . .
          Non vedi? son pallida
          Son tacita anch’io;
          Perchè quando a vespero
          Favello con Dio,
          Mi guardi nel viso
          Con mesto sorriso?

Io mi affiso lassù, tu in basso guati;
Io mi faccio gentil, tu ti fai strano....
Oh dove sono i dì volati,
I dì che insieme viaggiavam lontano?

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Era in riva del mar, nel paesetto,
In mezzo ai boschi... mi ricordo ancora!
Quanta speranza ti cantava in petto,
Come ridendo correvamo allora!
  . . . . . . . . . .


E in grazia di questa nota in cui è tutta la melodia appassionata d’un trepido cuore di donna — uno di quei cuori semplici che i poeti amano — perdonate, signorine, al triste cantore le brutture che non conoscete. È morto — e che non si perdona ai morti? E dalle vostre mani, o buone, dalle mani alacri e pie scenda sulla tomba del poeta doloroso, in questa dolce primavera, una gentile carità di fiori. [p. 204 modifica]

Piccolo intermezzo in prosa.

«L’uomo non educato alla consuetudine del pensiero, per buono e forte che tu lo imagini, s’immerge tutto, felice o infelice che sia, nelle proprie condizioni di vita, piglia dell’allegria delle imbriacature da non si reggere, s’accascia nella tristezza senza che un raggio solo di luce, un fiato solo d’aria pura gli arrivi da nessuno spiraglio. Il pensatore invece l’artista, ha un mondo d’immagini tutte per sè, una selva d’idee, un popolo di fantasimi tra cui diportarsi: e in mezzo a loro si lascia quasi inconsapevolmente andare a seconda, divellendosi al proprio cordoglio».