Dal mio verziere/Dal mio Verziere/IV
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IV.
A proposito di Arturo Graf mi ricordo di aver sostenuto con un professore, una discussione accanita. Egli voleva negarmi il diritto di contarlo fra i poeti adducendo la ragione che in Italia non è specialmente conosciuto come tale: ed io, col mio granellino di ribellione al convenzionalismo, m’impuntavo a metterlo tra i quattro miei preferiti ed anche ad anteporlo a qualche lirica autorità costituita con grave scandalo del mio avversario. Naturalmente ci separammo rafforzati entrambi nella nostra opinione e amici più di prima. Mi accadde poi qualche tempo dopo di trovare in una rivista, a cui attendono persone illustri, il nome del Graf onorato insieme al Carducci e allo Stecchetti dell’aggettivo di «maestro della rima». Immaginatevi qual trionfo per le mie teorie e che documento importante per un bisticcio futuro che, per fortuna del mio interlocutore, si farà molto aspettare.
Non so se oltre «Medusa» Arturo Graf abbia pubblicato altri volumi di versi. Credo di no. Mi innamorai delle sue poesie trovandole qua e là, solitarie e luminose, come gemme di gran valore che non hanno bisogno di esser aggruppate nè rilegate per suscitare l’ammirazione. Ognuna nella sua vergine e forte limpidezza vale mezza dozzina, e più se volete, di quegli elzeviri che furono una vera e nuova invasione barbarica per la povera Italia, pochi anni or sono. Mi dicono che è vano cercare l’indole vera dell’individuo nella produzione artistica che cause varie e infinite possono informare; cercare l’uomo nel poeta è poi — si aggiunge — una completa stoltezza. Pure io non posso impedirmi di trovare rispecchiata nella bella e armonica poesia del Graf la figura giovanilmente severa dell’autore, nella sua corretta e sobria eleganza di linguaggio, nel suo mirabile, ed, ahimè, raro equilibrio della mente e del cuore. Ci vedo perfino un riflesso della sua Atene nativa, delle selvose solitudini rumene dove studiò, dell’ardente e azzurra Napoli che prima applaudì al novello dottore. Arturo Graf è ora l’idolo della studiosa gioventù piemontese che perfino giunse a nuocergli per troppo zelo nella difesa d’alcune teorie letterarie del suo professore. Che esempio per certi studenti!...
Ecco il primo fiore di questo poeta, che s’incontra nel mio verziere:
NINFEA
Un soave mattin di primavera
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Avete assaporato, signorine, il sano odor dei pini, e l’incanto innocente di quelle acque, e il riso ingenuo di quella candida corolla e la forte purezza di quel sogno? Si? Ebbene, allora esultate; siete poetesse anche voi.
Ecco un altro sonetto più soggettivo. Quello era una perla questo un’opale. Due diversi candori, due diverse virtù.
NIRVANA
Un arcano baglior, vasto, uniforme, |
Io credo che lo stesso Carducci potrebbe mettere la sua firma sotto questi versi senza tema di danneggiarsi. L’impressione fantastica dell’immenso misto al meraviglioso, e sempre rinnovellata per la mutazione rapida e lenta, insieme, degli aspetti, commista al pauroso stupore che esercita ancora su noi come sui primi abitanti del globo certi fenomeni della natura, sono resi magistralmente. Quell’incubo dilettoso è raccontato con tanta efficacia che ci par vero: abbiamo proprio messo l’occhio alla lente d’un mostruoso caleidoscopio in fondo a cui non c’è che aria e luce; o pensiamo al divino e angoscioso spettacolo d’un’aurora boreale veduta a parecchie migliaia di metri dalla terra nella navicella d’un pallone areostatico, naufrago nell’infinito.
Sono dolente di non potervi trascrivere per intiero nessuna delle poesie del Graf che trovai tempo fa nella Nuova Antologia e che d’averle lette in me stessa n’esalto ancora. La severa dolcezza è la nota dominante nella lirica di Arturo Graf la quale somiglia proprio allo stile dorico della sua terra beata. Eccovi un frammento di Resurrexit. Prima il poeta con qualcuna delle sue grandiose pennellate d’ombra e di luce ci mette in una pianura sterminata e vuota, sotto un cielo nubiloso, fra una «frescura acerba di Maggio boreale» mentre «svania la notte e ancor non era il giorno».
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Come avvenne non so; ma innanzi un bianco Primavera spuntava, e sur un lembo . . . . . . . . . . . . |
Scomparsa la visione amata e gentile, che proprio mi piange il cuore di rappresentarvi mutilata così, il Graf nel Post mortem ci dà una vaga fantasia macabra, ammorbidita da una verdezza melanconica di un paesaggio di ricordo, e della melodia suggestiva d’una vecchia musica mèmore. Di questo non posso proprio darvi che gli ultimi tocchi, ma vi sarà possibile, credo, giudicare da essi della bellezza indescrivibile dell’intero componimento:
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Da un vol di nubi candide e leggiere
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Ma non vi lascerò, signorine, con l’impressione livida di queste spettrali rovine. Potreste fare dei brutti sogni. Il Graf, se non ha nulla di molto roseo nè lieto, ha però qualcosa d’estremamente blando e tranquillo, d’una pace alta di chiostro, dove anche la tristezza e le lagrime acquistano una pura soavità. Tolgo dalla «Medusa»;
Povero cappuccin quant’anni avete? |
Lasciamoci quì. La morte del credente, dell’umile, del buono non è paurosa. Con la memoria piena del mite quadro d’una fresca semplicità francescana, sogneremo il paradiso schiudersi radioso nei paesi del sole per accogliere l’anima pia e triste involata nel lume di rosa e di viola d’una fredda aurora....
O poesia, poesia!
Piccolo intermezzo in prosa.
«Due fiori sbocciano sui margini di un ruscello. Ma ahimè! il ruscello si separa.
«In ciascuna corolla posa una gocciolina di rugiada, luminoso spirito del fiore. Il sole dardeggia su una d’esse e la fa risplendere. Ma il fiore pensa: perchè non son io sull’altra riva!
«Un giorno questi fiori si curveranno per morire, e lascieranno cadere come un diamante il loro spirito luminoso.
«Allora le due goccioline di rugiada potranno riunirsi e confondersi».
Quartina Giapponese.