Dal Trentino al Carso/Sul Carso/La Battaglia di Settembre/L'attacco

L’attacco

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La Battaglia di Settembre.


L’ATTACCO.

Zona di guerra, 14 settembre.

La offensiva italiana ha ripreso. Era aspettata. Il nemico la presentiva, vi si preparava, lavorava giorno e notte a fortificarsi sempre più, a incavernarsi, ad accumulare nuovi ostacoli per spezzare l’impeto dei nostri assalti. L’attacco vittorioso della testa di ponte di Gorizia aveva avuto il vantaggio di una sorpresa che non poteva ripetersi. Gli austriaci vedevano nella logica della situazione il nostro programma. Cercavano di creare degli argini proporzionati alla marea. Erano in guardia, erano pronti. Non si videro mai delle posizioni apprestate così rapidamente alla difesa, trasformarsi così, giorno per giorno, ora per ora, in formidabili barriere.

Quelle opere di consolidamento e di protezione che erano costate un anno di lavoro sulle prime pendici del Carso, stavano sorgendo eguali sulle nuove linee con magica rapidità. Dopo un mese, la fronte creata dalla battaglia [p. 208 modifica] di Gorizia non si riconosceva più. Spariti gli alberi, sparita l’erba, sparite le case, e sulla sterilità spaventosa fatta dal soffio ardente della guerra si allungava l’immane intreccio dei camminamenti profondi, delle trincee scavate nella roccia, dei reticolati folti, con i suoi «grovigli», le sue ridotte, i suoi fortini, lo stesso intreccio che apre il nero labirinto dei suoi scavi sulle linee sorpassate.

Anche le nostre truppe avevano lavorato alacremente, piene dell’esperienza del passato. Attaccandosi al nuovo terreno vi si erano sprofondate subito; lo avevano tagliato, solcato, forato per ogni verso; avevano fatto di ogni rovescio di altura un fantastico alveare di rifugi, di ogni costone un solido baluardo. Con una sorpresa indicibile si assisteva alla trasformazione dei luoghi. La guerra imprimeva con rapidità vertiginosa una fisionomia nuova al paesaggio, quella fisionomia truce, uniforme, che dice la lunga lotta. Pareva che la battaglia vi si accanisse da epoche. Tutto vi aveva assunto un aspetto inatteso e tragico. Colline verdi, boschi, villaggi, vette sterpose e pittoresche, valloncelli prativi, erano diventati una cosa sola, quella cosa strana, desolata, sconvolta, grandiosa, monotona, sinistra, che si chiama «posizione».

Il nemico aspettava la ripresa dell’offensiva, [p. 209 modifica] e negli ultimi giorni tentava di prevenirci e di paralizzarci con degli attacchi suoi. Sentiva vicino il colpo che si preparava, e diveniva irrequieto. Aveva ricevuto ampi rinforzi, e ne profittava per cercare qualche punto debole della nostra fronte, per obbligarci ad una difesa che imbarazzasse i nostri piani. Non ha trovato giunture nella corazza. Ogni attacco era respinto al suo inizio. Ora avanti a Gorizia, ora lungo il Vertoibizza, ora sul Carso, di notte, dopo una preparazione di artiglieria, gli austriaci gettavano all’assalto olro fanti, con quella tattica che aveva avuto qualche successo in passato nel vallone di Oslavia. Due notti or sono sferrarono un colpo più forte nella zona di Oppacchiasella. L’attacco raggiunse un elemento di trincea nostra; il nemico credette venuto il momento di allargare l’azione e ammassò delle truppe per sviluppare il successo all’alba; ma l’alba portò un contrattacco che sorprese le truppe ammassate le le annientò. Piccole operazioni, in fondo, che non potevano rallentare. il corso degli eventi. Noi eravamo pronti al nuovo slancio.

Eravamo pronti da vari giorni. Per usare la frase caratteristica di un ufficiale di stato maggiore, non mancava che di «toccare il bottone» perchè l’immane macchina dell’offensiva si muovesse. Ed è probabile che per toccarlo si aspettassero circostanze relative ad altre [p. 210 modifica] guerre. La «fronte unica» è un ideale raggiunto.


Era sembrato un miracolo la manovra per linee interne, eseguita in otto giorni, che scagliò dal Trentino le nostre masse su Gorizia; ma se si conoscessero i particolari della preparazione per l’offensiva che si è iniziata, si troverebbe che essa è non meno mirabile. Noi attacchiamo posizioni ben munite, sopra un terreno assai più aspro e più difficile di quello del primo altipiano carsico, che ci ha fermati per un anno, e difese da un nemico prevenuto, esperto in tutte le arti della lotta di resistenza. La preparazione, regolare, intensa, palpitava su tutte le vie della guerra.

Affluivano artiglierie colossali in quantità insospettate. Passavano di notte, sotto le piogge scroscianti di questo autunno brumoso, cannoni grandi come tronchi d’albero, e andavano alle loro piazzole già fatte, disseminate in ogni angolo utile. Trovavano tutto pronto, nuove strade di accesso aperte per loro, piattaforme costruite alla loro misura, baluardi, casematte, osservatori, linee telefoniche, e si insediavano. Tutti i sentieri del Carso erano diventati delle grandi arterie automobilistiche, create sotto al fuoco, compiute in pochi giorni, come per magia.

Quando si parla di offensiva si pensa alla [p. 211 modifica] battaglia, ma l’offensiva comincia con una immensa e oscura operosità di artieri. Si può dire che la nostra offensiva attuale sull’Isonzo cominciò nei più angosciosi momenti della guerra nel Trentino. Cominciò col lavoro di trentamila operai. Gli eserciti su questa fronte si erano ridotti per fornire la nuova armata di manovra destinata a battere il nemico se fosse sboccato su Vicenza, il momento sembrava disperdere ogni speranza di attacco nostro sull’Isonzo e il generale Cadorna fu interpellato sulla opportunità di soprassedere ai lavori destinati all’offensiva. «Si continuino con la massima alacrità — egli rispose — il momento verrà!» Ed è venuto.

Alle sei e mezzo di questa mattina è cominciata sulla fronte del basso Isonzo l’azione che continua la battaglia di Gorizia. Veramente non si può parlare più di «fronte del basso Isonzo»; l’Isonzo qui è ormai lasciato definitivamente indietro, e sempre più lontano. L’erba già inverdisce le sue trincee abbandonate e corona i ruderi dei suoi villaggi, che hanno preso aspetti di rovine antiche.

Quanto si estende l’offensiva? Non si sa finora che quello che si è riusciti a vedere. Basta per intuire la magnifica lena dell’azione, per sentirne tutta la potenza, metodica e fortunata. Sembra che sul Carso si avventi l’attacco più intenso e più impetuoso. [p. 212 modifica]

Dal Carso discendo ora stordito, commosso, incapace di dare subito un ordine alle mie impressioni, con l’anima piena di tumulto, e porto negli occhi una visione straordinaria di battaglia rimastavi come un bagliore; un turbinìo perenne di uomini e di fumo dal quale non so più distaccare il pensiero e che seguo palpitando.

Dal Crai Hrib, la vetta rocciosa che torreggia ad oriente di Doberdò, si dominava la linea di attacco sull’altro versante del Vallone. Al sud la famosa Quota 144, isolata, rigata dai trinceramenti nemici, col mare per sfondo e il castello di Duino, massiccio e pallido, nella lontananza. Di fronte, vicine, le due Quote 208, due alture gemelle, singolari, sterpose, sassose, selvagge, separate da un’insenatura, trasformate in due possenti ridotte austriache. Più oltre un biancheggiare di edifici, un gregge di case fra la boscaglia: Nova Vas, occupata ancora dagli austriaci. E vicino, a sinistra, in un folto d’alberi, Oppacchiasella, occupata da noi. A nord, il Nad Logem, gonfio, oscuro, che ricorda il monte San Michele. Lontano, grandi ondate di monti, le gradinate del Carso che si sollevano fino al ciglione dominante la valle del Vippacco. Su tutto questo un cielo oscuro, minaccioso, un’atmosfera velata, un’ombra livida, un’ombra crepuscolare, sinistra, angosciosa. [p. 213 modifica]

Centinaia e centinaia di cannoni erano annidati per tutto, vicini, lontani, fra i rovi, fra le rocce; un pullulare di vampe li rivelava. Passavano soffi infiammati, urli veementi che sbalordivano, rombi pesanti che facevano pensare a locomotive invisibili, e la terra tremava. Nei periodi del fuoco più intenso, gli scoppi, i boati, gli scrosci si seguivano fusi in un solo infernale frastuono. Una cateratta di colpi. Era impossibile parlarsi senza urlare, e si sentiva sul petto come un contracdolpo di esplosioni. L’artiglieria arrivava al parossismo del furore. E sulle posizioni salivano alti i getti di fumo e di detriti. Balzavano vertiginosamente nell’aria, spesso, delle cose informi che ricadevano roteando. «Un uomo! un uomo è saltato!» — si udiva allora gridare da qualche osservatore al telescopio. Eruzioni di schegge, sparpagliandosi, punteggiavano il cielo. Masse di terra sollevate a grandi altezze riscendevano fonte con aspetto di pioggia, e il fumo si trascinava a nembi immani giù per i declivi. Le bombarde lanciavano pennacchi smisurati e nerastri. Per lunghi minuti tutto si velava, spariva, la tempesta di fuoco accumulava le tenebre. Le posizioni non erano più che un’agitazione sterminata di nubi fosche piene di balenìi. Le granate incendiarie spandevano nei vapori lunghi riflessi di fantastica fucina. [p. 214 modifica]

Il bombardamento aveva delle calme. Era per dar modo alle pattuglie di avanzare ad esaminare i varchi aperti dal fuoco. Si sapeva che le pattuglie sarebbero uscite dalle undici alle undici e mezzo e dalle tredici alle tredici e mezzo: tutto era stabilito per programma. In quei momenti, il panorama si nettava; riapparivano le trincee, i reticolati e si vedeva la nostra fanteria che si ammassava per l’assalto. L’ora dell’assalto: le quindici.

Ad ogni tregua del cannone, si rivedevano le posizioni più nude, più sterrate, di un colore di roccia spaccata. Nova Vas mutava profilo. Si cercava qualche suo edificio visto prima, e non si trovava più. La facciata della sua chiesa era caduta come un sipario. Intanto gli austriaci, allarmati dalla quiete, uscivano fuori dalle caverne. La loro artiglieria disseminava con orgasmo granate e shrapnells da ogni parte, batteva il Vallone, batteva i rovesci, tirava su Doberdò, su San Martino, su Monfalcone, cercava i nostri cannoni e le nostre riserve. Gli artiglieri italiani gettavano voci di scherno ad ogni proiettile nemico che scoppiava vicino.

Alla seconda ripresa del bombardamento il cielo si è fatto più fosco e un temporale si è scatenato. Diluviava e pareva già notte. Gli osservatori non vedevano niente, si tirava in un caos di grigiori. Tutto era buio, velato, e il [p. 215 modifica] Nad Logem sorgeva dietro al fumo di Oppacchiasella come una gran nube nera. L’Adriatico era ancora stranamente dominato dal sereno e distendeva all’orizzonte un sottile luccicore metallico, come una immensa spada.

Si avvicinava l’ora dell’assalto. Improvvisamente, qualche raggio di sole è filtrato. Il cielo si è schiarito qua e là. Il bombardamento arrivava ad una intensità definitiva. Nell’aria era tutto un clamore di proiettili che passavano sulle nostre teste. Ogni ufficiale consultava l’orologio. Le quindici. I grossi e i medi calibri hanno sospeso il fuoco. I cannoni da campagna e da montagna hanno allungato il tiro, facendolo più rapido. Sgranavano giù i colpi a centinaia, sparavano come mitragliatrici. Nelle nostre trincee si vedevano molti soldati, appena arrivati per l’ammassamento, deporre tranquillamente lo zaino. I parapetti apparivano tutti grigi d’uomini immobili, indifferenti al fuoco. Un grande ordine, una gran calma lassù. Si sentiva la risolutezza, la decisione dell’assalto imminente, in quella serenità magnifica.

Ad un tratto sono partiti. È nella selletta fra la Quota 208 nord e la Quota 208 sud che si è visto l’assalto saettare. Invece di attaccare frontalmente le ridotte delle cime, la fanteria si gettava fra l’una e l’altra [p. 216 modifica] per penetrarle e aggirarle. Saliva un prato in declivio verso la trincea nemica. In quel momento tutta la posizione è avvampata di sole.

Salivano i nostri come un nuvolo di foglie portato da una bufera. I dischi bianchi di segnale si agitavano in testa a quel turbine d’uomini. I medi calibri di Duino tiravano d’infilata sull’assalto. Nembi di fumo passavano sulla visione eroica e l’avvolgevano in un pallore di irrealtà. Vi era in certi istanti qualche cosa dell’apparizione, del sogno, in quell’ascesa esultante e sanguinante. I nostri cuori palpitavano e il cannocchiale oscillava nelle nostre mani frementi.

L’assalto ha sorpassato la trincea nemica, è scomparso per un istante al di là, poi è riapparso a sinistra. Compiva la manovra di aggiramento. Avanzava veloce sopra un rovescio. L’assalto si vedeva di profilo ora, lungo un costone. Tutta quella moltitudine di uomini inclinati in avanti nell’impeto della corsa, sembrava veramente piegata da una raffica che la trascinasse. Pareva che seguisse il soffio di una tempesta come un campo di spiche. L’immagine dell’uragano si connetteva indissolubilmente a quella violenza, piena di qualche cosa di travolgente e di irresistibile che arrivava fino a noi. Un istante dopo l’assalto era in cima. E allora si è vista un’altra folla sorgere dalla trincea della cresta. Gli austriaci. [p. 217 modifica]

Correvano anche loro in uno svolazzamento di cappotti fulvi. Sfilavano curvi, uno dietro l’altro, in una fila che coronava tutta l’altura. Si precipitavano apparentemente verso i nostri. Poi il loro movimento si è fatto confuso, la loro fila si è spezzata, vi è stata un’agitazione inestricabile, un folle e veloce groviglio d’uomini.... È la mischia? È la resa? Che avviene? Che avviene? Quale spasimo non sapere!

Passano venti, trenta secondi. La fucileria scroscia, il fumo delle granate erompe a nubi, si sfiocca. Ed ecco apparire una oscura massa di gente che precipita giù per la stessa strada che aveva fatto l’assalto. Perdio, che avviene?... Cerchiamo di distinguere, oppressi.... «Prigionieri! Sono prigionieri!» — urlano delle voci commosse e esultanti. Si riconoscono bene, sono loro, hanno il «palamidone». Scendono verso i nostri rincalzi. Sono inseguiti da shrapnells austriaci. Hanno tutti le braccia levate Una tempesta di mani. Alcuni sventolano i fazzoletti, che roteano in aria come farfalle bianche. I prigionieri scivolano, cadono, saltano, scavalcano muricciuoli a passi stravaganti, per sottrarsi presto al fuoco. Il prato sul quale è passato l’assalto brulica tutto di loro. Si ammassano in un angolo morto, e più calmi infilano i camminamenti, circondati da un luccichio di baionette inclinate. Sono molte [p. 218 modifica] centnaia, tutti i difensori dell’altura con i loro ufficiali.

Che succede intanto altrove? È difficile a sapersi in questo momento. Si combatte per tutto oltre il Vallone. E siccome altre dense carovane di prigionieri scendono nella gola, già piena dell’ombra della sera, da varie strade, è presumibile che le scene da noi viste si siano ripetute in vari punti della fronte di battaglia.

Nelle retrovie vi è un’aria di festa. Le truppe accorrono liete dagli accampamenti per vedere i prigionieri che passano. I soldati di scorta, infangati, graffiati, sudati e raggianti, ricevono gli applausi dei compagni. «Bravi! Bravi!»

Anche i prigionieri sono contenti. Stanchi ma contenti. Alcuni barcollano, pallidi, con l’espressione stupefatta dell’uomo ebbro o affranto di fatica: sono gli adolescenti. Ma sono pochi. In generale i prigionieri hanno un solido aspetto. Quando passano salutano tutti, rispettosi, sospendendo la lenta masticazione del pane di cui ognuno è stato ampiamente fornito. Un capitano dall’apparenza tedesca, azzimato, grassoccio e gioviale, mi fa un saluto deferente, chi sa perchè, e mi si dice «amico». Un momento, signor capitano!...