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Seguendo la battaglia

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La Battaglia di Settembre - L'attacco La Battaglia di Settembre - La nuova linea si rafforza

[p. 219 modifica] SEGUENDO LA BATTAGLIA.

16 settembre.


Boschi giovani e folti di pini si alternano a biancheggianti distese di roccia nuda, crepacciata, trita come ghiaia, irta di infinite punte minuscole e taglienti, formate dalle erosioni, fra le quali bisogna saper posare il piede come fra lame. Il ciglione maestoso del Carso che sovrasta il Vippacco serpeggiante e limpido, e lo fiancheggia, quella grande barriera che mette al limite meridionale della pianura di Gorizia una specie di gigantesca e cupa muraglia, è tutta così, bosco e sasso, nudità aspre e moltitudini di alberi dai contorni precisi, alle quali si danno nomi suggeriti dal loro contorno. Come vi è stato un bosco Cappuccio e un bosco Lancia, ora v’è un bosco a Cuore che la guerra traversa.

È nel bosco che si combatte lassù, adesso, oltre al Nad Logem, sulle pendici del Veliki Hribach. Si arriva nel pieno della battaglia senza veder più niente. Non vi sono sentieri. Dei fili di ferro tesi fra tronco e tronco fanno da guida. In certi punti la direzione da seguire è segnata a terra da uno spolverìo [p. 220 modifica] candido di calce: è per la notte. Quando il filo non si scorge più, si segue il chiarore di quella traccia, come nella favola di Petit Poucet.

Il movimento delle retrovie va nel labirinto inestricabile, dietro a quel filo d’Arianna. Gira, scala, discende; fra gli alberi, bruciacchiati qua e là dalle vampe, stroncati dalle schegge, passano rapidi e curvi i portatori del rancio e dell’acqua, i portatori di feriti, i portatori di ordini. Appaiono fra i rami, scompaiono, riappaiono, e ad ogni momento tutti si fermano, si abbassano: arriva un colpo. Uno schianto, un urlìo misterioso e veemente attraverso lo spazio, un oscillare di piante scapigliate. Gli uomini riprendono il cammino.

La foresta è bombardata. Il fumo delle esplosioni vicine, grigio e denso, allarga le sue volute fra i rami, vi ristagna come della bambagia, si spande lento, e a tratti si cammina in una nebbia acre. Frulla di tanto in tanto una spoletta, un grido strano e vivente, e con un rumore di sassate arrivano frammenti di roccia, a fitti stormi, tutto intorno, tempestando. Le sassaiuole crepitano a lungo dopo ogni colpo, e delle fronde cadono roteando. Sibili brevi di pallottole bisbigliano in alto. L’ombra del bosco a tratti si addensa e si arrossa per fuggevoli nembi color di ruggine che sfiorano le aguzze cime dei pini. La fucileria scoppietta nelle vicinanze e non si ha un’idea della linea [p. 221 modifica] del fuoco. A venti passi lo sguardo si perde. Non è possibile rendersi conto di niente. Qualche cosa di tenebroso opprime: la sensazione di essere chiusi. Negli istanti di solitudine assoluta, lo sguardo si attacca al filo di ferro come ad un amico. Sembra che sia il bosco che combatta. Gli uomini non si vedono e tutta questa ostilità sembra sua. È il bosco che scaglia le sue pietre e i suoi fusti qua e là, in un furore favoloso e cieco.

Un albero si agita stranamente per un attimo sparpagliando gli aghi verdi del suo fogliame, poi adagio adagio, mollemente, s'inclina spezzato. «Non è niente, non è niente!» dice una voce che conforta qualcuno, e dal folto del bosco emerge un ferito che ne porta sulle spalle un altro più grave. Tutta l’abnegazione, l’umanità, l’eroismo dei nostri soldati seminano riuniti in questo gruppo pietoso e magnifico. È uno di quegli episodi indimenticabili che assumono nella memoria proporzioni gigantesche e solenni. «Aspetta, ti aiuto!» esclama un portatore di acqua che passa. «No. vai pure, che hanno sete! Non è niente!» risponde la voce ansante del ferito carico del compagno inerte. E il gruppo si allontana e sparisce nella foresta tragica lasciando delle stille di sangue sullo spolverìo della calce, aggiungendo alla traccia bianca la guida di una [p. 222 modifica] traccia vermiglia sul sentiero della battaglia. Qua e là dei fucili spezzati, dei berretti giacciono presso a tritumi di roccia percossa.

Fin dal primo assalto la fronte avanzò alla sinistra dell’azione, affermandosi su posizioni che il bollettino ha indicato: da San Grado di Merna, giù sul Vippacco, fin verso Lokvica, sull’altipiano carnico. Le difese nemiche erano imponenti. Tre ranghi di trincee solidissime, con reticolati alti due metri, formavano la prima barriera.

Spesso il trinceramento austriaco è triplice. Ha una linea di avamposti e due di resistenza. Il nostro bombardamento aveva aperto larghi varchi nei reticolati, sconvolto i parapetti, decimato i difensori. Le tre linee furono superate di sbalzo. Dietro ad esse si succedevano altre sei linee di trincee in costruzione. Si sorpassarono tutte, e dalla battaglia venivano giù carovane di prigionieri esterrefatti. Ora l’attacco sale verso altre difese.

Si è fatto metodico, scala sistematicamente declivi nel bosco. Gli alberi sono serviti al nemico come paletti da reticolato. Fra tronco e tronco si tendono per ogni verso i fili di acciaio, formando come una enorme e grigia rete di ragno. I nostri si rannicchiano dietro a minuscoli baluardi di sassi. Ogni tanto saltano su. Un gridìo, un inferno di fucilate, uno strepito meccanico di mitragliatrici, scoppi di bombe a [p. 223 modifica] mano: è una breve irruzione, un passo in avanti. L’artiglieria dalle due parti folgora.

E non si vede niente. Qualche uomo che scivola curvo fra gli alberi, qualche tiratore appostato dietro al suo muricciuolo, e più su, appena intravvisto in una radura, un pezzo di parapetto fatto di sacchi, infangato, rossastro, con la gran tela di ragno davanti. La battaglia è sepolta nella verdura. Le trincee sorpassate sono ancora ingombre di cadaveri nemici. Si sente un odore di resina, di polvere e di morto. Gli uomini che tornano indietro per i servizi e quelli che vanno si scambiano frasi laconiche: «Come va lassù?» — «Bene.» — «Resistenza?» — «Mitragliatrici.» — «Passa in fretta alla dolina!» — «Grazie!».... Arriva da lontano il fragore profondo del bombardamento sul resto della fronte.

Riuscendo dal bosco feroce, dal Nad Logem, improvvisamente si spalanca allo sguardo il panorama della pianura di Gorizia, luminoso, diafano, con un’ampiezza marina, così vasto che la guerra vi si perde. Appare quieto, deserto, pieno di immobilità. L’Isonzo azzurro sembra una striscia sottile di sereno. Sull’acqua, il ponte di ferro, schiantato dalle cannonate, si è tutto coricato di fianco. Qualche villaggio diruto fuma. I grossi calibri austriaci battono le rovine di Poc, di Rupa, di Rubbia. [p. 224 modifica] Delle granate cadono nel Vippacco sollevando gigantesche colonne di acqua e di fango, e il fiume intorbidato ribolle fra le rive folte di salici.

Battono anche il Nad Logem, i grossi calibri, e il Vallone. Al rombo lungo, pesante, cupo e affannoso delle granate che lacerano l’aria, segue un boato spaventoso che ricorda lo scoppio delle maggiori mine nelle cave di granito. La terra sobbalza, e per decine di secondi dura lo scrosciare formidabile dei macigni che ricadono, una cateratta di rocce. Quando tutto sembra finito, arriva la grandine delle schegge, dei detriti, delle pietre più piccole che hanno fatto un volo più vasto. L’artiglieria nemica cerca le arterie di transito e i nostri cannoni, che rispondono dieci colpi per uno. Il Vallone è pieno di rimbombi e di boati; echeggia tutto in un tuono perenne; è una spaccatura urlante. Ogni cannonata vi sveglia una tempesta. Miriadi di proiettili lo attraversano. Percorrendolo bisogna rinunziare a comprendere quali sono i colpi che partono e quelli che arrivano. È tutto un fragore senza sosta. I suoi declivi selvaggi sono costellati di vampe e di nubi. I cannoni scagliano al di sopra della sua ombra masse sibilanti di acciaio. Talvolta bisogna rimuovere dai sentieri delle pietre cadute per poter passare. Fra cannoni nostri e cannoni austriaci è una moltitudine di pezzi che non si era mai vista. [p. 225 modifica]

La battaglia al terzo giorno ha la violenza del primo. Se ne scorge la linea a tratti, in direzione di Lokvica e più giù, verso Oppacchiasella, dove il terreno è scoperto e ricorda un poco le aspre ondulazioni di Doberdò. Sassi, praticelli, cespugli secchi, muricciuoli, un miscuglio di terra rossa e di roccia bianca. Si vedono i nostri dietro ai parapetti improvvisati, già ben lontani in alcuni punti dalle linee di partenza, e si vedono le pattuglie che si spostano, rapide, in piccoli sparpagliamenti grigi. Spariscono come inghiottiti dalla terra, non si distinguono più gli uomini immobili dai sassi, poi uno, due, cinque, dieci soldati sorgono, avanzano, spariscono ancora. Le mitragliatrici martellano. Sono stati visti. Delle nubi di fumo passano. I soldati risorgono, disseminati nella foschia, vanno ancora avanti.

Più lontano, sulle rovine di Oppacchiasella, sembra si sia fatta la quiete. Le eruzioni di fumo e di macerie salgono ora impetuose al di là. Nella distanza si vede un palpitare di fiamme fra boscaglie annebbiate: Villanova che brucia. Che c’è laggiù? È difficile determinare la fronte di combattimento. Essa non è mai rimasta immobile. Dove non è definitivamente avanzata, ha avuto delle oscillazioni. Il nemico ha alcune posizioni fortissime, dominate facilmente dalle sue artiglierie, e alle quali si aggrampa con disperazione. Non risparmia [p. 226 modifica] sacrifici di uomini. Sloggiato, concentra il fuoco d’infilata e lancia contrattacchi. Ricacciato, ritorna. Perchè i suoi soldati non si arrendano, ha preso disposizioni feroci. Un ufficiale austriaco prigioniero ha mostrato un ordine che minaccia di impiccagione al suo ritorno in patria ogni ufficiale che si lasci catturare illeso. Per questo, un altro ufficiale fatto prigioniero, ha estratto improvvisamente la pistola facendo fuoco all’impazzata, finché un colpo di baionetta l’ha inchiodato.

Ogni notte gli austriaci sferrano contrattacchi sulle quote perdute. Arrivano quatti quatti fin presso ai nostri «cavalli di Frisia», e subitamente urlano gettando bombe: «Hurrà! burrà!». — Risponde il nostro grido di: «Savoia!» — e i nemici lasciano spesso ammucchiamenti di cadaveri. Nessuna battaglia forse fu più varia di questa, per il carattere della lotta, impetuosa in alcuni settori, lenta e sistematica in altri, a seconda del terreno, a seconda delle difese. Delle posizioni sono state prese subito, d’assalto; in altre l’avanzata ha impiegato due, tre giorni per arrivare, tenace, costante. In alcuni punti le trincee nemiche erano vicine, il balzo era possibile. In altre le due linee erano separate da larghi valloni. È bisognato scendere, risalire su terreni scoperti, arrivare alla cresta a poco a poco. Delle seconde linee