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208 l'attacco


di Gorizia non si riconosceva più. Spariti gli alberi, sparita l’erba, sparite le case, e sulla sterilità spaventosa fatta dal soffio ardente della guerra si allungava l’immane intreccio dei camminamenti profondi, delle trincee scavate nella roccia, dei reticolati folti, con i suoi «grovigli», le sue ridotte, i suoi fortini, lo stesso intreccio che apre il nero labirinto dei suoi scavi sulle linee sorpassate.

Anche le nostre truppe avevano lavorato alacremente, piene dell’esperienza del passato. Attaccandosi al nuovo terreno vi si erano sprofondate subito; lo avevano tagliato, solcato, forato per ogni verso; avevano fatto di ogni rovescio di altura un fantastico alveare di rifugi, di ogni costone un solido baluardo. Con una sorpresa indicibile si assisteva alla trasformazione dei luoghi. La guerra imprimeva con rapidità vertiginosa una fisionomia nuova al paesaggio, quella fisionomia truce, uniforme, che dice la lunga lotta. Pareva che la battaglia vi si accanisse da epoche. Tutto vi aveva assunto un aspetto inatteso e tragico. Colline verdi, boschi, villaggi, vette sterpose e pittoresche, valloncelli prativi, erano diventati una cosa sola, quella cosa strana, desolata, sconvolta, grandiosa, monotona, sinistra, che si chiama «posizione».

Il nemico aspettava la ripresa dell’offensiva,