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l'attacco 213


Centinaia e centinaia di cannoni erano annidati per tutto, vicini, lontani, fra i rovi, fra le rocce; un pullulare di vampe li rivelava. Passavano soffi infiammati, urli veementi che sbalordivano, rombi pesanti che facevano pensare a locomotive invisibili, e la terra tremava. Nei periodi del fuoco più intenso, gli scoppi, i boati, gli scrosci si seguivano fusi in un solo infernale frastuono. Una cateratta di colpi. Era impossibile parlarsi senza urlare, e si sentiva sul petto come un contracdolpo di esplosioni. L’artiglieria arrivava al parossismo del furore. E sulle posizioni salivano alti i getti di fumo e di detriti. Balzavano vertiginosamente nell’aria, spesso, delle cose informi che ricadevano roteando. «Un uomo! un uomo è saltato!» — si udiva allora gridare da qualche osservatore al telescopio. Eruzioni di schegge, sparpagliandosi, punteggiavano il cielo. Masse di terra sollevate a grandi altezze riscendevano fonte con aspetto di pioggia, e il fumo si trascinava a nembi immani giù per i declivi. Le bombarde lanciavano pennacchi smisurati e nerastri. Per lunghi minuti tutto si velava, spariva, la tempesta di fuoco accumulava le tenebre. Le posizioni non erano più che un’agitazione sterminata di nubi fosche piene di balenìi. Le granate incendiarie spandevano nei vapori lunghi riflessi di fantastica fucina.