Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro IV/Capitolo XI
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO UNDECIMO
§ I.
Appena muore un uomo, il cui nome alto suonò sulla scena del mondo, per un sentimento di legittima curiosità e di predisposizione benevola alla sua discendenza, cerchiamo di ritrovare in questa, se non la piena trasmissione del genio o delle virtù dell’uom celebrato, almeno alcuni segni caratteristici derivati da lui. Molti tra’ miei lettori certamente si son già domandati quale fosse la sorte della famiglia di Colombo: perciò riassumiamo in breve ciò che avvenne alla sua posterità.
Morto l’Ammiraglio, i suoi nemici ricevettero in diversa guisa il premio dell’odio che avevangli portato. Il medico, mastro Besnal, autore della cospirazione dei malati, varie volte accusato di avvelenamento e imprigionato a San Domingo per ordine del governatore Ovando, era stato restituito in libertà per istanza di Colombo1, sempre inclinato all’indulgenza finchè la prova del delitto non era sicurissima: reduce in Ispagna, costui si associò col suo antico complice Camacho, che il maggiordomo dell’Ammiraglio, Pietro di Terreros, aveva diseredato. Rabbioso nelle sue fallite speranze, aveva compilato contro il Vice-re una diatriba calunniosa; e temendo di essere imprigionato si era riparato in una chiesa donde non osava più uscire. Mastro Bernal e Camacho associarono lor odii. Gli uffici della marina assicuraronli della impunità; quindi poterono liberamente distillare il loro fiele a Siviglia, ov’era ben accetta ogni calunnia a’ danni di Colombo.
Protetti dalla bellezza della loro sorella, i due Porras vennero premiati del loro tentativo contra l’Ammiraglio: il primogenito, Francesco, diventò guardia del corpo2 con un salario di cinquantamila maravedis; il secondo fu promosso tesoriere a Mellila.
Il piloto ingrato, Pedro di Ledesma, ch’era guarito delle gravi ferite che gli aveva fatte l’Adelantado nella ribellione avvenuta sulla costa di Maimi, ripigliato il servigio, e tentato un nuovo viaggio alla terraferma, morì a Siviglia, assassinato in una lite notturna.
Imeno di Bribiesca, diventato pagator generale della marineria, e il più accreditato de’ cortigiani di Fonseca, la merce di lui conservò sino alla morte la sua carica.
Malgrado la promessa fatta da Ferdinando, al letto di morte della Regina, di punire esemplarmente Ovando, uccisore degli Indiani, assassino di Anacoana, ei sen rimase al governo delle Indie: l’oro che spediva al Re avevagli acquistato le sue buone grazie: sarebbe rimasto governatore perpetuo d’Ispaniola, se fidando troppo nel suo credito, non avesse osato contendere con don Juan di Fonseca. La sua deposizione seguì davvicino la collera del vescovo ordinator-generale. Nondimeno, protetto da Ferdinando, non solamente Ovando non soggiacque a castigo, ma rientrò onorevolmente in Spagna, capitanando la flotta che lo riconduceva; si gode il frutto delle sue esazioni, delle proprietà e degli schiavi che si er’attribuiti3; e ottenne dal Re una decisione che lo liberò dai richiami de’ suoi creditori.
Rispetto a don Juan di Fonseca, esso era salito da un vescovado all’altro sino all’arcivescovado di Rosano, rimanendo sempre alla suprema direzione degli affari delle colonie. Ma l’alta dignità di arcivescovo cresciuta altresì da quella di gran limosiniero, non bastava alla sua ambizione: vagheggiava la porpora, e, credendo un giorno di ottenerla, imaginò di far creare il patriarcato delle Indie, speranzoso d’andarne insignito. Conforme a’ suoi desiderii, il re Ferdinando incaricava, il 26 luglio 1513, il suo ambasciatore presso la Santa Sede di ottenere per l’arcivescovo di Rosario il patriarcato delle Indie; il Re vantava il disinteresse di Fonseca, il suo zelo del servigio divino, i suoi costanti sforzi diretti a convertire le Indie4.
Tuttavia, quantunque fosse salito così alto, quantunque si trovasse così addentro nel favore del Monarca e avesse cumulato gli uni sugli altri titoli, salarii, dignit‘a ed entrate così in Castiglia come nelle colonie, contuttociò don Juan de Fonseca non era felice: le sue ricchezze ammonticchiate non gli recavano piacere; incanutiva senza ristare dalle sue fatiche, per la tema di vedere venir meno la sua influenza in un colla sua utilità: il suo istinto geloso spiava intorno a sè l’ingegno come un avversario, e metteva ogni cura in allontanare dall’amministrazione chiunque parevagli sospetto di qualche speciale capacità, o che lasciava intravvedere qualche speranza di bello e onorato avvenire. Indarno aveva perseguitato Colombo, i suoi fratelli, i suoi figli, i suoi fedeli ufficiali, indi Fernando Cortez, Las Casas e chiunque l’offuscava col genio o colla virtù; la sua ambizione non era peranco soddisfatta; perocchè nonostante la protezion continua del Re, e le calde sue istanze, la porpora romana non gli veniv’accordata; l’esperienza oggimai distruggeva in lui ogni illusione: sapeva quello che valevano gli omaggi de’ suoi cortigiani, e non poteva dubitare della disistima che ispirava ai vescovi, cominciando dal Primate di Toledo, l’illustre cardinale Ximenes Cisneros.
Appagati suoi odii e cumulate ingenti dovizie, di cui dovevano andar lieti i suoi nipoti, Fonseca trovavasi astretto ad un lavoro forzato, abbandonato all’aridità del proprio cuore, all’inquietudine del proprio spirito, non potendo trovare consolazione nelle sue memorie, ned attingervi speranza per la sua ultima ora, cui la vecchiaia e le continue fatiche affrettavano. Così, il trionfo del più crudele nemico di Colombo non er’altro che apparente. Invidiato, adulato, egli si giudicava degno di gran compianto per la inutilità della sua fastidiosa opulenza, inetto a rifugiarsi in sè stesso, nè potendo far capitale d’alcuno.
ll solo fra’ persecutori di Colombo, cui la sovrana elevazione sicurava contro la giustizia degli uomini, Ferdinando, non fu neppur esso felice, nonostante l’impunità della sua onnipotenza. L’effimere soddisfazioni dovute al riuscimento de’ suoi fini artifizii non valevano a calmare le incessanti inquietudini della sua autorità gelosa e diffidente. Indarno aveva colpiti d’impotenza tutti i grandi ingegni militari del suo regno; indarno, per parere più grande, si era privato del concorso di chi era veramente grande per ingegno e per iscienza; realmente il vecchio Re Cattolico non era degno di invidia. Monarca della scuola di Luigi Xl, tipo di principe secondo Machiavello, senza fede religiosa, senza legge di onore, portò vivendo la pena degli accorgimenti e delle arti di cui si era piaciuto. I Re non avevano fede nella sua parola; e per confessione del suo cappellano non gli credea neppur la famiglia5; aveva ingannato i suoi emoli coronati, i suoi ministri, i suoi cugini, la sua nobile compagna: atterrava gli uomini di stato troppo importanti e i capitani di troppo grande celebrità, siccome strumenti pericolosi; fu ingrato verso tutti quelli che avevano sollevato a grandezza la sua monarchia, e’ costituita la gloria del suo regno, il cardinale di Spagna don Pedro Gonzalez de Mendozza, Cristoforo Colombo, Gonzalvo di Cordova, la regina Isabella, il duca d’Alba, l’arcivescovo di Granata e l’ammirabile cardinale Ximenes de Cisneros.
Fu gastigato dai desiderii del proprio cuore. Il vecchio Ferdinando aspirava all’amore, lorchè non poteva neppure ispirare fiducia, e trovar amicizia. Affrontando l’opinione della corte, il sentimento dei popoli, l’imagine sempre viva della Regina adorata, che l’onorò di un’affezione di cui non era degno, questo abile calcolatore unì ciecamente i destini della sua vecchiezza coi capricci di una principessa diciottenne, esigente e frivola, Germana di Foix; poco dopo ridotto a cercare nel lavoro un alleviamento ai cruci domestici. L’astuto Monarca non aveva avuto che uno scopo, quello di fondare la più potente monarchia d’Europa, affine d’immortalare il suo nome; ed ecco che vedeva lo scettro, presso a cadergli di mano, passare al figlio del suo nemico6; a questo erangli riuscite le lunghe previsioni, i tanti sforzi, le malizie, le astuzie diplomatiche! Ferdinando non poteva senza turbamento fermare, il pensiero sul passato, e neppure senza tremare considerar l’avvenire.
Se fossegli consentito di scegliere tra le sciagure di Colombo e le prosperità de’ suoi nemici, qual uomo ragionevole non preferirebbe i patimenti di quello al trionfo di questi? La vita di Colombo, ripeteremo, racchiude sotto tutti gli aspetti, un’alta lezione per la filosofia della storia.
§ II.
Volgiam ora i nostri sguardi sulla posterità dell’Araldo della Croce.
Dopo i giorni concessi al primo dolore, don Diego, figlio primogenito di Cristoforo Colombo, ed erede del Vice-rè delle Indie, della dignità di grande Ammiraglio dell’Oceano, del governo perpetuo delle isole e della terraferma, a termini delle convenzioni stipulate da suo padre colla corona di Castiglia, il 17 aprile 1492, pregò il Re di concedergli ciò che legalmente gli apparteneva.
Ferdinando parve desideroso di soddisfarlo; ma disse di non avere più il diritto di regolare questo affare, il quale dipendeva unicamente dalla Castiglia. Limitato com’era allora al regno di Aragona, suo patrimonio, abbandonato dai grandi, detestato dal popolo indegnato contra di lui pel suo scandaloso oblio della Regina, alla quale andava debitore della sua gloria e del suo titolo di Cattolico, Ferdinando deciso di ritrarsi nel suo regno di Sicilia, lasciò che don Diego, per ottener giustizia, si rivolgesse alla nuova Regina di Castiglia. Fedele alle istruzioni di Juan di Fonseca, Ovando continuò a perseguitare nel figlio la gloria del padre. Gli ordini che aveva precedentemente ricevuti dal Re, per mandare a don Diego ciò che apparteneva a Cristoforo Colombo, furono messi da parte. Diego scrisse di ciò al Re, il quale espressegli il suo dispiacere, per que’ mali trattamenti7.
La morte impreveduta dell’arciduca Filippo il Bello tolse a doña Juana quel poco di ragione che le restava. Sempre presso al cadavere del marito, la sciagurata non consentiva che fosse portato nel sepolcro: inconsolabile nel suo corruccio, si ritrasse a Hornillos, rifiutando prestarsi più lungamente ai doveri della dignità regia. Lo stato mentale della Regina rendendole impossibile il governo de’ suoi Stati, le città, ad istigazione del duca d’Alba, nonostante la disistima che avevano pel Re, mandarono a lui pregandolo di tornare ad assumere le redini del governo.
Appena il Cattolico fu reduce da Napoli, don Diego gli rinnovò le istanze, e gli ricordò le buone parole delle sue lettere, le speranze che gli aveva date e la legittimità del suo diritto. Ferdinando rispondeva sempre con misura e cortesia, ma non decretava mai nulla. Finalmente, noiato di questo eterno supplicare che non aveva termine nè conclusione, un giorno don Diego, rompendo l’etichetta reale, la quale vieta ogni quistion diretta, ed anche ogni forma interrogatoria parlando al Sovrano, osò domandargli perchè non concedeva, almeno come favore, ciò che apparteneva di pien diritto, a lui, ch’era presumibile avesse a servirlo fedelmente, dacch’era stato sotto i suoi occhi allevato a Corte. Non mostrando di offendersi menomamente della domanda, Ferdinando rispose che aveva intera fede in lui, ma che non poteva averne una simile ne’ suoi figli e successori. Don Diego si avventurò a rispondere al Re, che non parevagli giusto di avere ad andar punito di presente per le colpe che potrebbero commettere discendenti e successori che non avrebbe forse mai, essendo tuttavia celibe8.
Dopo nuove dimande egualmente infruttuose, riconoscendo don Diego l’inutilità delle sue istanze, pregò il Re a volergli concedere la facoltà di far valere i suoi diritti in giustizia e di formare un’istanza contro la corona di Castiglia; per togliersi la noia delle quai supplicazioni, Ferdinando gliela concedette, persuaso che i tribunali non avrebbero ardito sentenziare contro l’autorità reale. L’istanza fu presentata nella primavera del 1508. Ma, diciamolo pure a onore eterno della lealtà castigliana, non avendo alcun risguardo alla ripugnanza del Re molto ben conosciuta ed alle influenze degli uffici della marineria, i diversi tribunali a’ quali fu data a giudicare questa causa, in varii tempi e luoghi, più occupati della giustizia che non della condizione delle parti litiganti, riconobbero i diritti di don Diego Colombo.
Nondimeno, mancando al buon diritto la forza esecutiva, il governo delle Indie non sarebbe mai stato reso a quello a cui legittimamente spettava, se un caso domestico sopraggiunto nella famiglia stessa del Re, non avesse modificate le sue disposizioni, e mutato il destino di don Diego.
Quantunque la gloria di Cristoforo Colombo paresse offuscata in ispagna, pure rendendosi a mano mano palese e sentita l’immensità dell’opera sua, alcuni intelletti andavano presi dalla grandezza de’ suoi servigi e dalla gloria del suo nome. Bello della persona, maturo di senno, don Diego Colombo toccò il cuore dell’illustre Maria di Toledo, figlia del gran commendatore di Leone, fratello del duca d’Alba e nipote del re Cattolico. Diffetto di parentado e di patrimonio in don Diego, privato delle sue rendite e che non aveva allora altro che la sua paga di guardia del corpo, non parve un ostacolo all’unione della nipote del Re col nipote dell’antico scardassiere di lana: la gloria del Rivelatore del Globo, equivaleva al lustro de’ secoli9.
Allo splendore del sangue e della bellezza doña Maria di Toledo accoppiava le doti più nobili dell’anima: erano riconoscibili nella elevazione della sua pietà gl’influssi dell’educazione da lei ricevuta allato alla cattolica Isabella. Diego Colombo non avrebbe potuto scegliere compagna più degna di renderlo felice, indipendentemente dal lustro e dal parentado10.
Il duca d’Alba prese sotto la sua particolare protezione l’inclinazione di sua nipote. Gradite ch’ebbe le proposizioni di don Diego, fece de’ richiami di lui pel governo delle Indie, un affar suo. Appena il Duca si er’accorto dell’affezione di que’ giovani, aveva con previdenza paterna, scritto a suo cugino il Re Cattolico, a que’ dì tuttavia a Napoli, chiedendogli di restituire al successore dell’Ammiraglio delle Indie i diritti redati dal padre.
Nessuno meglio del duca d’Alba era in condizione di ottenere ogni cosa dal re Ferdinando, così a motivo del loro stretto parentado, sendo lor madri sorelle, come pel diritto dell’antica amicizia e de’ nuovi servigi11: perocchè quando la regina doña Giovanna aveva preso possesso del trono di Castiglia, e tutti i cortigiani, i gran signori, i ricos hombres, avevano abbandonato il Cattolico, il solo duca d’Alba, colla sua casa e le sue soldatesche si era fatto premura di scortarlo, di rendergli onore, e lo avrebbe seguito anche a Napoli, se il Re lo avesse consentito.
Ferdinando non potè resistere alla insistenza di suo cugino; non volle coll’ostinazione del suo rifiuto danneggiare gl’interessi della loro nipote doña Maria di Toledo: cedette ma con tali restrizioni, che facevano manifesta la sua natura sofistica, e diffidente.
Essendo Ovando scaduto delle buone grazie di Juan di Fonseca, la sua surrogazione fu risoluta. Il 9 agosto 1508 il Re si trovava ad Arevalo, e fece spedire a don Diego l’autorizzazione di fermare la sua stanza alle Indie, senza però riconoscerlo in qualità di Vice-re: con ordine del 13 dicembre 1508, non gli consentì che la facoltà di surrogare Ovando col titolo, cogli appuntamenti e cogli onori conceduti ad Ovando; dichiarando di fare ogni protesta e riserva12, e non voler con tale autorizzazione aggiunger nulla ai diritti che potrebbero esser fissati dai giudici; perocchè allora la causa di don Diego contra il fisco non era peranco stato giudicata in ultima istanza. Con questa nomina non erano per niun modo osservati i trattati conchiusi tra la Castiglia e don Cristoforo Colombo: perciò, non ostante i doveri che gl’incorrevano verso il duca d’Alba, suo prossimo parente, nonostante i diritti di don Diego marito della nipote di questo, nonostante i servigi inapprezzabili che il suo nome ricordava, Ferdinando durò sino alla fine ostinato a negar giustizia, a violare gli obblighi assunti dalla Regina e convalidati colla sua propria firma13.
L’Ammiraglio don Diego Colombo andò a Siviglia colla moglie doña Maria di Toledo, col fratello don Fernando Colombo, co’ suoi due zii l’Adelantado e l’abate don Diego Colombo, accompagnato dal cavaliere Diego Mendez e da uno stuolo di gentiluomini, che dovevano comporre la casa della Vice-regina. Non ostante le riserve astute e paurose del vecchio Cattolico, un sentimento generale di cortesia fece chiamar sempre doña Maria di Toledo la Vice-regina. ll titolo di Vice-re fu meno comunemente dato a don Diego, che s’intitolava abitualmente, come suo padre, Ammiraglio delle Indie.
§ III.
L’Ammiraglio don Diego Colombo, accompagnato da tutta la sua famiglia, fece vela per San Domingo, ove giunse il 10 luglio 1509.
ll suo zelo illuminato per gl’interessi della colonia, il suo attaccamento alla religione, congiunti ad una inalterabile giustizia, facevano riconoscere in lui il figlio di tanto padre. Fregiato di nobili doti avrebbe potuto amministrare un gran regno. Ma niente valeva a guarentirlo dagli strali dell’invidia, non le sue alte relazioni di famiglia, non il suo parentado col Re, non la gloria del padre. Quanto più Ferdinando invecchiava, e tanto più amava di fidare a don Juan di Fonseca il peso degli affari coloniali, trovandosi bastevolmente gravato dal governo de’ suoi Stati d’Europa. Dal canto suo Fonseca, oppresso dalle assiduo fatiche, si era chiamato presso il commendatore Lopes de Couchillos, al quale aveva innestato il suo odio contra Colombo, isuoi fratelli, i suoi figli. Fonseca e Lopez di Couchillos avevano mandato alla Spagnola, qual tesoriere delle Indie, Michele de Passamonte, lor fidato. Missione segreta di costui era di attraversare e guastare, se gli riusciva, l’amministrazione del Vice-re. Esso era sostenuto nelle sue ostilità contra l’Ammiraglio don Diego da alcuni antichi partigiani di Roldano14, di cui Ovando aveva tollerata la dimora nella Spagnuola, contro gli ordini della Regina.
Costoro falsavano tutti gli atti del nuovo governo, calunniando le sue intenzioni, e si davano il vanto di difendere gli interessi del Re e della Castiglia contro l’usurpazione dell’Ammiraglio sotto gli auspicii del Passamonte, formarono un partito che si chiamava insolentemente il partito del Re. La vanità ebbe maggior parte in questo raggiro, che non l’amore e la fedeltà al Re. I coloni arricchiti si consideravano come i principali dell’isola, imitavano i ricos hombres. L’arrivo della Vice-regina, la qual teneva una corte veramente reale, colle sue dame e damigelle di onore, i suoi gentiluomini, e gli ufficiali dell’Ammiraglio, mutando le abitudini fin allora alquanto rozze e talvolta violente di San Domingo, ecclissò l’importanza e la boria dei cadetti arricchiti; da qui il lor odio.
La corte della Vice-regina diventò l’oggetto dell’ammirazione dell’isola. Don Diego si diportava nella sua qualità di governator generale con tutta la dignità di un Vice-re. Quantunque Ferdinando non gli riconoscesse quest’ultimo titolo, pur lo possedeva per diritto di eredità, e la sua piccola corte non mancava di darglielo in ogni occasione. Gl’Idalghi del partito del Re si trovavano annichiliti, non ostante il lor oro, e le loro rodomontate. Collegandosi cogli antichi nemici di Cristoforo Colombo, continuarono a danno del figlio la persecuzione che fatta aveano al padre. Lamentanze e memoriali partivano segretamente per Siviglia. Cosi Juan di Fonseca e Lopez di Couchillos erano appieno contentati nel loro odio.
Non tenendo conto dei diritti di don Diego, come se nessun trattato gli avesse assicurato i privilegi di suo padre, l’ufficio delle colonie aveva creato, lui insciente, due governi sul Nuovo Continente; la Nuova Andalusia, che venne fidata alla creatura di Fonseca, l’intrepido bandito Alonzo de Ojeda, e la Castiglia d’Oro, che fu data nelle mani all’inesperto Diego de Nicuesal
Per le replicate lamentanze contro l’amministrazione dell’Ammiraglio, il Re stabilì a San Domingo nel 1510, una corte sovrana, con titolo di udienza reale, alla quale si poteva appellare da tutti i giudizii resi dall’Ammiraglio. La qual cosa era un aggiungere l’umiliazione all’ingiustizia: don Diego, come fatto aveva suo padre, tollerò pazientemente siffatta iniquità.
Tuttavia l’odio de’ suoi nemici crebbe a tale, che suo zio l’Adelantado pensò fossegli mestieri tornare in Castiglia, per quivi attenuare alquanto l’influenza degli uffici di Siviglia, e far sì che i parenti di sua nipote dona Maria di Toledo aiutassero la causa del calunniato. In quel medesimo anno don Diego fece il conquisto di Cuba, assai fortunato, perocchè lo compieva senza spargimento di sangue.
Ma non cessando mai di giungere a Siviglia le sinistre e bugiarde relazioni de’ partigiani di Michele Passamonte, il re Ferdinando rimando nel 1512 l’Adelantado a suo nipote, portatore di nuove istruzioni, le quali restringevano viemmaggiormente que’ suoi poteri, anche già troppo ristretti.
Nonostante la sua buona coscienza, la prudenza de’ suoi avvisi, l’ascendente della Vice-regina sulla parte della colonia degna di maggiore stima, vedendo che da un anno all’altro gli uffici di Siviglia miravano a spogliarlo di tutte le sue prerogative, don Diego chiese e ottenne licenza di tornare in Castiglia per giustificarsi: partì il 15 aprile del 1515.
Fedele al suo sistema, il vecchio Ferdinando accolse _l’Ammiraglio delle Indie con tanto maggior cortesia, in quanto ch’era il consorte di sua nipote: d’altronde le sue imprese nel Nuovo Mondo avevano sortito esito felice. Egli aveva fondata la colonizzazione di Cuba e della Giamaica, e stabilita una pesca di perle a Cubaya. L’origine dell’odio de’ suoi nemici non riconosceva altro movente che la protezione conceduta agli indigeni. Costretto il Re a riconoscere la sua innocenza, comandò che cessassero tutte le azioni civili intentate contro di lui, e volle esaminare egli stesso i documenti di tutti que’ processi: nondimeno negò di concedergli la parte che, secondo i suoi diritti, riclamava ne’ profitti tratti dalle nuove colonie di Darien e della Castiglia d’Oro. ll Re Cattolico morì prima che l’Ammiraglio terminasse le sue istanze presso di lui.
Don Diego fu obbligato di aspettar l’arrivo del nuovo Re, allora nelle Fiandre, il giovane principe Carlo, che divento poi l’imperatore Carlo Quinto. Gli bisognò aspettar quattro anni, e far infinite istanze prima di poter ottenere nel 1520 una decisione del Sovrano, il quale dichiarava la sua innocenza e lo rimetteva ne’ suoi diritti. Tuttavia gli uffici delle colonie riuscirono a conservare alla Spagnola il tesoriere Passamonte, lor emissario, il qual poteva intentar processi all’Ammiraglio davanti l’udienza reale, senza però avere contro di lui alcun mezzo di forza esecutiva.
Nel settembre del 1520, l’Ammiraglio ripassò il mare, e giunse alla sede del suo governo. Durante la sua assenza gravi abusi aveanvi guasta l’amministrazione; volle rimediarvi e rivedere i conti; da che sursero nuove nimicizie. La. sua lotta coraggiosamente cominciata contra questi ostacoli, durò quasi tre anni. Durante questo tempo ricevette dal Consiglio delle Indie in Siviglia varie lettere, in cui all’ingiustizia si accoppiava la durezza. In conseguenza di una memoria mandata da Michele Passamonte, furongli fatti nel 1525 penosi rimproveri; e poco appresso il Consiglio gli scrisse di tornare in Castiglia per dare spiegazioni e far conoscere il suo parere intorno all’opportunità di diversi provvedimenti. Don Diego comprese ch’era rivocato: e obbedì incontanente a quest’ordine di richiamo.
Partì da San Domingo il 17 del settembre 1523: e sbarcato appena, trasse a Vittoria ove dimorava la corte; vi giunse nel gennaio 1524. ll Monarca e il Consiglio reale delle Indie riconobbero la falsità delle accuse appostegli; e apparve manifesto che la sua rettitudine, la sua lealtà, la sua umanità verso gl’indigeni erano i suoi soli torti agli occhi di coloro che lo accusavano.
Nondimeno, a malgrado che fosse così onorevolmente giudicato di lui, non venne punto rintegrato nelle sue funzioni. Siccome si trattava di pagargli la parte dell’entrate che gli appartenevano in virtù dei trattati del 17 aprile 1492, istigate dagli uffici di Siviglia, sursero gravi contestazioni. Il fiscale si oppose alle giuste pretese di Don Diego; e fu solo a gran disagio che ottenne la creazione d’una commissione composta d’uomini integerrimi, e di cui faceva parte il Domenicano Garcia di Loyasa, vescovo d’Osma, confessore del Sovrano, presidente del Consiglio delle Indie.
L’affare fu menato tanto a dilungo da farne disperare Don Diego, riconosciuto innocente, approvato anche ne’ provvedimenti della sua amministrazione e ridotto ad importunare i suoi giudici per ottenere una sentenza decisiva. Ma la revisione degli antichi processi, l’esame dei documenti che bisognava dimandare all’Udienza reale di San Domingo, e ostacoli impreveduti impedirono la Commissione di sentenziare. L’Ammiraglio continuò le sue istanze colla fermezza che aveva redato da suo padre: seguì la corte nelle sue diverse stazioni: da Vittoria l’accompagno a Burgos, da Burgos a Valladolid, da Valladolid a Madrid, da Madrid a Toledo. Quivi ammalò alquanto gravemente. Intanto, a malgrado dell’inverno, l’Imperatore era partito per Siviglia. Don Diego volle seguirvelo. All’osservazione de’ suoi amici, che lo trovavano troppo sofferente per sostenere quel viaggio, rispose che viaggerebbe in lettiga, e si fermerebbe a Nostra Signora di Guadalupa15, ove farebbe una novena. Anche Oviedo y Valdez, che lo aveva veduto due giorni prima della partenza, voleva rattenerlo: risposegli che partirebbe, checchè n’avesse ad avvenire: perocchè bramava rivedere la moglie e i figli, e diceva che all’idea della loro riunione si trovava già mezzo guarito.
Il mercoledì 21 febbraio 1526, l’Ammiraglio don Diego Colombo si pose in via, portato sopra una lettiga: ma dopo corse sei leghe, il male peggiorò in guisa che fu costretto di fermarsi nel borgo di Montalvan: conobbe che il suo fine era vicino; e gli riuscì dolorso trovarsi lungi da tutti i suoi, e perfino dai soccorsi spirituali, quantunque si fosse comunicato a Toledo, la vigilia della sua partenza. La Provvidenza permise che giungessero in quel luogo quattro Francescani: questi Religiosi appartenevano ad un Ordine amico ai Colombo: rimasero accanto all’agonizzante, consolandolo e sostenendolo nel momento supremo: morì nelle loro braccia, il venerdì 23 febbraio, a nove ore della sera16 nei sentimenti di una perfetta rassegnazione; raccomandandosi alla santa Vergine e al beato san Francesco, ringraziando Dio che lo chiamava a sè, sollevandosi al cielo colle sue azioni di grazie, e pronunziando ad ultime parole il Gloria in excelsis Deo!
I servi dell’Ammiraglio continuarono la loro via e ne deposero il corpo nel monastero della Certosa delle Grotte a Siviglia, allato al feretro di don Cristoforo Colombo suo padre.
Diego Colombo lasciava, morendo, cinque figli: due maschi, don Luigi e don Cristoforo; e tre femmine, doña Maria, doña Giovanna, e doña Isabella.
La Vice-regina, doña Maria di Toledo venne in Ispagna per sostenere i diritti di suo figlio don Luigi, il quale aveva soli sei anni. Quando ella giunse in Castiglia l’Imperatore era partito per la sua coronazione. L’Imperatrice le fece un’eccellente accoglienza. Al suo ritorno l’Imperatore concedette al giovane don Luigi il titolo di Ammiraglio delle Indie: ma gli ricusò quello di Vice-re. Alcuni anni appresso, il giovane Ammiraglio cominciò inutilmente a rivendicare per le vie legali il suo titolo di Vice-re. Dopo d’essere stato alla Spagnola qual governatore generale, vedendosi attraversato nella sua amministrazione da ostacoli infiniti, e riconoscendo l’impossibilità di ottenere il proprio diritto contra la volontà dell’Imperatore, don Luigi Colombo, venutone a definitivo componimento colla Spagna, rinunziò alla qualità di Vice-re, di Governatore generale, e ai diritti risultanti dai suoi privilegi ereditari, e accetto il titolo di duca di Veraguas, e di marchese della Giamaica, con una pension ragguardevole, indi ridotta a ventiquattromila piastre, circa centodiecimila franchi, che si levava ogni anno dalle rendite di Cuba e di Porto Ricco.
Don Luigi Colombo morì non lasciando che due figlie, doña Filippa e doña Maria, la qual si monacò nel convento di San Quirico, a Valladolid.
Il fratello di don Luigi ebbe un figlio chiamato don Diego, il qual fu erede dei titoli di suo zio, e due figlie, doña Filippa e doña Maria.
Don Diego sposò sua cugina donna Filippa, ma morì senza posterità.
La linea mascolina dei Colombo andò spenta nel 1578.
Allora la posterità femminina mise fuori ed intentò cause interminabili, del cui romore andarono piena Spagna ed Italia, noiosa storia che non vogliam neppur compendiare.
Un nipote di donna Isabella, terza figlia dell’ammiraglio don Diego Colombo e della vice-regina donna Maria di Toledo, don Nuño de Gelves in Portogallo, della casa reale di Braganza, fu giuridicamente messo in possesso de’ titoli di duca di Veraguas, e di marchese della Giamaica.
§ IV.
Che cos’avvenne dei due migliori amici che trovasse mai alla sua destra ed alla sua manca Cristoforo Colombo, i suoi fratelli, don Bartolomeo e don Diego?
I due fratelli di Colombo, uomini virtuosi e dotati dalla Provvidenza delle qualità acconcie al mandato ch’essa aveva assegnato loro, hanno un egual diritto all’attenzione della posterità.
Don Bartolomeo Colombo, Adelantado delle Indie, verrebbe sicuramente annoverato fra’ grand’uomini, se il suo attaccamento fraterno non gli avesse imposto di rimanersene al secondo posto, se non avesse preferita l’utilità allo splendore, il dovere alla gloria, se non avesse, insomma, compreso che bastava per lui di essere stato luogotenente di Cristoforo Colombo.
Al re Ferdinando avea dato nel genio l’Adelantado, nè più nè meno di un superbo destriero di guerra, o di un’armatura preziosa; sarebbesi augurato poter caricare un esercito intero alla testa d’un solo squadrone composto tutto quanto di cavalieri della gagliardia di Bartolomeo: se lo teneva volentieri accanto, amava considerarlo come un tipo di gran capitano, benchè, per la sua innata gelosia, si astenesse d’impiegarlo efficacemente. Talvolta pareva disposto a fidargli una spedizione di scoperte marittime; ma, venuti a parlarne seriamente, mutava parere, e diceva di volerlo, invece, porre duce d’un esercito di terra. Nondimeno a dimostrazione incontrastabile del pregio in cui il Re cattolico teneva don Bartolomeo, avvertiremo come, a malgrado della sua avarizia, gli facesse, sotto diversi pretesti, frequenti doni in danaro: diegli altresì l’isoletta Mona, vicino alla Spagnuola, la quale aveva sei leghe di circonferenza, e dugento Indiani per coltivarla.
Intanto Bartolomeo conservando il suo titolo di Adelantado delle Indie, accompagnò il nipote ammiraglio don Diego Colombo al suo governo. Alcuni anni dopo abbandonò la Spagnuola per andare a difendere gl’interessi di suo nipote in Castiglia. Avendo migliorata la propria condizione, tornò a lui, e vi rimase occupato a tutelare i suoi diritti contra le creature di Juan de Fonseca, e primo tra tutti Michele Passamonte. In quel frattempo Ferdinando fu più volte in procinto d’impiegare utilmente l’Adelantado: finalmente, l’anno 1514, il vecchio Cattolico, notando il nessun buon riuscimento de’ primi tentativi di colonizzazione assaggiati sul Nuovo Continente, si decise d’incaricare di una spedizione don Bartolomeo: ma questa prova, troppo ritardata, riuscì vana; perocchè, nel punto che la caravella recante quella commissione giungeva a San Domingo, l’Adelantado aveva cessato di vivere: dicesi che cuocesse al Re d’essersi per eccesso di prudenza, privato de’ servigi di quel valentuomo.
Nel grado secondario, che occupava, l’Adelantado fe’ prova d’una capacità superiore, e si chiarì fornito d’un’anima eroica. Il suo disinteresse, e la purezza de’ suoi costumi, non furono inferiori al suo coraggio, ed alla sua abilità di comando: esatto, fedele modesto, camminò sempre sulle pedate dell’Ammiraglio di cui ammirava il genio, ed eseguiva puntualmente i comandi. Quantunque non fosse fervente al pari di lui in fatto di religione, si mostrò profondamente attaccato alla fede cattolica, ne praticò le massime, e fu di costumi irriprovevoli. Rendendo generosamente senza condizione a suo marito la sorella del cacico Mayobanex, famosa bellezza di Haiti, caduta prigioniera, don Bartolomeo rinnovò senza orgoglio l’atto di continenza di Scipione, tanto vantato dalla storia, e la sua riserbatezza piena di cortesia colla seducente Anacoana, non ci sembra da meno di questo tratto di virtù: il sentimento del dovere era innato in lui.
Gli uffici di Siviglia unqua non osarono ordire contro la sua persona le aperte persecuzioni di cui fecero vittima l’Ammiraglio. Per travagliarlo, dovettero ricorrere a mezzi obliqui, addoppiando malizie e cautele. L’Adelantado ispirava naturalmente tema per la sua forza fisica, di cui aveva date cavalleresche prove nelle sciagure dell’ultima spedizione al Rio-Belen, presso Veragua, ed a Maimi nella Giamaica, durante la ribellione della fazione di Siviglia, cui da solo aveva distrutto colla propria Spada: il Re lo ammirava, e ne avea soggezione: in quanto a lui, parve non avere altro timore al mondo che di mancare al suo dovere: seguì docilmente la volontà di suo fratello finchè visse, e, fedele alla sua affezione anche oltre la tomba, non cessò di portare a’ nipoti un attaccamento paterno.
L’abate don Diego Colombo, entrato negli Ordini Sacri per provata vocazione, aveva accompagnato anch’egli suo nipote alla Spagnuola, come se avesse preveduto che gli diventerebbe necessario. Messo dalla benevolenza della Regina a portata di tutte le dignità ecclesiastiche, non accettò titolo, nè benefizio, e servì fedelmente il Padrone pel quale aveva abbandonato il mondo. Avendo amministrato l’isola durante l’assenza del Vice-re, e prima dell’arrivo di don Bartolomeo, nel 1494, si rese di bel nuovo utile durante l’assenza del nipote. Dopo la morte dell’Adelantado, dovette dirigere il governo coloniale e proteggere la Vice-regina: ma profittando del ritorno dell’ammiraglio don Diego, pare che abbia abbandonata la città di San Domingo, per seguire la inclinazione che lo traeva a vita ritirata ed oscura.
La storia non registra più nulla di lui. Si ha motivo di credere che il pio abate don Diego Colombo siasi ritirato alla Concezione, vicino alla Croce piantata da suo fratello; perocchè se fosse trapassato a San Domingo, dimora di suo nipote, sarebbe stata conservata memoria dell’epoca della sua morte. Questo ritiro nel luogo prediletto dal suo venerato Genitore, sembra conforme alla natura contemplativa di sì pio figlio, e dovette far pago il suo desiderio di servir Dio lungi dal romore del mondo: ivi crediamo morisse, conforme ai suoi voti, ravvolto nell’oblio a cui aspirava: per la sua pietà si era mostrato costantemente degno fratello di un Santo.
§ V.
Ci rimane a dire del secondogenito di Cristoforo Colombo, don Fernando, cui, sulla fede di Spotorno, gli Scrittori Liguri si recano a dovere di abbassare e calunniare, mentr’egli amava i Genovesi, e gli onorava, fino a volersi dire lor concittadino, per la ragione che suo padre aveva sortiti i natali in Genova.
Nella tenera età di otto anni, don Fernando passò dalla nobile ma povera casa degli Enriquez alla corte, ove la materna bontà di Isabella degno collocarlo, qual paggio, presso al Principe reale suo figliuol unico. A tredici anni, dalle stanze del favore e delle grandezze, trasportato improvvisamente a spiagge sconosciute, nell’ultima spedizione di suo padre, si affacciò ai più fieri pericoli, e sostenne le angosce più crudeli che mai provasse uom di mare: cominciò a sperimentare la vita per la via dei patimenti, divenuto zimbello de’ più formidabili fenomeni. Questi aspri assaggi palesarono le qualità precoci del suo carattere. Fernando spiegò una fermezza di coraggio affatto insolita in adolescenti: curava e consolava con rispettosa affezione il padre infermo: quantunque fosse gentiluomo della casa della Regina e figlio del Vice-re delle Indie, non vergognava faticare all’uopo come l’ultimo de’ mozzi: l’istinto del marinaro si rivelava in lui in un modo che sorprendeva e dilettava l’Ammiraglio, in mezzo ai suoi patimenti del cuore e ai suoi dolori corporali.
Fernando per farsi innanzi nella via dell’onore e della virtù sapea ben egli chi dovea imitare per la sua elevazione di spirito: per la ragione precoce, per la sagacità di osservazione, per la modestia, per l’attrattiva del conversare17 ricordava vivamente a ciascuno l’illustre suo padre. La sua attitudine particolare alle scienze geografiche e nautiche manifestava l’eredità dei doni, senza che il suo sviluppo intellettuale così rapido avesse rallentato lo sviluppo, non meno pronto, delle forze del suo fisico: era più alto del padre, e di maggior persona dello zio Adelantado. Tuttavia, a malgrado di questi vantaggi esteriori, dopo la morte dell’Ammiraglio, don Fernando si consacrò unicamente a Dio ed alla scienza. Il distacco più intero dal mondo si operò nel suo cuore prima che i disinganni della vita, e la perdita delle illusioni avessero potuto ispirargli tal sacrifizio. Datosi al Signore nel fiore della sua gioventù, come un casto giglio posto sui gradini del santuario, esalò lungi dal mondo la fragranza delle sue virtù. Comprendendo che la felicità di essere nato da Cristoforo Colombo avanzava ogni gloria, e che rimarrebbe sempre immerso nella luce di quella illustrazione, come il pianeta Mercurio ci è quasi invisibile a motivo della sua vicinanza al sole, non pensò che ad imitare le virtù di un padre, di cui non er’uomo al mondo che potesse pretendere di uguagliare il genio.
La terribile maestà dell’Oceano, i prodigi della Grazia, e la sublimità di Cristoforo Colombo, erano stati i primi oggetti che si offrirono alla riflessione di don Fernando: nell’abbandonare le corte di Castiglia gli s’impresse in mente alcunché di grande e di silenzioso, come la calma dell’Atlantico: ebbesi familiare il raccoglimento; e perchè l’immensità, compenetrandoci, soffoca la nostra parola, la qual sente la propria impotenza davanti l’Infinito, il figlio del Contemplatore della Creazione diventò laconico in parlare, e non moltiplicò nè gli scritti, nè i discorsi: pensò molto più che non operò; operò più assai che’ non parlo; e parlò più che non iscrisse.
Ma le sue nobili doti, la sua vasta erudizione, quella maturità di ragione, cui Cristoforo Colombo riconosceva già, allorchè Fernando appena toccava il diciassettesimo anno, la sua edificante pietà, e la specialità delle sue conoscenze in cosmografia ed anche in nautica, gli attraevano la stima della corte, stima mista ad invidia per parte degli uffici di marina e la confidenza dei Monarchi. Fernando non brigò da questi alcun favore, o distinzion personale; nè volle dalla Chiesa altro che l’onore di portare la sua assisa, non avendo mai ardito sollevarsi fino al sacerdozio.
Quando suo fratello primogenito, l’ammiraglio don Diego Colombo partì per la Spagnuola, ei lo segui co’ suoi zii don Bartolomeo e don Diego. Prima della sua partenza il re Ferdinando aveva raccomandato all’Ammiraglio di concedere a don Fernando nel suo governo tutto ciò che potesse tornare in di lui vantaggio18. Non si vede che don Fernando usasse di questo real favore, curiosa eccezione alle grette abitudini del Re Cattolico: L’Ammiraglio provvide generosamente a’ suoi bisogni, dandogli terre, per la cui coltivazione bisognavano quattrocento Indiani. La dimora di don Fernando ad Hispaniola fu di soli due anni; perocchè sin dal 1512 era in Italia. Visitata ch’ebbe la città natale del padre, indi Cogoleto e i dintorni, e corso il Piacentino, soddisfece alla sua pietà andando a Roma, ove si trovava verso il cadere di quell’anno. La sua passione pei libri e per le belle lettere lo condusse in tutte le biblioteche, e a tutti i pubblici corsi d’insegnamento che allora colà si tenevano: è ricordato che udì spiegar Giovenale da un professore di bella latinità19.
Don Fernando rivalicò l’Atlantico, visitò diverse regioni del Nuovo Mondo, e tornò in Europa dopo la morte di suo zio l’Adelantado. L’imperatore Carlo Quinto apprezzo il suo merito, volle averlo vicino, e seco lo condusse ne’ suoi viaggi d’Italia, di Fiandra e d’Alemagna20. È probabile che il monarca favorisse le sue inclinazioni con munificenza, poichè a malgrado delle sue piccole entrate don Fernando mandò ad effetto nobili disegni. La sua curiosità della natura, il suo amore delle opere di Dio lo spinsero, dopo avere corsa l’Europa, ad addentrarsi nell’Asia, valicato il Mediterraneo: andò probabilmente a visitare i Luoghi Santi, che il suo glorioso Genitore aveva così ardentemente desiderato di francare dall’islamismo: indi scese in alcune contrade dell’Africa, e non fece ritorno in Ispagna se non dopo osservate assai cose, e raccolti molti libri e manoscritti.
La superiorità delle conoscenze cosmografiche di don Fernando lo fece eleggere da Carlo Quinto preside di una commissione di geografi e di piloti incaricata di correggere gli errori che rendevano pericoloso l’uso delle carte marine tracciate sotto la direzione di Americo Vespucci. In diverse occasioni il governo di Spagna ebbe ricorso a’ suoi lumi. Nell’anno 1524, durante le controversie sorte fra la Castiglia e il Portogallo intorno al possedimento delle Molucche, Fernando Colombo ebbe l’incarico di esaminare i punti in litigio, e di compilarne una relazione alla corona di Spagna: ma lungi dal giovarsi di quest’alta fiducia, e non affidandosi ai soli suoi lumi, don Fernando volle sottomettere la sua opinione ai cosmografi Acuña, Manuel e Barrientos, i quali non poterono che approvare le sue conclusioni. Il celebre navigatore Sebastiano Cabot risguardava don Fernando come la prima autorità cosmografìca del suo tempo: si vede che pensava a lui nelle sue esplorazioni; e dalle rive del Rio della Plata pregava il Sovrano di non lasciar porre ad esecuzione certi articoli sul pilotaggio, se non si era ottenuto in prima l’assenso di don Fernando Colombo.
Correndo il 1527, Fernando Colombo fu eletto presidente della commissione di esame degli ufficiali di mare, durante l’assenza del celebre Sebastiano Cabot. A notar meglio in qual considerazione fosse tenuto don Fernando, e forse a motivo delle sue temporanee ma gratuite funzioni, l’Imperatore comandò che gli esami per tutti i gradi sarebbero fatti non solamente in sua presenza, ma nella sua propria casa21, affine di risparmiargli ogni disagio; e decise che non potrebbe esser rilasciata alcuna patente senza sua autorizzazione.
L’imperatore Carlo Quinto avrebbe desiderato di averlo sempre seco, ma nessun’offerta giunse a sedurre don Fernando, il quale rinunziò volontariamente all’alta posizione in cui la benevolenza imperiale volea conservarlo; e fermò definitivamente la sua stanza in Siviglia, ove di frequente gli erano pôrte occasioni di servir la corona e la scienza coll’applicazione de’ suoi lumi tecnici. Nella elezione di questa dimora, pare che don Fernando abbia voluto vendicarsi di Siviglia con un procedere degno di suo Padre, stato perseguitato sin oltre la tomba da quella città calunniatrice.
Ed ecco in qual modo combinò la sua vendetta.
Durante il suo viaggio nelle Fiandre accompagnando Carlo Quinto, il figlio di Cristoforo Colombo aveva stretta relazione con teologi e dottori in diritto di alta rinomanza: imaginò di formare con questi uomini di studio e di pietà una specie di comunità libera, nella quale le simpatie surrogherebbero i voti, che servirebbe la Chiesa ad un tempo e la Spagna, diffondendo le buone lettere ed arricchirebbe Siviglia, fino allora priva di scuola celebre, di una dotta accademia, d’un collegio di matematiche22 e d’una biblioteca che fu la più ricca della Spagna.
I severi principii di ordine e di economia da lui attinti negli esempi paterni, posero don Fernando in condizione di sostenere da sè le spese enormi dei disegnati istituti. Egli aveva aperto carteggio con bibliofili di tutte le capitali. Per l’intramessa dei Genovesi, che trattava da compatrioti, e di cui parlava la lingua con predilezione, era giunto a raccogliere tal copia di libri che potè alla perfine formare una biblioteca di oltre ventimila volumi23. L’Imperatore lo autorizzò a fondare una scuola di matematiche, vicino alla porta di Golo, nel luogo occupato oggidì dall’antico collegio Laureano. Don Fernando raccolse intorno a sè alcuni dotti, la maggior parte ecclesiastici, non meno eminenti per erudizione che per pietà. L’orazione, lo studio e l’insegnamento occupavano tutto il suo tempo: accademiche discussioni in passeggiando sotto i viali alla guisa de’ peripatetici, questi erano i loro sollievi. Volendo procurare a Siviglia il comodo dell’ombra e la frescura di una abbondante vegetazione, fece piantare cinquemila alberi24, gli uni disposti in viali diritti, gli altri distribuiti con isvariati disegni, affine di alleviare le fatiche dello studio e rendere gradevole la via adducente al ritiro, che faceva edificare per la sua congregazion letteraria.
Siccome il suo titolo di figlio, di fratello e di zio dell’Ammiraglio delle Indie, di cognato della Vice-regina e il suo grado nel favore imperiale lo costringevano a tenere gran casa, così ebbe cura di scegliere pegli uffici della sua famiglia uomini cristiani e letterati. Noi vediamo che annoveròo fra’ suoi gentiluomini, due francesi, dottori in diritto, e ambedue borghignoni; il primo si chiamava Giovanni Antonio di Fontaret, l’altro Desiderato di Javahon: avevasi altresì quali dimestici Vincenzo di Monte e Pedro de Arana, suo parente dal lato materno. Il primo conservatore della sua biblioteca, omonimo, e forse nipote del generoso guardiano della Rabida, si chiamava Juan Perez: il suo stipendio annuale ammontava a sessantadue ducati d’oro. Queste particolarità indicano che don Fernando avrebbe potuto fare gran figura nel mondo, se avesse accettata una delle dignità che l’amicizia dell’Imperatore offeriva alla sua scelta. Ma assai per tempo comprendendo i carichi inerenti all’eredità di gloria e di santità che gli era stata trasmessa, non cercò che di servir Dio prima di tutto, e poscia il suo paese, in una maniera eccezionale, assicurando alla Spagna una grande superiorità marittima sulle altre nazioni. Per questo perfezionò l’insegnamento dell’idrografia e della cosmografia, e scrisse un trattato, che rimase manoscritto, sulla maniera di operare nelle scoperte e di fondar colonie alle Indie25. Compilò un’opera divisa in tre libri, intitolata Colon de Concordia che non fu mai stampata. Noncurante della celebrità, perocchè si trovava abbastanza onorato dal lustro paterno, Fernando non pose alcun pensiero a pubblicare le proprie opere: non si diede neppur la cura di fare stampare la sua laconica storia dell’Ammiraglio, quantunque l’avesse terminata cinque anni prima di morire. Tal era la sua umiltà, che, scrivendo la vita dell’eroe del Vangelo, di cui gloriavasi di essere figlio, non lo chiama padre che una sola volta. Lo stesso Humboldt non ha potuto trattenersi dal notare questa singolare modestia.
Gli scrittori che sospettano Fernando di avere apposta gettato qualche confusione sull’origine di suo padre, non sapevano checchè si fosse della sua vita pia, e della sua intera rinunzia al mondo. Se avessero conosciuto la sincerità della sua annegazione cristiana, più naturalmente avrebbero supposto, secondo ogni verosimiglianza, che l’orgoglio castigliano di suo nipote don Luigi Colombo, primo duca di Veraguas, puro idalgo, avente nelle sue vene sangue reale per parte di sua madre, cavalier brillante, galante, fastoso e alcun po’ dissipatore, aveva corretto a modo suo diversi passi del manoscritto dello zio, prima di deporlo nelle mani del patrizio genovese Fornari, nel 1568, vale a dire trentaquattro anni dopo vergato, affine di lasciar così nella indeterminatezza la vera patria di Cristoforo Colombo e per conseguenza l’origine de’ suoi avi.
Rifiutando di porre a servigio delle vanità mondane, e delle affezioni carnali la potente comprensione ond’era dotato, per applicarla unicamente allo studio delle scienze ed alla contemplazione della natura, don Fernando era giunto ad addentrarsi in quasi tutti i rami dello scibile: era egli una vera enciclopedia vivente. Da sè medesimo, o mercè i dotti che avevasi intorno, avrebbe potuto discutere de omni re scibili, perocchè ospitava poliglotti, ebraicizzanti, dottori in utroque, astronomi, naturalisti, fisici, geografi, teologi e poeti. Questa vita di fatica, di orazione, d’insegnamento, soggetta ad una regolarità claustrale, che diffondeva incessantemente un’istruzione profittevole al cuore della gioventù, sollevandola a Dio, conteneva segrete delizie nelle sue stesse fatiche, nella sua stessa monotonia. Fernando Colombo era giunto a fondare, sotto nome di collegio delle matematiche, una vera accademia di scienze, ed a suscitare l’emulazione de’ forti studi. Scrisse un’opera in quattro volumi, contenente il riassunto de’ suoi viaggi e di quelli di suo padre. Questo lavoro, che fu l’opera sua capitale, ebbe anch’esso la sorte della maggior parte de’ suoi scritti: andò perduto, e perfino il suo titolo, che si leggeva in passato, nell’iscrizione della sua tomba, e cancellato dal tempo, omai non si legge più. L’indifferenza di don Fernando per la gloria personale lo aveva impedito di fare stampare cotesta raccolta delle sue osservazioni: egli evitava, eziandio, ogni spesa, la cui utilità non gli sembrasse immediatamente sicura.
Il figlio di Cristoforo Colombo aveva imparato dal padre l’uso del tempo; ne sapeva il pregio: la sua vita era quella di un uomo che non vuole essere sorpreso dall’eternita, e appresentarlesi colle mani vuote. Mentre si abbandonava a questo generoso amore della scienza per devozione a Cristo, sentì che gli cominciava a venir meno la gagliardia del corpo; e previde la gravità del male, senza darsi alcun pensiero delle sue funeste conseguenze. Quantunque non avesse compiuto il cinquantesimoprimo anno, e conservasse nel suo esteriore una vigoria proporzionata alla sua alta statura, pure gli era sovraggiunta la vecchiezza, essendogli la età matura cominciata quando gli altri son giovani. Chiunque muta la legge del tempo, patisce le pene della sua infrazione alla regola eterna: l’immunità dell’eccezione non appartiene che alla Provvidenza. Don Fernando aveva scambiata l’adolescenza nella virilità. A cominciare dal tredicesimo anno, i suoi viaggi, le sue fatiche, le sue veglie, il suo osservare continuo, l’applicazione prolungata di tutte le sue facoltà ad un tempo, avevangli logori gli organi del pensiero: tutto ad un tratto, nella tranquillità delle sue pacifiche occupazioni, sentissi percosso alle sorgenti della vita; e, con quel coraggio medesimo di cui aveva fatto prova ancor fanciullo, subito conosciuto il pericolo, ringraziò il Signore di aver degnato avvertirnelo.
Cinquanta giorni prima della sua ultima ora, seppe che doveva morire, e perciò avvertì i compagni della sua solitudine cristiana, che gli rimaneva breve tempo di dimorare con loro26. Egli rianimava il loro coraggio, li preparava a quell’avvenimento, li consolava, sclamava col salmista: «Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi: in domo Domini ibimus!» Indi fece esattamente l’inventario di tutto quello che possedeva, e profittò del breve tempo, che la morte gli concedeva, per pagar piccoli debiti, soddisfare scrupoli di coscienza, e contemplare davvicino l’eternità nella quale stava per entrare. Come, in passato, un gran banchetto di famiglia soleva solennizzare la festa delle nozze, don Fernando volle celebrare con un banchetto le proprie nozze colla morte; ordinò un convito di trentatre persone, a cui fece sedere trentatrè poveri27, e li servì colle sue proprie mani, quali membri di Gesù Cristo. Quando, pel rifinimento delle forze gli venne meno la voce, il suo esempio continuo ad edificare ancora i suoi compagni.
Don Fernando, di conserva col suo amico, il licenziato Marco Felipe, che nominò suo esecutore testamentario, si occupò delle sue ultime disposizioni.
Vietò che si vestisse per lui gramaglia, stimando che bisognava piuttosto allegrarsi. Lasciò la sua ricca biblioteca al nipote don Luigi Colombo, ammiraglio delle Indie, il quale la conservò cinque anni in deposito, finchè fu trasportata nel convento di San Paolo, sotto certe condizioni. Il testatore indicava in qual maniera si potrebbe aumentarla, col mezzo del concorso de’ negozianti genovesi, che in qualità di compatriotti28, fossero per prestarsi ad agevolare la compera e il trasporto dei libri destinati alla sua biblioteca.
Don Fernando non dimentico nè i poveri, nè le Chiese, e particolarmente il convento de’ Francescani dell’Osservanza a Roma, al quale lasciò, per dir messe, tanto danaro, quanto a tutti gli altri monasteri insieme. Provvide agl’interessi de’ suoi servi, facendo ad essi un legato proporzionato alla durata del loro servizio; e combinò le cose con tal equità, che Pedro de Arana, nonostante il suo parentado, venne favorito meno di Vincenzo da Monte, entrato al servigio della sua persona otto anni prima.
Non avendo il figlio di Colombo cessato di sollevarsi a Dio in ogni istante della sua vita, fu, come suo padre, "liberato dei terrori dello spaventevole momento della morte. Egli desiderava cosi vivamente possedere il suo Creatore nella vita eterna, che prescrisse di far celebrare, il giorno delle sue esequie, una messa in onore dei Santi Angeli, con paramenti bianchi, per esprimere la sua gioia e ringraziar Dio di avergli così presto permesso di abbandonare la prigione di questo mondo29.
Quando giunse il dì fatale, la morte trovò don Fernando preparato a riceverla. Ella s’impadronì lentamente di una preda che non faceva alcuno sforzo per ritardare il suo giungere: nondimeno rispettò le sue facoltà intellettuali. La vita si ritraeva a poco a poco. Aveva l’agonizzante ricevuto gli ultimi Sacramenti: le sue estremità inferiori si freddavano; pareva che la vita rifuggisse al cuore. Due ore avanti l’ultimo momento, don Fernando chiese gli fosse recato un piatto pieno di terra, e comando che glielo versassero sul capo e sul volto: chi lo assisteva credette che delirasse, perciò nessuno si mosse: a quella disobbedienza, don Fernando fece uno sforzo, allungò la mano verso il piatto, vi prese un pugno di terra, e se ne cosparse pronunziando queste parole della Chiesa memento homo quia pulvis es, et in pulverem reverteris30. Questa fermezza cristiana toccò il cuore di tutti gli astanti; quanto a lui, già separato dal mondo, parlava segretamente al Signore, di cui sperava la misericordia: indi, rompendo tutto ad un tratto il silenzio dell’agonia, e levate le braccia, sclamò: Te Deum laudamus! e l’anima sua volò al cielo.
In quell’islante l’ago del pendolo passava dal mezzodì all’un’ora. Diversi erano presenti, e fra gli altri l’abate Giovanni Tirado, curato della parrocchia; il licenziato Marco Felipe, suo amico, Pedro de Arana, suo parente, e il bacelliere Giovanni Peroz, suo bibliotecario, i quali figurarono come testimoni nell’atto di morte, scritto un’ora dopo31 dall’alcade di Fuentes, assistito da quattro notai. Correva il 12 luglio 1539.
La perdita del dotto e virtuoso don Fernando Colombo, il primo illustre personaggio scientifico della Spagna, fu vivamente sentita dagli uffici della marineria. I Francescani lamentarono venuta meno con lui un’affezione ereditaria, i poveri piansero perduto un benefattore, i professori un modello ed un protettore. Tutta la città presentiva come questa morte pregiudicherebbe al Collegio delle matematiche, all’accademia composta dalle sue cure, non meno che agli istituti letterari che ne dovevano formare gli annessi, e sopratutto ai disegnati stabilimenti de’ passeggi pubblici e delle vie lungo il fiume. Le sue esequie furono celebrate con tale e tanta pompa, che fu poscia impossibile usarne maggiore per principi, e neppure per l’Imperatrice32.
In tal guisa si dipartiva dal mondo l’ultimo membro della famiglia di Colombo, che aveva avuto il vanto di amare e servire il Rivelatore del Globo.
Raffrontando la vita così pura di don Fernando Colombo coll’arringo sempre attraversato del fratello primogenito, il secondo Ammiraglio delle Indie; ricordando i loro due zii, don Bartolomeo e don Diego, fedeli ausiliari dell’Araldo della Croce; vedendo, che ciascuno di questi uomini, già grande per sè medesimo, fatto vieppiù grande dalle traversie, conservò una individualità notevole, nonostante la vicinanza abbagliante dello scopritore del Nuovo Mondo, e presentò l’esempio delle più alte virtù, nel tempo stesso che fu modello all’adempimento de’ più umili doveri, risentiamo una sorpresa edificante: perocchè indarno cercheremmo altrove simile gloria; nè la storia sa mostrarci due volte un tale patrimonio di virtù così fedelmente conservato, e felicemente trasmesso. Chiunque osserva attentamente, non rimarrà meno sorpreso del privilegio di superiorità morale conceduto a questa famiglia, che dal carattere chiaramente provvidenziale di Cristoforo Colombo. Una benedizione del Cielo rivelasi propriamente discesa sulla nobile stirpe dell’umile Operaio Genovese: L’eroismo della sua discendenza eclisse le virtù umane, ed offre, intorno ad un miracolo di sublimità, fenomeni costanti di grandezza. Cristoforo Colombo, gloriosa meteora, Spegnendosi, lascia dietro di sè, qual traccia luminosa, l’esempio de’ suoi fratelli, l’eccellenza de’ suoi figli. Quando si tenta di penetrare per intuizione oltre le apparenze, affine di cogliere alla sua origine il prodigio di questa sorta di predestinazione, il dubbio in breve si dilegua: bisogna abbassare il proprio orgoglio, e riverire con ammirazion riverente. Ci pensiamo vedere la sorgente di questi favori misteriosi risalire sino all’oscurità del vicolo Mulcento, come per guiderdonare ne’ figli la fede del giusto che servì Dio, con tutto il suo cuore, nella fatica e nella povertà. Contemplando il quadro di questa famiglia cristiana nelle sue tre generazioni, riesce impossibile di non sentirsi tocco come all’aspetto della santità; e di non riconoscere in mezzo a queste maraviglie della Grazia, l’adempimento dell’eterna parola dei Libri Santi — la posterità de’ giusti sarà benedetta, generatio rectorum benedicetur.
fine della storia di cristoforo colombo.
Note
- ↑ Precedentemente, alla Giammaica, era stato preso ed accusato di molte cose; per la preghiera dell’Adelantado e di alcuni ufficiali, Colombo gli aveva perdonato sotto condizione. — Lettera dell’Ammiraglio a don Diego Colombo del 29 dicembre 1504.
- ↑ Egli figurava col titolo di Cantina del Rey, al nono interrogatorio delle inchieste del Fiscale il 21 marzo 1513. Allora aveva 59 anni e abitava in Siviglia.
- ↑ Don Diego Colombo ricevette ordine di vegliare a’ suoi interessi colla maggiore attenzione. — Herrera, Historia general de las Indias occidentales, Decada 1, lib. VIII, cap. vi.
- ↑ “Es causa muy principal de muchos bienes que en las dichas Indias han sucedido y suceden y siempre continua sus trabajos para en lo porvenir con mucho zelo que las animas de todas aquellas gentes se convertian á Nuestro Señor, etc....” — Coleccion diplomática, documn° clxxiv.
- ↑ “Philippum ducunt persuasum ne ullo pacto socero credat.”: — Petri Martyris Anglerii, Opus epistolarum.
- ↑ Il giovine principe Carlo, suo rampollo, figlio di una figliuola che egli non amava, e di un genero cui abborriva: doña Juana la pazza, e l’arciduca Filippo il Bello.
- ↑ Lettera del 26 novembre 1506. — Coleccion diplomática. Docum. n° clxi.
- ↑ “El Rey le respondió que del bien lo confiaria, pero no lo hazia fixo por sus hijos y successores. A lo cual replicó el Almirante que no era razon que él pagasse los peccados de sus hijos y successores, que por ventura no tendria.” — Herrera, Historia de las Indias occidentales. Decada 1, lib. VIII, cap. iv.
- ↑ L’accettazione che Colombo fa in Ispagna, delle lettere di nobiltà, nulla prova contro la nobile sua origine in Italia. Certamente, un gentiluomo non può, senza arrischiare la propria dignità, soffrire che il favor reale, conferendogli i diritti che gli derivano dal proprio sangue, abbia a togliergli così i beneficii del tempo, e compromettere l’onore genealogico della sua stirpe; ma bisogna considerare che per la Spagna, Colombo non era che uno straniero. Mandato ivi dalla Provvidenza, il Rivelatore del Globo, non volle esservi che il figlio delle opere sue. È d’altronde meno facile far rivivere un titolo caduto in disusanza, per casi di fortuna, che ottenere un titolo creato di nuovo. E quantunque egli avesse accettato in Castiglia delle lettere patenti, il Vicerè delle Indie sapeva ricordare, a proposito, non esser egli il primo Ammiraglio della sua famiglia.
- ↑ “Allende de que huvo por muger una señora prudentissima y muy virtuosa.” — Herrera, Historia de las Indias occidentales, Decada 1, lib. VII, cap. vi.
- ↑ 1
- ↑ “Perchè il Re lo amava non solo per la grande affinità che avevano fra di loro, poichè le madri loro erano sorelle, figliuole dell’Ammiraglio di Castiglia don Federico. e che eglino eran cugini germani; ma altresì, ec Oviedo y Valdez, Storia naturale e generale delle Indie, lib. III, cap. xii. Traduz. di Gio. Poleur.
- ↑ “Con nombre solamente de Almirante y gobernador de las Indias, con protestacion que no era su intencion concederle por los poderes que le avia de dar mas derecho del que tenia pleyteando.” — Herrera, Historia de las Indias occidentales. Decada I, lib. VII, cap. vi.
- ↑ “Andavan de por medio algunos de los que avian sido desobedientes al Almirante viejo, reliquias de Francisco Roldan, y pretendian deshazer al Almirantc nuevo, etc....” — Herrera, 'Historia de las Indias occidentales'. Decada 1, lib. VII, cap. xii.
- ↑ Oviedo y Valdez, la Historia natural y general de las Indias, lib. IV, cap. vi.
- ↑ “Quattro religiosi di San Francesco, ordine cui egli affezionava assai lo consolarono e assistettero ne’ suoi momenti estremi. Venerdì a 9 ore di sera, egli rese lo spirito, avendo gran memoria e contrizione, rendendo infinite grazie a Dio, e con una grande rassegnazione, raccomandandosi a Lui ed alla gloriosa sua Madre. È da credersi ch’egli salì alla gloria celeste.” — Oviedo y Valdez, Storia naturale e generale delle Indie, lib. IV. Traduzione di Gio. Poleur.
- ↑ Il suo nemico Oviedo y Valdez è forzato di rendere a lui giustizia su questo punto. “Y mas de ser de mucha nobleza y afabilidad y dulce conversacion; es docto en diversas ciencias; y en especial en cosmographia...” — La Historia natural y general de las Indias, lib. III, cap. vi.
- ↑ “Tuvo orden del Rey para aprovechar á su hermano don Hernando en quanto pudiesse.” — Herrera, Historia general de las Indias occidentales. Decada 1, lib. VII, cap. vi.
- ↑ Questa particolarità è scritta di sua mano sull’esemplare di Giovenale, ch’egli recò con sè dal suo viaggio. — D. Eustachio Fernandez de Navarrete. Noticias para la vida de D. Hernando Colon.
- ↑ “.... Y despues con el Emperador á Italia, Flandes y Alemania, y en estos, y en particulares viages, peregrinó toda la Europa, y mucho de la Asia y Africa....” — Ortiz de Zuñiga, Anales ecclesiasticos y seculares de la muy noble y muy leal ciudad de Sevilla, lib. XIV. f. 496.
- ↑ “Se ordenó que.... el examen y desputas se hiziessen en presencia de don Hernando Colon y en su casa; y que no pudiesen dar el grado, sin su aprobacion, hallandose en la ciudad de Sevilla.” — Herrera, Historia general de las Indias occidentales. Decada 4, lib. II, cap. v.
- ↑ “Y en ella con licencia del Emperador deseó establecer una Academia, y Colegio de las ciencias mathematicas, importantissima á la navegacion.” — Ortiz de Zuñiga, Anales ecclesiasticos y seculares de la muy noble e muy leal ciudad de Sevilla, lib. XIV, f. 496.
- ↑ “.... Enriquiciendose de noticias y de libros, de que juntó numero de mas de veinte mil selectissimos en esta ciudad....” — Ortiz de Zuñiga, Anales ecclesiasticos y seculares, lib. IV, f. 496.
- ↑ “Comenzó à hacer un edificio y plantar una huerta de inas de 5,000 arboles por la largo del rio, haciendo que la ciudad per alli tuviese lustre y la ribera quedase mas fresca.” — Juan de Malara, Recibimiento que hizo la ciudad de Sevilla á Felippe II, f. l.
- ↑ Questo libro ha per titolo: Tradado sobre la forma de descubrir y poblar de las Indias.
- ↑ “Cincuenta dias antes que muriese supo que habia de morir con su grande saber y llamó á sus criados, y le dijo que poco habia de estar con ellos en este mundo.” — Carta de Sevilla escrita per Julio de 1539 á D. Luiz Colon, Almirante de las Indias. — — Coleccion de documentos ineditos para la historia de España, tomo XVI, p. 420.
- ↑ “Despues que supo su muerte, dió de comer á 33 pobres y él mismo les sirvió á la mesa ..”— Carta de Sevilla escrita par Julio de 1539 á D. Luiz Colon, Almirante de las Indias.
- ↑ “.... Y porque razon de ser de la patria del fundador, le pide por merced le favorezea, etc.” — Testamento otorgado en 12 de julio 1539.
- ↑ “Se diga una misa de los angeles cantada con ornamentos blancos, para denotar el alegria que dose tener él que sale de carcel deste mundo.” — Declaraciones del Testamento de D. Hernando Colon que hizo su albacea y amigo el licenciado Márcos Felippe, relator de la Audiencia Real de grados de Sevilla. — Coleccion de documentos ineditos para la historia de España, tomo XVI.
- ↑ “Dos horas antes que muriese demandó un plato de terra, y trujeron lo que no sabian para que lo queria, y mandó que se la echasen en rostro, y pensado que no tenia sentido y echaban ninguna, y enojose y metió la mano en el plato, y hincho el puño y echósela en cima del rostro y de los ojos diciendo en latin, etc...” — Carta de Sevilla escrita per Julio de 1539 á D. Luiz Colon, Almirante da las Indias.
- ↑ “El licenciado Marcos Felipe relator de los grados, diciendo ser fallecido dicho Colon habia una hora (segun tres deponen de vista, Juan Tirado Presbytero, Pedro de Arana, Bachiller Juan Perez).” — Coleccion de documentos ineditos para la historia de Espaňia, tomo XVI.
- ↑ “.... Fué tan devota y solemne quo por ningun principe ni por la Emperatriz nuestra señora, se dijo ni hizo mas.” — Declaraciones del testamento de D. Hernando Colon que hizo su albacea y antigo el licenciado Márcos Felipe relator de la Audiencia Real de grados de Sevilla. — Vedi gli articoli 6 e 10 del Rendiconto dell’esecutore testamentario.