Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro II/Capitolo IV
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO QUARTO
§ I.
Alfine di seguire agevolmente i primi passi de’ Castigliani, e le operazioni dell’ammiraglio alla Spagnuola, indichiam brevemente la divisione politica e territoriale di questa.
Cinque re, o gran cacichi avendosi ciascuno sotto di sè cacichi subalterni, specie di gran vassalli, regnavano sull’isola d’Haiti, che l’ammiraglio chiamò l’Isola Spagnuola. Questi cinque re erano Guarionex, Caonabo, Behechio, Guacanagari e Guayacoa.
Guarionex, uscito dalla razza più illustre, dominava la parte nord-Est dell’isola, nella quale era compresa la magnifica pianura, in parte coltivata, che fu chiamata Vega real: l’Isabella era stata eretta nel suo territorio senza chiedergliene licenza.
Guacanagari regnava al nord-est, dall’Artibonite sino al di là di Monte-Cristo.
Guayacoa occupava la parte orientale, la più esposta agli attacchi de’ Caraibi. I suoi sudditi, meglio armati del rimanente degli indigeni, sapevano difendersi.
Behechio possedeva la parte più estesa dell’isola, quella che dall’Artibonite si allungava all’ovest sino al capo Tiburon, e racchiudea il lago salato di Xaragua, per lunga pezza argomento di misteriosi racconti.
Caonabo, il signore della casa d’oro, governava la parte montagnosa, dalle alture di Cibao sino al litorale del mezzogiorno: di razza caraiba, la sua genealogia era ignorata: gettato per caso nell’isola, un amore romanzesco ve lo aveva stabilito: fatta fortuna nel mestier del soldato, si era coronato re esso medesimo; e il suo ingegno militare avevagli sicurato il potere: i re vicini paventavano la sua inimicizia, e chiedevano la sua alleanza.
Soggetti a sè, tutti questi re o gran cacichi avevano nella lor dipendenza cacichi secondari, ch’erano sovrani di fatto nel loro distretto particolare. Ad eccezione delle popolazioni dell’est, esposte alle incursioni de’ Caraibi, e le tribù del re guerriero Caonabo, gli indigeni erano di un naturale dolce e timido. La giocondità del clima, la facilità. di vivere senza faticare, e un’apatia ereditaria, rendevano loro insopportabile ogni lavoro corporale; tanto più che il loro nutrimento, composto quasi esclusivamente di vegetabili, non permetteva loro di sostenerne che richiedesse vigoria.
Date al comandante Pedro Margarit istruzioni ammirabili, le quali comprendevano, prevedevano e consigliavano, ogni cosa, i luoghi da percorrere, le osservazioni da fare, i mezzi onde ottenere de’ viveri, rendere la giustizia agli indigeni, attirarsi la loro affezione, e recarli al Cristianesimo, l’ammirglio provvide alla sicurezza della città rimasta senza guarnigione, e preparò la continuazione delle sue scoperte, non volendo lasciarsi prevenire dal Portogallo. Istituì a governare in sua assenza un consiglio composto del padre Boil, suo detrattore, di Pedro Hernandez, di Alonzo Sanchez di Carvaial, e di Juan di Luxan, sotto la presidenza di suo fratello don Diego Colombo. La scelta del padre Boil non farà. maraviglia a chi ricorderà che l’ammiraglio non si vendicò mai di alcuna offesa; ch’egli considerava prima di tutto il ben pubblico; e che, nonostante i suoi dispareri col Vicario Apostolico, onorava in lui il suo carattere ufficiale; d’altronde, non poteva disconoscere la sua capacità, e forse Colombo operava accortamente in dare a lui in queste circostanze una partecipazione diretta negli affari della Colonia.
§ II.
L’ammiraglio scelse fra le cinque navi rimase nel porto di Isabella, le tre caravelle che facevano men per acqua, la Nina, il San Juan, la Cardera, montate da equipaggi da lui conosciuti. La Nina apparteneva ad Alonzo Medel di Palos: i suoi piloti, i suoi marinai, tutti, sino ai mozzi, erano di Palos o dei dintorni. La Cardera apparteneva ad un di Palos, Cristobal Perez Nino. Il San Juan aveva, per dir vero, a padrone un di Malaga, Alonzo Perez Roldan, ma l’equipaggio era formato anch’esso di genti di Palos, di Moguer e delle vicinanze. Tutti questi marinai conoscevano da gran tempo il Guardiano della Rabida: avevano assistito allo sbarco trionfale di Colombo, e lo seguivano fidenti alla scoperta.
L’ammiraglio pose la sua bandiera sulla Nina, quella piccola nave che lo aveva ricondotto in Europa; e mutandole il nome la chiamò Santa Clara in memoria della prima figlia dell’Ordine Serafico: menava seco uno Stato maggiore, piccolo di numero, ma scelto, l’astronomo frate Juan Perez di Marchena, il medico in capo dottore Chanca, un Padre della Mercede, che installò cappellano della nave, il piloto geografo Juan de la Cosa, il piloto Francesco Nino, il notare reale Fernando Perez de Luna, Ximenes Roldan, e il suo fedele scudiere Diego Mendez. I dì 24 aprile l’ammiraglio uscì dal porto dell’Isabella, si diresse verso l’ovest, e si ancorò dinanzi alle terre di Guacanagari, sperando che il cacico verrebbe a trovarlo. Bramava tanto maggiormente un tal rannodamento di amicizia, in quanto la munificenza ospitale del cacico poteva giovar grandemente i coloni minacciati di carestia; ma, a vedere le caravelle, Guacanagari era fuggito nel più fitto delle foreste. Quell’allontanamento venne di bel nuovo a confermare i sospetti destisi contro di lui. Nondimeno l’ammiraglio non volle neppure per ciò condannarlo. Il cacico aveva forse temuto che si volesse rapirgli Catalina, di cui i medesimi spagnoli avevan notata la selvaggia eleganza; ed era andato ad occultarla nel più profondo de’ suoi boschi.
L’ammiraglio rimise alla vela la dimane con venti variabili. Finalmente, dopo quattro giorni di abili manovre, passò il capo che nel suo primo viaggio aveva chiamato Alfa ed Omega: oggi lo si chiama Maysi: indi governando al sud, penetrò nel porto ammirabilmente sicuro e spazioso di Guantanamo. Presa terra collo Stato maggiore, e l’interprete Diego Colombo, capitarono in mezzo agli apparecchi di un copiose banchetto, innanzi a fuochi abbandonati; quivi era copia di pesci e d’iguani. Gli Spagnuoli si allegrarono di esser giunti in buon punto, e fecero provvisione di vettovaglie fresche. Gl’indigeni si eran ascosi; se ne videro molti in agguato sopra un monticello; e a forza di segni benevoli un di essi s’indusse ad approssimarsi. Siccome l’idioma lucaiano era meglio compreso su questa costa che alla Spagnola, così tornò facile di assecurarlo. In breve i suoi coinpatriotti accorsero solleciti e curiosi. Essi preparavano pel loro cacico un banchetto che doveva imbandire ad un suo vicino, e facevano cuocere il pesce, per preservarlo dalla corruzione nel viaggio: non si dolsero del saccheggio dato a que’ viveri, e dissero che la pesca della prossima notte li compenserebbe; ma Colombo non volendone profittare gratuitamente, distribuì loro alcuni piccoli oggetti d’Europa che li colmarono di gioia. Nell’abbandonarsi, marinai e indigeni si scambiarono amichevoli saluti e strette di mano.
L’indomani l’ammiraglio continuò la via all’ovest in vista delle coste che osservava attentamente. Le sue navi erano seguite da gran moltitudine d’Indiani in canotti, che venivano ad offrire frutti, pane di cassave, pesci, e gran vasi pieni di acqua eccellente. Come gli altri isolani, credevano gli Spagnoli discesi dal cielo. L’ammiraglio distribuì loro sonagliuzzi e campanelli, a cui essi attribuivano un prezzo infinito. Alle sue dimande, ove fosse il paese donde traevano l’oro, rispondevano additando il sud; e Colombo veleggiò a quella volta.
La domenica al primo albeggiare, attraverso la limpida atmosfera di quelle latitudini, in cui lo sguardo spazia a gran distanza, vide spuntar le cime azzurre di alte montagne: appartenevano alla Giamaica, a cui giunse dopo una giornata di navigazione. L’isola parvegli di maravigliosa bellezza.
Mentre si accostava alla riva, una flottiglia di gran canotti da guerra, montati da combattenti tutti dipinti il corpo, e col capo adorno di piume, brandendo lor armi e mettendo grida di minaccia, uscì dalle ombrose boscaglie per contrastare lo sbarco: ma alcuni doni calmarono il loro furore; onde si gettarono le áncore in un porto, che l’ammiraglio nominò Santa Gloria, cotanto le armonie della natura ne rendevano il soggiorno delizioso, e facevangli come pregustare alcunché delle pure gioie de’ predestinati. Indi si diresse verso un luogo conveniente al raddobbo, sendochè si era scoverta nella Nina una via d’acqua. Un’altra flottiglia fece anch’essa le prove di contrastargli l’entrata: ma non ostante le grida selvagge e le frecce lanciate contra le caravelle, l’ammiraglio si ancorò in quella piccola baia che nominò il «Buon Porto.» Tuttavia, avendo bisogno di tranquillità per racconciare la Nina, e far provvigione d’acqua, reputò utile di mostrare agli indigeni che non li temeva. Le scialuppe bene armate si avviarono, pertanto, verso la riva: indi gli equipaggi scesero a terra, e fecero una scarica delle lor balestre ferendo sette od otto indigeni. Un cane entrò anch’esso a parte della zuffa, e compiè la rotta mordendo per di dietro, i fuggiaschi. Il giorno dopo i cacichi più vicini mandarono a chieder pace; poscia giunsero carichi di provvigioni molti canotti, la cui poppa e la prora erano adorne di scolture colorate, composti di un solo pezzo, e grandissimi: l’ammiraglio ne misurò uno ch’era lungo novantasei piedi, e largo otto. Qui la qualità dei viveri era migliore che nelle altre isole; i frutti avevano più sapore, e i fiori più fragranza.
L’ammiraglio prese possesso di quest’isola nella solita forma; vi alzò la Croce colle usate preghiere, e, mettendola sotto la protezione dell’Apostolo delle Spagne, le impose il nome di San Giacomo. ln tre giorni fu compiuta la riparazione della caravella, e Colombo, dopo seguita la costa per venticinque leghe senza trovare il menomo indizio d’oro, si volse sopra Cuba, per sapere finalmente s’era isola o continente: pensava sciogliere la quistione correndo le coste cinquanta o sessanta leghe.
Il 18 maggio, riconobbe un capo avanzato che nominò Santa Croce. La costa, che fino a quel punto si stendeva all’Occidente, formava tutto ad un tratto un gomito immenso e si dirigeva al Nord. Tempesta, quale non fu mai che europeo ne provasse una simile in quei climi, fecein correre gran pericolo: quando cessò, si trovarono in mezzo a scogli a fior d’acqua, ad isolotti fra cui si avanzarono manifestamente guidati dalla Provvidenza. Un numero infinito di bassi-fondi formavano colà una maniera di labirinto: a vederli somigliare mazzi di verzura e di fiori, Colombo li chiamò collettivamente i Giardini della Regina. I suoi ufficiali lo supplicavano di uscir di là, ove l’indietreggiare non era men difficile dell’avanzare: si correva il risico di affondare ad ogni istante: colpi di vento, che venivano da diverse parti, costringevano a continue manovre. Impendeva doppio pericolo, a motivo degli scogli che minacciavano le chiglie e del fondo pantanoso che non tratteneva le áncore.
Fenomeni particolari attiravano l’attenzione dell’ammiraglio. I capricci dell’atmosfera presentavano una periodicità atta a sorprendere quel grande osservatore. Ogni mattina il vento veniva dall’est, ogni sera dall’ovest; e sull’entrar della notte nubi sinistre giungevano dall’Occidente, e si sviluppavano sul zenitth, presentando nelle loro profondità baleni seguiti da tuoni: ma appena la luna appariva sull’orizzonte, tai minaccianti apparenze si dileguavano incontanente. Queste singolarità atmosferiche, e questo numero prodigioso di picciole isole recavano Colombo a credere di essere nell’arcipelago dei cinque mila isolotti situati all’estremità dell’India, di cui parlano Marco Polo, e Mandeville; nè voleva abbandonarlo prima di averlo perfettamente riconosciuto.
Seguitò, pertanto, in mezzo ad incessanti pericoli, e fatiche incredibili, l’esplorazione di quelle isole, disseminate non meno di bellezze, che di pericoli: la maggior parte era disabitata: nella più grande, che l’ammiraglio chiamò Santa Maria, trovò capanne i cui abitatori fuggirono, quantità di oche, di aironi e quattro cani muti di ignobile aspetto, che gl’indigeni ingrassavano per poi mangiarli. Una vegetazione gagliarda occultava infiniti uccelli marini, cormorani, alcatraz ed anitre. I voli e le grida di papagalli d’ogni colore animavano quelle solitudini.
L’ammiraglio passò quasi un mese a solcare pericoloso arcipelago: molte volte discese sulla costa di Cuba per indagare s’era un’isola od un continente.
Alcuni selvaggi dicevano che Cuba era un’isola; ma quasi tutti si accordavano a riconoscere che la sua riva si estendeva indefinitamente. L’incertezza di Colombo crebbe a motivo, che, nella parte più occidentale del littorale, l’interprete cessò di essere compreso: ridotto a farsi intendere a gesti. Questa imperfetta traduzion del pensiero indusse l’ammiraglio in un errore quasi inevitabile: credette comprendere che all’Occidente regnasse un cacico chiamato Magon o Mango: un arciere della spedizione, cacciando ne’ boschi, aveva da lungi veduto un uomo vestito di bianco, come il cappellano della Santa Clara; indi ne vide due; e più lontano una trentina: per prudenza, era tornato precipitosamente alle navi. L’ammiraglio aveva immantinente mandato due drappelli alla scoperta; ma l’uno di essi non pote procedere innanzi più di mezza lega, a motivo dello spessore delle foreste; e l’altro, che doveva percorrere la spiaggia, vedendo sull’arena le fresche impronte di zampe mostruose, si affrettò di tornare alle navi. Queste circostanze, associate a’ nuovi influssi ed al racconto de’ viaggiatori sul paese di Mangu o Mangon, del paro che le tradizioni sul Gran Kan, di cui l’Oceano bagnava gli Stati, persuasero l’ammiraglio che toccava all’estremità delle Indie.
Continuo, dunque, la sua navigazione al nord-ovest, e trovò da capo gruppi d’isolotti; riconobbe trammezzo quelli la grande isola de’ Pini; e pensando che di quivi si diffonderebbe il Vangelo ne’ piccoli arcipelaghi, Colombo la chiamò l’Evangelista. Notò la direzione della costa verso il mezzogiorno; nuova circostanza che venne a confermare le sue congetture per la sua conformità cogli scritti de’ viaggiatori. Di nuovo seppe dagl’indigeni che non conoscevano punto i limiti di quella costa, quantunque l’avesse seguita per oltre venti giorni. La conformità di queste testimonianze, e di queste coincidenze mutò i suoi dubbi in certezza. Siccome importava onde render vani i tentativi del Portogallo, di prendere il più presto che fosse possibile signoria della terra-ferma, l’ammiraglio fece procedere alla ricognizione autentica della scoperta del continente di Cuba, riputato il principio delle Indie.
A tal effetto, il notaro reale della spedizione dovette raccogliere le deposizioni degli uomini di mare, sotto forma di esame, e tesserne processo verbale alla presenza di quattro testimoni. Perciò, il giovedì, 12 giugno 1494, Fernando Perez de Luna, notaro regio, andato a bordo d’ogni caravella, assistito da Diego Tristan e Francesco Morales, ambedue domiciliati a Siviglia, Pedro de Ferreros, mastro di casa, e Lopes de Zuniga, scudiere scalco, ambedue ufficiali domestici «del signore ammiraglio,» compilò il suo atto a bordo della Santa Clara. Questo processo verbale prova che gl’Indiani hanno dichiarato che la costa si estende ad oltre venti giornate, senza che si sappia dove finisca; che gli uomini di mare, piloti e marinai, avendo consultato le loro carte, e riflettuto prima di rispondere, hanno tutti affermato, sotto giuramento, che non avevano mai nè veduto, nè sentito dire che un’isola potesse offrire trecentotrentacinque leghe di coste, dall’occidente al levante, senza che se ne vedesse la fine; e che essi giudicano quella essere terraferma.
Erano nelle caravelle cinquanta uomini di mare, fra’ quali piloti rinomati e maestri in cosmografia. Nessuno emise intorno a ciò il menomo dubbio. Tutti sapevano le particolarità sulle quali l’ammiraglio fondava le sue congetture, ed erano intimamente persuasi che Cuba segnava il principio delle Indie. Su questi dati Colombo aveva concepito l’audace itinerario, mercè cui intendeva ricondursi in Ispagna per l’Asia, ed il Mediterraneo.
Dio solo e gli Angeli sapevano allora la forma del nuovo continente, l’immensita del mare Pacifico, la distanza che separava Cuba dalle coste della China e dell’Arcipelago indiano. L’inevitabil errore di Colombo, da cui non avrebbe potuto andar esente che per rivelazione divina, serve a mettere in rilievo la fecondità del suo genio, e l’ardimento delle sue induzioni. Nel suo piano impraticabile brilla la prima idea di circumnavigazione. Senza l’interposizione del continente americano, cui niente poteva far sospettare, egli sarebbe effettivamente giunto, continuando a navigare all’ovest, alla penisola di Malacca: sarebbe entrato ne’ mari frequentati dagli Arabi, e anticamente conosciuti dai mercanti romani; avrebbe abbordato alla Taprobana, all’isola di Ceylan; sarebbe andato pei mari del Gange e del Golfo Persico sino al mar Rosso; indi, traversato il deserto di Arabia, avrebbe visitato i Luoghi Santi, costante oggetto della sua sollecitudine e del suo eroico ardore: poscia, imbarcandosi a Jaffa, sarebbe tornato in Ispagna, percorrendo nella sua maggiore lunghezza il Mediterraneo. Ma la deficienza de’ viveri, il cattivo stato delle caravelle, lo scoramento degli equipaggi lo costrinsero a ricalcare la strada dianzi fatta.
Colombo non cedette che all’imperiosa necessità. Le sue navi logore dalle frequenti scosse, le sue catene ed áncore guaste dai coralli nel toccare i bassi-fondi, le vele lacerate e mezzo marcie, le provigioni consumate, il biscotto guasto, violentarono la sua risoluzione: bisognò tornare indietro.
In mezzo a questi pericoli, e mentre le caravelle contrastavano coi banchi di madreperle, e coi labirinti di litofiti, in cui le aveva impigliate la sua ardente investigazione degli arcani di natura, il poeta pareggiava in lui il naturalista; e mentre godeva di quegli aspetti pericolosi, dilettavasi de’ profumi che si Spandevano sulle onde malfide.
§ III.
A indennità di sue fatiche, durante il corso di questa navigazione, il contemplatore della Creazione fu invitato a mirabili spettacoli. A misura che trovava le acque profonde e trasparenti delle coste di Cuba, scene animate vivificavano le solitudini dell’Oceano.
Un giorno vide sollevarsi alla superficie de’ flutti una moltitudine innumerevole di testuggini dalle larghe squame, che, simile ad esercito, seguiva una direzione unica, e come sotto l’ordine di un capo andava dirigendosi al nord. Questi strani emigranti si avanzavano regolarmente, e coprivano da lungi il mare: n’era tale l’affluenza che ritardavano l’inoltrarsi delle caravelle. Da lontani abissi misteriosamente colà convocate quelle miriadi di testuggini abbordavano la costa meridionale di Cuba per deporvi sulla sabbia uova che il sole doveva poi far sbocciare.
L’indomani una scena diversa empiè l’orizzonte di moto e di romore. Falangi di uccelli marini traversavano l’aria; stuoli di grù li seguivano, corvi si succedevano a falangi, aeree caravane, immense migrazioni venivano dagli arcipelaghi delle isole de’ Pini, dai Giardini della Regina, e dalle isole più lontane de’ Caiman; e, quasi avessero convegno a giorno fisso, si dirigevano passando per Cuba verso un punto sconosciuto.
Questo passaggio fu seguito dall’arrivo silenzioso, ma lucente di più leggeri ospiti dell’aria. Farfalle dalle ali riccamente svariate occuparono l’atmosfera: quasi mobile tenda, passando sopra le navi intercettavano colle compatte lor masse i raggi del sole, davano di cozzo contro gli alberi e il cordame, e ne cadeva buon numero sul cassero delle caravelle; a sera, il vento d’ovest e le forti ondate dispersero nello spazio quella fragile popolazione.
Continuando il suo cammino, Colombo rientrò in quelle strane acque, che avevano dianzi incusso tanto timore negli equipaggi: trovò il mare denso e bianco che aveva valicato prima di giungere all’Evangelista. Le onde gravi e sedimentose erano di tal candore che abbagliavano la vista. A questo fenomeno locale ne successe in breve un altro non meno pauroso per l’equipaggio , ma curioso per uno spirito investigatore: il mare apparì nero come inchiostro: da Colombo in fuori, qualsivoglia altro, anche coraggioso, sarebbesi smarrito d’animo mirando quel mutamento. Ai movimenti regolari del mare si aggiungevano in vicinanza delle coste agitazioni periodiche, ogni sera, a cagione delle piogge vespertine, la copia delle quali gonfiava i fiumi alla foce. Finalmente, il 6 luglio si prese terra all’estremità del golfo, che forma la parte esteriore del capo Santa Croce. Gli equipaggi sbarcarono e si riposarono: gl’indigeni del paese si affrettarono a recar loro viveri di cui pativano gran bisogno.
Per ringraziar Dio della sua segnalata protezione in mezzo a pericoli così continui, Colombo fece erigere un altare e vi fu solennemente celebrata la Messa.
Durante la cerimonia un cacico attempato, venerabile non ostante la sua nudità, si accostò, osservando con attenzione tutto quanto si faceva: comprese che si trattava di un atto religioso. Posciachè Colombo ebbe finito i suoi ringraziamenti, il vecchio salutandolo gli offrì un canestro di belle frutte che aveva in mano, e sedendogli accanto, col mezzo dell’interprete Diego, di cui comprendeva l’idioma, gli disse: «È giusto di rendere grazie a Dio dei favori che ci concede. Pare che questa sia la vostra maniera di onorarlo, e sta bene. Mi è stato detto che tu hai precedentemente percorso queste contrade, che dianzi ti erano sconosciute, mettendovi in ispavento le popolazioni: ma non superbire di ciò: ti ricorda, te lo raccomando, e te ne prego, che, all’uscir del corpo, l’anima trova due strade; una che conduce a dimora fetida e tenebrosa, preparata per quelli che hanno desolato i lor simili; l’altra che mena a soggiorno delizioso e fortunato, disposto per chi, durante la vita, amò la pace e la mantenne fra gli uomini. Per conseguenza, se ti credi mortale, e pensi che ciascuno sarà retribuito secondo le sue opere, non fare male a persona del mondo.»
La pietà di Cristoforo Colombo, fu tocca e consolata da queste parole. Sin allora, fra gli indigeni, non aveva veduto cosa che indicasse chiara nozione della vita futura. L’ammiraglio benedisse Dio di aver conceduto questo lume agli uomini di buon volere rilegati in sì lontane regioni. Quel vecchio cacico gli ricordava uno de’ giusti della legge primitiva, abitatore come Rachele di contrade idolatre. L’ammiraglio rispose per mezzo dell’interprete, ch’era venuto dall’estremità dell’Oceano in quel paese, inviato da’ suoi Sovrani per insegnare la vera religione, far regnare la giustizia, frenare i disumani Caraibi, e proteggere le nazioni pacifiche.
A questi annunzi il cacico non potè per la tenerezza trattenere le lagrime; indi con suo stupore immenso, udì dall’interprete lo splendore de’ Monarchi di Spagna. Penetrato della grandezza di quegli ospiti, e attirato dalla maestà del loro capo, annunziò improvvisamente la sua risoluzione di volerli seguire. Dimentico de’ suoi anni, voleva valicar l’Oceano per andare a contemplar le cose, la cui descrizione suscitava il suo entusiasmo: ma la moglie e i figli gli si gettarono ginocchioni dinanzì, supplicandolo di non abbandonarli; sentì pietà. della loro desolazione, e consentì a rimanere col suo popolo.
ll vecchio cacico aveva osservato la natura, viaggiate le isole vicine, e strette relazioni con Hispaniola, dove conosceva alcuni capi: i suoi viaggi lo avevano addotto molto innanzi verso l’occidente di Cuba. Le sue risposte contribuirono a confermar Colombo nell’idea, che trovavasi sui confini di un continente.
Durante i pochi giorni che gli Spagnoli passarono sulla riva di quel fiume, ch’ebbe nome fiume della Messa, gl’indigeni li colmarono di provvigioni. L’ammiraglio ristaurò alquanto le navi; prese acqua, legne, viveri freschi, e pesce arrostito; e il 16 luglio trasse sopra Hispaniola. Sul punto di passare il capo Santa Croce, una improvvisa burrasca violentissima lo sorprese, e poco mancò nol facesse naufragare. La sola prontezza della manovra lo salvò: in un istante i marinai montati sulle verghe avevano piegato le vele. Ma la Santa Clara era talmente stata guasta dagli scogli, che faceva acqua da varie parti, e gli sforzi de’ calfatti e l’uso continuo delle pompe potevano appena trattenerla a galla. Per giunta di mali, i viveri mancavano; ogni uomo non aveva ciascun giorno che un biscotto e una piccola misura di vino. Volendo l’ammiraglio condividere la penuria comune, si contentava di una razione da marinaio. ll pericolo fu sì grande che scriveva alla Regina, nel narrare i travagli di quella navigazione «faccia Nostro Signore che le mie fatiche profittino al suo santo servizio e a quello delle Vostre Altezze. Quanto a me, niuna cupidigia od ambizione mi farebbero esporre mai più a tante fatiche e pericoli: non passa giorno in cui non mi veda vicina ogni momento la morte.» Le onde infuriavano con tale violenza, che immersero sotto l’acqua tutto il cordame della Santa Clara. L’equipaggio non isperava più soccorso umano Nell’imminenza del naufragio, Dio soccorse al suo servo, e gli permise di riparare in una baia del capo Santa Croce, ove gl’indigeni gli recarono pane di cassave, pesci cotti, uccelli, e frutti d’ogni specie.
L’ammiraglio spese tre giorni a far riposare gli equipaggi, ed a riparare i guasti della sua nave. Durando il vento contrario ad attraversare la sua andata ad Hispaniola, spiegò le vele il 22 luglio, e viaggio di nuovo verso la Giamaica, per finire di riconoscerla. Qua pure tempeste regolari l’assalivano tutte le sere; le sue navi e le sue genti ne soffrivano fortemente. Ricercando la cagione di questa particolarità, il suo spirito investigatore la trovò nell’abbondanza delle foreste, e nell’elevazione de’ dossi isolati coronati da una vegetazione impenetrabile: notò che le piogge, per lo passato regolarissime anche alle Canarie, a Madera e alle Azzorre, erano di molto scemate dappoichè una gran parte di lor boschi era stata tagliata.
Essendosi il vento voltato al nord-est, l’ammiraglio veleggiò verso la Spagnola, e andò così sicuro alla volta della colonia, che l’indomani, 20 agosto, giungeva al capo occidentale di quella, totalmente sconosciuto, e che pose sotto l’invocazione dell’arcangelo San Michele. Il sabato 23, un gran canotto, che portava un cacico, si accostò alle caravelle, dicendo ad alta voce in castigliano: «ammiraglio, ammiraglio, donde congetturate voi che questo capo debba essere d’Hispaniola?» Diffîatti, egli nol sapeva; vi si trovava, nondimeno, venuto in diritta linea e con tale precisione che sapea di prodigio. ll suo disegno era di andar diritto alle isole Caraibe.
Considerando quella razza empia che da molti secoli desolava gli splendidi soggiorni apparecchiati dalla Provvidenza alla pace ed alla felicità de’ suoi figli, ricordando la permanente violazione delle leggi dell’umanità di cui essa bruttavasi, la sua ghiottoneria omicida, l’impunità onde s’inorgogliava, le stragi che faceva di popolazioni pacifiche, le quali fremevano di orrore al solo suo nome; Colombo, io dico, considerando la iniquità di quel popolo, risolvette di renderselo soggetto, di costringerlo a lavorare a pro delle tribù che dianzi decimava, attirando cosi la riconoscenza dei beneficati e liberati verso i Cristiani, di cui era sperabile che fossero per abbracciare la religione. In aspettazione che la Regina decidesse intorno que’ feroci antropofagi, egli voleva colle sue caravelle e scialuppe, correre l’arcipelago caraiba, frugare ne’ covi de’ mangiatori d’uomini, incendiare le loro capanne e i loro canotti, per impedirli di continuar più oltre nei loro misfatti: sperava, almeno, di riuscire a renderli impotenti, ed obbligarli a starsene nelle lor isole, cessando dal trasportarvi umane vittime per divorarle.
Sostenute nuove tempeste, il 24 settembre, l’ammiraglio riconobbe il capo più orientale della Spagnuola, e gli diede il nome dell’Arcangelo Raffaele. Non ostante i guasti delle caravelle, sendosi il mare abbonacciato, si dirigeva sui Caraibi, di cui bramava ardentemente distruggere l’impero; ma non piacque a Dio che il suo servo, messaggero di pace, e che s’aveva ad emblema la dolce Colomba, adempiesse una missione di castigo vendicatore. Appena ebbe oltrepassata l’isola Mona, sospinto da un vento favorevole verso i covi de’ cannibali, la possanza invisibile che lo aveva sino allora sostenuto, gli venne improvvisamente meno, e Colombo, abbandonato alle leggi della natura, ne subì gl’influssi.
Correvano, in quel dì, cinque mesi in punto dacch’era partito dalla Spagnola.
Durante cento cinquanta giorni consecutivi, il suo interrogare la natura, la sua investigazione delle acque, dell’aria, del suolo, la sua contemplazione delle opere da Dio, i suoi rapidi slanci verso l’Autore di quelle maraviglie, i suoi tentativi per penetrare i segreti di questo globo, gli sforzi della sua intelligenza per isciegliere tra le interpretazioni contraddittorie degli indigeni, e giungere a qualche verità geografica, e sovra tutto la sua così lunga lotta contro gli elementi, avevano esaurite le sue forze. Il sentimento della sua malleveria, la necessità di dirigere egli stesso costantemente una sì difficile navigazione, molta parte della quale non fu che una incessante tensione dello spirito e del corpo per salvare ogni cosa, avevano fatto tacere in lui i bisogni della età, e della salute, guastatagli dalle fatiche, dagli stenti o dalla privazione di sonno. Pareva che le difficoltà e i pericoli ravvivassergli la energia: ma nel punto che il mare fu queto e il vento propizio, il suo vigore si dileguò ad un tratto, e la natura riprese i suoi diritti.
Ciascuno de’ suoi organi si rilassò in braccio ad un profondo sonno: cervello, occhi, gambe cedettero ad una fatica che oltrepassava la umana vigoria: essendo generale lo sfinimento, tale doveva esser eziandio la riparazione. V’ebbe, pertanto, in lui una sospensione assoluta delle facoltà fisiche e morali, un completo letargo. Se non vi fossero state le lente pulsazioni del cuore, e la flessibilità delle membra, si sarebbe creduto che quell’anima sublime era tornata al suo Creatore.
ln quella circostanza, i piloti considerata l’impossibilità di navigare sopra i Caraibi con caravelle fracassate, mezzo annegate, e quasi senza savorra, si diressero all’Isabella.
§ IV.
Due mesi prima che partisse Colombo pel suo secondo viaggio, il Portogallo aveva diretto alla Castiglia una protesta contra le Bolle dei 3 e 4 maggio 1493, le quali, a suo dire, erano un’usurpazione dei diritti ond’era stato precedentemente investito.
Temendo che si rompessero le buone relazioni esistenti con quel suo alleato, la corte di Castiglia volle esaminare attentamente quel richiamo. Il 30 luglio 1494, Isabella incarico don Guttierre di Toledo, cugino del re, professore all’università di Salamanca, di mandarle senza ritardo, a Segovia, i maestri in astronomia ed in geografia, che giudicava più capaci per conferire coi piloti che aveva radunati. ll gran cardinale di Spagna scrisse il 26 agosto al dotto lapidario di Burgos Ayme Ferrer, che trattava da amico, di venirne in tutta fretta colle sue carte e co’ suoi stromenti di matematica per una verificazione di misura. Questo Lapidario, uomo di fede sincera, naturalista, viaggiatore, geografo, fu invitato a dire il suo parere sulla controversia surta fra i due Stati.
Tuttavia, mentre si avviava l’accordo colla Castiglia, il Portogallo faceva pratiche operose con membri influenti della corte pontificia, usando di tutte le arti della diplomazia per ottenere dalla Santa Sede la sospensione, o l’annullamento delle Bolle concedute alla Spagna. Ma alle osservazioni motivate dai cosmografi portoghesi, alle istanze e sollecitazioni del re Giovanni II, il Papa rispose puramente e semplicemente di avere già in prevenzione rimossa ogni contesa, tirando una linea di demarcazione dall’un polo all’altro; e che la sua donazione era irrevocabile. Avendo, dal canto suo, la corte di Spagna partecipato alla Santa Sede i lagni del Portogallo, il Papa fece anche a lei la medesima risposta.
Nondimeno il Portogallo non si tenne vinto, e tornò a importunare la Santa Sede, facendo valere il suo primato nelle scoperte marittime, le sue intenzioni pie, ed alquanto considerazioni tratte dalla scienza geografica: ma ogni suo sforzo torno vano e il Papa fu irremovibile. La Santa Sede si teneva così sicura del limite fissato secondo i dati forniti da Cristoforo Colombo, che intimò agli ambasciatori ordinari ed agl’inviati straordinari delle due Corone di riferirsene alle Bolle del tre e del quattro maggio 1493.
Una circostanza di questa contesa, trasandata sinora dagli storici, e che, nonpertanto, fa conoscere naturalmente il carattere provvidenziale della linea segnata dalla demarcazione papale, deve qui trovar luogo.
Pare che la stessa Regina di Castiglia, vedendo già possibile il matrimonio dell’infante sua figlia primogenita coll’erede presuntivo di Giovanni II, per evitare ogni motivo di discordia col suo potente vicino, con cui era già legata in parentado, non fosse menomamente aliena dal consentire che il Santo Padre rivedesse le Bolle e le modificasse in un senso più vantaggioso al Portogallo. Isabella credeva cosa semplicissima, che, a richiesta di lei, il Santo Padre ristringesse un privilegio conceduto in suo favore: e reputava tanto sincera la cosa, che, scrivendo a Cristoforo Colombo il 5 settembre 1493, parlavagli di una rettificazione delle Bolle come di un fatto già ottenuto. La Regina di Castiglia univa le sue istanze a quelle di Giovanni II. Accordatesi così insieme le due parti interessate, parea che la modificazione della Bolla non dovesse tardare.
Ma quando nella Bolla di scompartimento il Santo Padre dichiarava di aver fatto la sua donazione per impulso spontaneo della propria liberalità, senza riguardo ad alcuna istanza, ed operando in virtù delle prerogative apostoliche, egli attestava una verità non meno formale che imponente. Perciò, rispettando egli stesso quella donazione incomparabile, indipendente d’ogni movente umano, ed a cui mostrava per primo, di riconoscere il carattere d’una benedizione divina, il Sommo Pontefice rimase immoto nella sua precedente determinazione: rifiutossi alle modificazioni proposte dalla Spagna, nè fece caso veruno degli ostinati richiami e delle supplicazioni ossequiose del Portogallo. Il Santo Padre aveva sentenziato in qualità di Capo della Chiesa; la sua parola già sussisteva nel tempo, irrevocabile come la perfezione e la indifettibilità. Tuttociò è strano e maraviglioso. In tale occorrenza il più gran santo e il più gran genio, associati, non avrebbero potuto far meglio di Alessandro VI. Tuttavia, affine d’imporre un termine a que’ lagni, e per provare l’immutabilità della sua risoluzione, il Papa pubblicò, il 26 settembre, una Bolla, colla quale, mentre confermava la sua donazione al Re di Spagna, la estendeva invece di restringerla. Questa Bolla assumette titolo dal suo oggetto, e fu chiamata, in diplomazia, la Bolla di estensione, Bula de extension.
Da quel punto la controversia si trovò ristretta fra le due corone.
L’ostinazione del Portogallo, e la condiscendenza della Spagna, la qual mirava a non alienarsi un alleato, cui nuovi legami di sangue dovevano stringerla sempre più, fecero che di comune accordo, esaurita ogni finezza diplomatica, fu deciso, in un trattato firmato il 7 giugno 1494 nella citta di Tordesillas, di stare a ciò che determinerebbe una commissione di dotti, composta in numero eguale di Castigliani e di Portoghesi, incaricata di correggere i pretesi errori della Bolla. Nondimeno, come se avesse sentito il pericolo di metter mano alla decisione pontificia, Isabella non si determinò che tardi, il 5 giugno, solo due giorni prima della firma del trattato, ad eleggere i suoi plenipotenziari; mentre fin dal dì 8 marzo il re di Portogallo aveva fatto la scelta de’ suoi. La Regina nominò, per la Castiglia, l’intendente generale della corona, don Enrico Enriquez, il commendatore di Leone don Gutierre de Cardenas, e il dottor Maldonado di Talavera, antico vice-presidente della dotta giunta a Salamanca. Il re Giovanni II aveva nominato pel Portogallo, don Ruyde Souza signore di Sagres, suo figlio don Joam de Souza, e il licenziato Arias de Almanada.
Quale fu il risultato della condiscendenza della Castiglia verso l’ambizione sospettosa del Portogallo, e che cos’avvenne del mutamento fatto alla decisione della Santa Sede?
Questa è cosa che vuol essere chiarita.
Quando approvava in Vaticano il calcolo fatto da Cristoforo Colombo nella cella della Rabida, quando faceva lo scompartimento dello sconosciuto e del futuro, accettando la linea di demarcazione indicata dal Rivelatore del Nuovo Mondo, il Papa, senza dirlo, dava alla Spagna la metà del nostro globo, il Nuovo Continente nell’integrità della sua estensione!
Non potendo credere a questa incomparabile immensità di munificenza, reputando assai da meno del vero la donazione della Santa Sede, consentendo a impicciolirla piuttosto che scontentare un vicino di cui bramava l’alleanza, la Castiglia secondò il Portogallo; e, disconoscendo il carattere apostolico e provvidenziale del privilegio ond’era stata insignorita, permise a’ suoi commissari di modificare coi loro calcoli i supposti errori della Bolla. I dotti Portoghesi con orgoglio mirabile, e i Castigliani con dabbenaggine egualmente mirabile, non facendo caso della deliminazion pontificia, come se non fosse mai esistita, non degnando pur di mentovarla od alludervi, convennero di tirare un’altra linea, corrente dal polo artico al polo antartico, che passava a trecento settanta leghe all’occidente delle isole del Capo Verde: questo era un indietreggiare di dugento settanta leghe la linea fissata dal Santo Padre.
Ora, in questo indietreggiamento di dugento settanta leghe, la proiezione della nuova linea, invece di arrivare al polo sud, senza tagliare alcuna terra, andava a scontrare il capo Sant’Agostino, e tutta la parte del Nuovo Continente che si avanza all’est nell’Atlantico.
Dunque:
Per avere disconosciuto l’apostolato di Cristoforo Colombo, per aver dubitato della scienza ispirata della Santa Sede, per essersi creduta più equa del Sommo Pontefice verso i diritti del Portogallo, per avere osato correggere la Bolla, la Spagna perdette il suo privilegio esclusivo sul Nuovo Mondo, e il vasto impero del Brasile fu acquistato al Portogallo.
Gli storiografi reali di Spagna si mostrano sorpresi della grandezza della dotazione assegnatale dal Santo Padre, e deplorano la debolezza della commissione, che, sotto pretesto di quel perfezionamento geografico, consentì a tale spostamento della linea. La più recente storia di Spagna, pubblicata in Francia1, riconosce altresì, che, per non essersi riferita in ciò alla Santa Sede, la Castiglia perdette il Brasile.
I commissari pienamente soddisfatti della loro scienza, passando sotto un disdegnoso silenzio la demarcazione papale, avevano preso il loro partito con una strettezza di vedute ed un’aridità degne di matematici. Noudimeno i loro prosontuosi calcoli non posavano sopra alcun dato cosmografico; laddove la linea tracciata dal Sommo Pontefice precisava un luogo de’ più importanti sulla superficie del globo, il più degno de’ nostri studi e delle nostre investigazioni. Tocco involontariamente da questa maravigliosa previsione della Santa Sede, il grande Humboldt ha notato la niuna significazione delle misure fissate dalla commissione dei dotti, la qual pretendeva di fare una divisione più ingegnosa o più esatta di quella di Alessandro VI. L’illustre Protestante dice, parlando de’ mezzi cercati allora per determinare sulla terra e sul mare una linea di demarcazione imaginaria: «lo stato della scienza e l’imperfezione di tutti gli strumenti che servivano sul mare a misurare il tempo o lo spazio, non permettevano ancora, nel 1493, la soluzione pratica di un problema così complicato. In tale stato di cose, papa Alessandro VI, arrogandosi il diritto di dividere un emisfero tra due potenti imperi, rese, senza saperlo, servigi segnalati all’astronomia nautica, ed alla teorica fisica del magnetismo terrestre.»
Notando altresì l’oltraggioso silenzio della commissione intorno alla linea di demarcazione pontificia, Humboldt dice più innanzi: «le linee delle deliminazioni papali meritavano di essere menzionate esattamente, perch’esse hanno avuto una grande influenza sugli sforzi tentati per perfezionare l’astronomia nautica e i metodi di longitudine.»
I nemici della Chiesa, e i detrattori del papato, mentre contrastano a questo il diritto di tal sorprendente donazione, son obbligati di confessare la sapienza del suo, operato, e la grandezza della rimunerazione concessa allo zelo cattolico della Spagna. Lo stesso Montesquieu, apprezzando nel suo complesso la decision pontificia, parla della «celebre linea di demarcazione,» e, secondo la sua espressione di magistrato, trova che in tal modo papa Alessandro VI «sentenziò di una gran controversia.» Dopo avere tentato sulle prime di accagionare d’imprudenza il limite decretato dal Sommo Pontefice, Washington Irving è costretto finalmente a rendere omaggio alla «linea di demarcazione da un polo all’altro, così saviamente segnata da Sua Santità.»
Sia pur uno di qualsivoglia credenza, e facciasi a considerar la cosa sotto qualsivoglia aspetto; in questa controversia venne fuori un fatto riconosciuto da tutti inconcusso; ed è che la Santa Sede ebbe più fede in Colombo di quello ne avesse la corte di Castiglia. Il rivelatore del globo fu meglio giudicato dalla Chiesa che dal Governo a cui si era dedicato; e perch’esso ardì mettere in dubbio l’infallibilità apostolica, e antepose la prudenza dell’uomo, e la sua pretesa scienza all’autorità sovrana, che aveva da principio invocata, la Spagna immiserì il proprio privilegio, e scemò senza saperlo la sua magnifica dotazione.
Se ci facciamo ad esaminare con occhio imparziale i documenti di questo conflitto fra le due potenze cattoliche, conflitto che la suprema sapienza del Papato aveva saputo prevenire, non ci possiamo trattenere da un sentimento di sorpresa e rispetto, veggendo come gli avvenimenti sieno venuti a giustificare ad un tempo le previsioni, la certezza e le benedizioni della Santa Sede. Qui la Chiesa aveva operato alla foggia della Provvidenza, che nelle sue ricompense supera sempre l’aspettazione umana. Per essersi arrogata far meglio della Provvidenza la Spagna perdette la miglior parte del dono stupendo ch’erale stato attribuito. Affina di castigare il suo orgoglio, Dio non fece altro che abbandonarla a se; l’adempimento de’ suoi voti e desiderii fu la sua prima punizione.
- ↑ Rosseeuw-Saint-Ililaire, Histoire d’Espagne, tom. VI, p. 116.