Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro II/Capitolo V
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO QUINTO
§ I.
Ciò che la Santa Chiara portava nel suo castello di pOppa, sotto nome di ammiraglio, era un corpo immobile, e senza coscienza dell’esser suo. ll 29 settembre la flottiglia entrò il porto cotanto desiderato: la colonia si allegrò del suo ritorno; che cinque mesi d’assenza avevano fatto temere che fosse perita. Finalmente dopo un sonno di cinque giorni e di cinque notti, una voce molto ben conosciuta dal cuore dell’ammiraglio lo trasse dal suo letargo. Risvegliandosi si trovò nelle braccia del suo secondo fratello, don Bartolomeo Colombo di cui non aveva da oltre otto anni avuto alcuna notizia. L’altro suo fratello Diego gli era presso porgendogli le più tenere cure.
L’ammiraglio si trovò sollevato da questo incontro insperato, e incontanente cominciò a riaversi. Per una natura sì amante e piena di squisita sensibilità, qual era quella di Colombo, la gioia del cuore doveva essere il rimedio più efficace. La soddisfazione dell’amore fraterno fu la medicina più acconcia. La Provvidenza aveva procacciato questa consolante sorpresa al suo servo: ei trovava ne’ suoi due fratelli un appoggio fedele, nel tempo, appunto, in cui i tradimenti e le nimicizie liberamente fomentate, gli rendevano più che mai necessario il loro attaccamento. Noi l’abbiamo detto, e avremo occasione di ripeterlo: nella vita prodigiosa di Cristoforo Colombo, tutto è esempio ed insegnamento: gl’incidenti che le si riferiscono, uomini e cose, hanno anch’essi la loro istruzione. La sua storia è il compendio dell’intera umanità. Se il quadro della famiglia del vecchio scardassiere di lana genovese è un modello da proporre ad ogni famiglia di operai, l’imagine della union fraterna, che strinse l’uno coll’altro i suoi tre figli con legami inalterabili per tutta la loro vita, non è meno confortevole ad ogni cuore gentile.
Siccome da questo punto i due fratelli di Cristoforo Colombo sosterranno un personaggio ragguardevole nelle cose della colonia, e parteciperanno alla vita politica dell’ammiraglio, non è inutile sapere, anzitutto, quali erano i due soccorritori che la Provvidenza mandava al suo messaggero.
Bartolomeo Colombo era partito da Lisbona nel 1483 per andare, in nome di suo fratello, a proporre al re d’Inghilterra la scoperta, che il Portogallo aveva ricusato d’intraprendere. La nave su cui trovavasi fu presa da pirati, che spogliarono interamente Bartolomeo, e, dopo condottolo seco, lo abbandonarono sopra una spiaggia sconosciuta. Gli bisognò tutta la energia di cui era fornito per uscir dalla miseria, in cui languì lungo tempo, e giungere a provvedersi delle cose necessarie per compiere il suo viaggio: consumò diversi anni in lavori ingrati, fabbricando sfere e carte pe’ marinai, prima di trovarsi in istato di potere sbarcare in Inghilterra. Quivi dovette primieramente imparare la lingua del paese, cercare di crearsi i mezzi onde vivere, procacciarsi qualche protezione, e istruirsi delle abitudini e del cerimoniale della corte. Solo a mezzo l’anno 1493 ottenne udienza dal re Enrico VII. Il monarca gradì i suoi progetti; per rendere la sua dimostrazione più sensibile, Bartolomeo aveva dipinto un bel mappamondo: il suo ragionamento fu così chiaro e concludente, che il Re accolse immediatamente quella idea, dichiarò d’incaricarsi di tutte le spese dell’impresa, e proposegli patti, che non sappiamo bene quai fossero; solo sappiamo che Bartolomeo partì incontanente in cerca di suo fratello.
Mentre andava in Ispagna, passando per Parigi, la nuova della scoperta del Nuovo Mondo e del ricevimento trionfale di Colombo arrivava a Londra. Il re di Francia, Carlo VIII, accolse con onore il fratello dell’uomo che aveva aggrandita la terra. Egli stesso raccontò a Bartolomeo quell’avvenimento, e l’elevazione di Colombo alla carica di ammiraglio, e di vice-re; Sapendo che andava in Ispagna, traversando i suoi Stati, gli fece graziosamente accettare cento scudi d’oro per sostenere le spese che fosse per fare nel suo regno.
Nonostante tutta la sua sollecitudine, Bartolomeo arrivò a Siviglia che l’ammiraglio già era partito pel suo secondo viaggio. Andò a prendere i nipoti Diego e Fernando da sua cognata donna Beatrice Enriquez a Cordova, ove studiavano; li condusse a Valladolid, e li presentò alla corte. La Regina trovò i due fanciulli ben educati, si congratulò col loro zio dell’eccellenti condizioni in cui li trovava, e, per finire di formarli, volle tenerli alla corte. Il fare marziale e cavalleresco di don Bartolomeo, la sua facilità ad apprender le lingue, il suo conversare, la sua esperienza piacquero assai al re Ferdinando, giudice eccellente delle doti del guerriero. La sua abilità qual marinaro fu riconosciuta. La Regina desidero di acquistarlo al suo Regno, così pel suo proprio valore, come per compiacere all’ammiraglio. Bartolomeo ricevette lettere di nobiltà e il comando delle tre navi che dovevano vettovagliare la colonia: mise alla vela, appena l’arcidiacono Fonseca n’ebbe finito l’armamento. Ma quando giunse alla Spagnuola, l’ammiraglio era partito per la sua esplorazione di Cuba: finalmente si riunirono: la sua presenza alla colonia era un soccorso inapprezzabile per l’ammiraglio, che tornava rifinito da inesprimibili fatiche.
Entrato in mare pochi anni dopo suo fratello, Bartolomeo Colombo aveva navigato molte volte con lui, e aggiungeva ai lumi della teorica la sicurezza della pratica. La sua fisonomia, ch’esprimeva sincerità e gioviale umore, quando era severa, si accordava colla sua alta statura, alla quale corrispondeva una gagliardia di atleta. Il suo esteriore ricordava gli eroi di bronzo usciti dagli stampi antichi. Di una intrepidezza cavalleresca, e abilissimo nel trattare ogni arme, egli sapeva colla coscienza della sua forza e colla maschia tranquillità del suo coraggio farsi rispettare da chicchessia. Lo si sarebbe detto nato al comando; ne aveva la sicurezza, la spontaneità, la precisione; e se il suo attaccamento non lo avesse indotto ad eclissarsi nella gloria di suo fratello, avrebbe potuto illustrarsi per suo proprio conto.
La fortuna di mare che lo gettò nudo in paese di cui ignorava la lingua, e da cui seppe sciogliersi a forza di coraggio, di paziente lavoro, di economia, e il modo con cui adempiè il suo messaggio, palesano abbastanza l’energia del suo carattere.
La sua parola era schietta e facile: la vivacità del suo stile non mancava di eleganza: in lui l’osservazione suppliva allo studio: parlava latino, italiano, portoghese, danese, inglese, spagnuolo: possedeva l’intuizione di fare ogni cosa in buon punto, l’istinto gerarchico dell’organizzazione, il tatto di governare. Quantunque fosse buon cattolico la sua pietà non era tenera ed elevata come quella di Cristoforo: ignorava le dolcezze della vita interiore; non rintuzzava sempre le aspre risposte carpite alla sua schiettezza, e gli scoppi della sua indignazione contro i cortigiani, i traditori, gli ostacoli che la vanità castigliana opponeva all’attuazione del bene.
L’altro fratello dell’ammiraglio, don Diego non somigliava a don Bartolomeo che pel suo attaccamento al primogenito. Nato mentre que’ due erano in mare da più anni, Diego Colombo non era robusto al pari di loro. La sua infanzia malaticcia bisognò di grandi riguardi. Le madri si affezionano ai loro figli in ragione delle cure che loro prestano, e delle inquietudini che loro costarono. Essendo don Diego l’ultimo nato di Domenico Colombo, il solo che fosse rimasto sempre a casa, Susanna Fontanarossa lo conservò teneramente accanto a sé quanto più potè: aveva compiuti i sedici anni quando entrò fattorino dallo scardassiere di Savona Luchino Cadamartori.
Quando l’ammiraglio tornò dal suo primo viaggio, Diego dismise il mestiere paterno, per obbedire al fratello che lo chiamava a sè: presentato alla corte, si trovò subitamente capace del suo nuovo stato. La sua tenera ammirazione per Cristoforo, l’osservazione de’ suoi esempi e delle sue raccomandazioni erudivanlo di ciò che gli stava bene sapere. La tenerezza di Diego ritraeva nobiltà dal sentimento religioso. Egli ammirava nel suo fratello primogenito la doppia preminenza del genio e della pietà; lo venerava per le sue virtù; perocchè Diego no nambiva fama, onori, ricchezze: la sua improvvisa elevazione non avevagli rigonfio il cuore, perchè il suo cuore apparteneva a Dio: viveva al secolo senz’amarlo, per pura obbedienza, perchè tal era la volontà di suo fratello, suo superiore, suo capo, che risguardava qual secondo padre: non aspirava che a servir Dio, e disimpegnava i varii officii assegnatigli dall’ammiraglio, come se quelle missioni gli fossero direttamente venute da Dio, come l’impiego che Dio voleva che egli adempiesse.
La sua inclinazione lo recava alla solitudine, allo studio delle lettere, che coltivava con ardore ogni qualvolta ne aveva agio. Alle cure dell’alta amministrazione avrebbe preferito la calma dell’oscurità; ma, pieno di rassegnazione, riponeva la sua felicità in servire il suo fratello primogenito. La vera sua gloria era suo fratello; in suo fratello consisteva ogni sua ambizione. Quanto a lui, non desiderava altro che di vivere ritirato, sconosciuto agli uomini, noto a Dio solo. Non pare che alcun amore terreno entrasse mai nel suo cuore. Nel segreto della sua dimora imitava i diportamenti claustrali dell’ammiraglio, recitava l’offizio ogni giorno, e si elevava sovente col pensiero al Cielo. Questo vivere pieno di annegazione, e questa esistenza volontariamente secondaria, moltiplicando senza sforzo i sacrifizi, assicuravano all’ammiraglio una vigilanza a tutte prove, mentre le doti gagliarde di suo fratello Bartolomeo mettevano a’ suoi ordini l’esperienza, la previdenza, la forza, a dir breve, i mezzi d’intraprendere e di eseguire.
§ II.
Oltre le notizie che don Bartolomeo aveva recato dalla Spagna, l’ammiraglio ne ricevette in breve di più fresche da Antonio Torres, il quale giunse conducendo quattro caravelle cariche di vettovaglie, medicinali, vesti, mercanzie, e menando pel servizio dello spedale un medico ed un farmacista, ed oltracciò operai e giardinieri. Le caravelle recavano altresì bestiame per formar greggi ed armenti, e diversi oggetti, gli uni destinati ai malati, e,in altri alla casa dell’ammiraglio.
Delicatamente ingegnosa nella sua sollecitudine pel rivelatore del globo, la Regina, ricordando la passione ch’egli aveva per le belle biancherie, pei profumi, per le cose semplici ma elette, e le frugali abitudini del suo vivere, volle essa medesima mettere assieme un supplemento di mobili e di provvigioni che avess’egli a trovare di suo gradimento. Queste cure graziose, spesso volgari, e solite ascondersi tra l’ombre della domestica vita, qui riescono a destare più grata emozione. L’amicizia della Regina si palesa nell’affettuosa previdenza della sua sollecitudine pel ben essere di Colombo: non fu mai tenuto conto di coteste intime corrispondenze tra quelle due anime nobilissime. Ecco ciò che mandava la Regina Cattolica al grande ammiraglio dell’Oceano.
Per la sua camera
Un letto di sei materassi coperti di tela di Brettagna, tre paia lenzuoli e quattro guanciali di tela fina di Olanda, una ricca coperta trapuntata, un piumino a frange; indi, come tappezzeria, in memoria dell’amore che portava a’ paesaggi ed alle cose boscherecce, una doppia tappezzeria rappresentante alberi di Europa, con due portiere della medesima stoffa, cioè figuranti i medesimi soggetti, e un tappeto da camera smaltato di colori brillanti, che figuravano fiori: due cofani ad uso d’armadi con coperta di drappo, quattro coperte di gala, e suvvi ricamato il suo stemma gentilizio: inoltre dieci quinterni di carta per la sua corrispondenza epistolare, e buona quantità di profumi, colla giunta di venticinque libbre di acqua di rose, e altrettante di acqua di fior d’arancio.
Per la sua mensa
Quattro paia di tovaglie fine, sei dozzine di serviette o tovaglioli, sei asciugamani, due casseruole d’argento, due vasi, una saliera e dodici cucchiai d’argento, dodici candelabri dorati, e trenta libbre di candele di cera.
Per suo uso
Cento libbre di riso con una libbra di zafferano condimento consueto della minestra di riso e del pilau appo i Genovesi; cento libbre di datteri, duecento di uve secche, cento di zuccaro bianco, cento di mele, cinquanta di confetture, una dozzina di vasi di diverse conserve, venti libbre di cedrati canditi, dodici vasi di zuccaro rosato, due olle di olive marinate, dodici faneghe di amandole, duecento libbre d’olio d’oliva, settantacinque di grasso porcino: sapendo quanto bisogno aveva d’uova perchè non ne fosse mai manchevole, la Regina gl’inviava cento galline e sei galli: finalmente perchè l’ammiraglio potesse mantener sempre l’unico suo lusso, la mondezza, gli mandava settantacinque libbre del più bel sapone.
Siccome Isabella non dimenticava mai nessuno, e d’altronde non ignorava le cure paterne dell’ammiraglio per tutte le genti della sua casa, spedivagli, espressamente per loro, dodici materassi, ventiquattro lenzuoli, dodici coperte, ottanta camicie, cento venti paia di scarpe, e cento aune di panno di Vitrè, con sei libbre di refe fino, e tre oncie di seta nera pel rattoppamento delle vesti.
Ma ciò che andava più diritto al cuore dell’ammiraglio era la soddisfazione che avevano provato i Monarchi, manifestantesi nella deferenza che gli mostravano in lor lettere: riconosceva al grazioso stile il vero pensiero della Regina. I Sovrani gli rispondevano con queste espressioni di lode, e quasi di rispetto: «Se noi fossimo stati presenti, avremmo preso il vostro parere.» Rendevangli conto de’ componimenti fatti col Portogallo, pel commercio sulla costa d’Africa, e della convenzione fermata il 7 giugno colla medesima Corte relativamente alla linea di demarcazione dell’Oceano: confermavano tutte le nomine fatte da lui ai diversi impieghi; approvavano tutte le sue dimande, accompagnandole d’un’ordinanza che intimava ad ogni Spagnolo stanziato nelle Indie di obbedire all’ammiraglio qual vice-re e governatore.
Gli ordini dati all’arcidiacono Juan de Fonseca, ordinatore generale della marineria, per la continuazione delle spedizioni d’ogni genere di provvigioni alla colonia, il progetto d’istituire un carteggio regolare. con Hispaniola, mandandovi ogni mese una caravella, provano apertamente l’intenzione di fondar quivi la signoria castigliana. Nelle sue preoccupazioni sull’avvenire della colonia, lsabella non poteva dimenticare la propagazione della fede cattolica, e la conversione degl’indigeni, primo oggetto della scoperta di que’ paesi: scriveva al padre Boil per risvegliarne lo zelo, e indurlo a persistere nell’impresa: procurava di evangelizzare l’indolente missionario, e lo assicurava, che con un po’ di buona volontà supererebbe le difficoltà della lingua.
Una lettera della Regina, del 16 agosto 1494, era particolarmente intesa a consolare l’ammiraglio, assicurarlo, ristorarlo colla espressione delle sue soavi simpatie.
Questa lettera, la prima che sia giunta dall’antico mondo nel nuovo, è di un’intima importanza per la storia di Cristoforo Colombo: essa ricorda il vero scopo della sua scoperta con sincerità cristiana: non vi ha modo di sospettare, come ha fatto altrove maliziosamente la scuola protestante, interessi politici nell’espressione di cosiffatti sentimenti religiosi; perocchè già, da oltre un anno, la Castiglia, merce le bolle pontificie del 3 e 4 maggio 1493, era legittimamente in possesso delle terre scoperte all’ovest nell’Oceano, onde ogni dimostrazione di zelo cattolico diventava superflua. D’altronde, questo carteggio amministrativo non era destinato ad altri che all’ammiraglio: ma il sentire interno scoppiava fuori dal cuore della pia Sovrana, parlando al messaggero della croce.
La Regina gli dice sulle prime: «abbiamo avuto gran piacere in leggere le cose che ci avete scritte: e per tutto questo rendiamo vive azioni di grazie a Nostro Signore. Speriamo che col suo aiuto quest’opera, ch’è vostra, sarà cagione che la nostra santa fede cattolica si distenderà grandemente.»
Cosi la gloria di Gesù Cristo, e l’accrescimento della sua Chiesa, ecco la prima parola di questa reale comunicazione. Prima di ogni particolarità di politico o commerciale interesse, si tratta della propagazione del Cattolicismo.
Dopo di avere, senza sua saputa, riconosciuto il vero scopo di Colombo, la Regina rende parimente testimonianza che quel grande concetto spetta per intero all’eroe. Isabella, che a que’ dì aveva seguito collo sguardo lo sviluppo, e pesate le obbiezioni de’ contraddittori, senza prevederlo confutava anticipatamente i detrattori futuri della gloria dell’ammiraglio. La sua preziosa testimonianza stabilisce, sin dal 16 agosto 1494, che l’idea, lo scopo e il piano della scoperta furono il frutto di un’ispirazione spontanea, maturata dallo studio, non già la esecuzione pratica di una meditazione straniera, e l’attuazione di un odioso plagio, come pretesero poscia i calunniatori.
La Regina dice: «e in tutto questo una delle principali soddisfazioni che noi gustiamo ella si è di sentire che questa impresa è stata concepita, divulgata ed eseguita dal vostro genio, dall’abilità vostra, dalle vostre fatiche. Pare a noi che tutto quello che, sin dalle prime proposte, voi ci avete detto che sarebbe avvenuto, si è nella maggior parte effettuato, così precisamente come se aveste veduto l’adempimento di ogni cosa prima di narrarcela.»
Isabella esprimeva a Colombo con qual piacere rileggeva le sue lettere, gli parlava della sua gratitudine per tali servigi, e del suo desiderio di contraccambiarli degnamente. Mentre lo ringraziava delle particolarità a lei scritte, mostrava desiderarne di più diffuse su quelle regioni di fresco aggiunte ai dominii della sua corona. Viva curiosità delle naturali cose, stimolata dal suo amore per le opere di Dio spingevala ad informarsi del numero, dell’estensione, della distanza rispettiva di quell’isole e dei nomi loro primitivi: la Regina domandava quali ne fossero le produzioni e la temperatura; perocchè correvano dispareri risguardo ai climi di quelle nuove contrade: si trascorreva perfino a pretendere che vi regnassero ogni anno due inverni e due primavere. Isabella si augurava di potere, trasportata in un baleno sotto que’ cieli luminosi, contemplarvi le magnificenze equinoziali, ammirare le splendide bellezze di quella natura cosi ricca da creare sofferenze a forza di lusso. Non potendo spingersi alla contemplazion materiale di quelle scene imponenti, voleva, almeno, che gliene fossero spediti i vegetabili, gli animali, sopra tutto gli uccelli; perocchè diceva ella con grazia fanciullesca, «vorremmo vederli tutti.» Comprendiamo come il fervente adoratore del Verbo, il contemplatore trascendente della creazione trepidasse di una tenera gioia all’espressione di questa comunanza di simpatia e di ammirazion religiosa: si figurava sotto le volte dell’Alambra, la Regina ritrattasi nelle sue stanze, colle sue due più intime amiche dona Beatrice, marchesa di Moya, compagna della sua gioventù, e dona Juana della Torre, scelta per alimentare col suo latte il reale infante, nobile triade animata ed illuminata dal genio d’Isabella; le vedeva cogli occhi del cuore occupate in esaminare le produzioni del Nuovo Mondo; si godeva della loro gioia, e condivideva al di la dell’Atlantico le loro emozioni.
§ III.
Epperò queste consolazioni non potevano rimediare al male che si era commesso durante la sua assenza.
Il comandante Pedro Margarit, che possedeva nelle istruzioni di Colombo per la colonizzazione spagnuola, tutti gli elementi possibili di forza, di vita, di prosperità, aveva tradito l’aspettazion dell’ammiraglio, e l’onor militare, e si era ribellato contro il Consiglio di governo. Invece di esplorar l’isola, egli era andato ad accantonarsi a dieci leghe dall’Isabella, allogando le sue genti ne’ villaggi degli Indiani, ove vivevano sciolti da ogni obbligo militare, mentr’egli correva in cerca di facili piaceri. I lamenti provocati dai soprusi de’ quali erano vittime gl’indigeni per opera di quella sfrenata soldatesca, giunsero a don Diego Colombo. Col parere del Consiglio, scrisse al comandante Margarit, ingiungendogli di eseguire gli ordini dell’ammiraglio: ma, invece di cedere a siffatti avvertimenti, Margarit rispose insolentemente, e trascorse semprepiù ad ogni sorta di eccessi: mostrava di avere a vile don Diego Colombo, andava all’Isabella quando gli garbava, e non si dava alcun pensiero del Consiglio, come se la sua spada fosse l’unica autorità dell’isola. I suoi soldati credevano di far onore agli Indiani rubando loro mogli, vettovaglie, oro; e consumando in pochi giorni viveri che sarebbero bastati a un terzo dell’anno.
Intanto, dopo di aver rovinato gli abitanti della Vega Reale, e fatto maledire il nome Spagnuolo nella più ricca regione dell’isola, Pedro Margarit spaventato di dovere render conto di ciò, tentò prevenire il ritorno dell’ammiraglio, fuggendo sulle navi condotte da don Bartolomeo. Siccome non poteva da sè solo impadronirsene, raccolse malcontenti, ed afforzò la sua fazione tirando a sè il padre Boil. Erano amendue catalani e non dipendevano dalla Castiglia: Pedro Margarit aveva violato tutti i suoi doveri di militare, e di capo di corpo: il padre Boil aveva dimenticato tutti i suoi doveri di sacerdote e di missionario. Questi due mormoratori, malcontenti di tutto, perchè ad ultimo erano malcontenti di sè, ingrossarono la loro fazione degl’idalghi che non potevano perdonare all’ammiraglio di averli costretti a lavorare: infamavano i Colombi, li dichiaravano uomini di ventura, stranieri, che si compiacevano ad umiliare i veri gentiluomini, per la ragione che i Colombi erano usciti dal volgo.
ll padre Boil fingeva di abbandonare la colonia per puro attaccamento ad essa: bisognava senza ritardo, diceva, andare a disingannare i Monarchi, persuasi che quel paese conteneva oro, aromi e spezierie, laddove non ingenerava altro che la febbre, e mali sconosciuti in Castiglia. Margarit e Boil macchinarono di partire, s’impadronirono di alcune navi ancorate nel porto, e fuggirono vilmente da veri disertori. Alcuni Religiosi, cui mera seduzione di veder cose nove aveva tirati alle Indie, si unirono a que’ due nella loro vergognosa diserzione.
La prima missione nel Nuovo Mondo fu sterile, perchè chi la dirigeva non ne avea vocazione, ned aveva consultato Dio: era venuto fra’ selvaggi per ordine della corte, come ad una missione diplomatica. Questo fatto, sul principio della scoperta, prova che nessuno è profeta se Dio non lo ha eletto, e che il ministero del Vangelo non è stato dato a tutti indistintamente. L’apostolato non si conferisce per nomina regia: per un mandato speciale occorre una vocazione speciale richiedente grazie eccezionali. Mentre il padre Boil non aveva provato che noia, aridità e disgusto delle sue funzioni, e, senza fare alcun bene, aveva cooperato a troppi mali, un povero monaco Francescano ed un religioso di san Girolamo, ch’erano venuti, ed erano quivi stati tratti da vera vocazione, in meno di un anno sapevano già la lingua più diffusa di Hispaniola, e provavano la consolazione di pubblicare la gloria di Gesù Cristo, e i dommi della Chiesa alle tribù indigene nel loro proprio idioma.
Diremo di più: la grazia evangelica non era stata concessa da Dio al padre Boil. Lo spirito di forza e di verità, che consacra l’apostolato non poteva discendere su quello statista catalano, perchè in realtà il Capo della Chiesa non aveva eletto lui a proprio Vicario Apostolico. L’ardimento di questa affermativa potrà sorprendere, e parer temeraria: nondimeno la sosteniamo. Noi andiamo debitori alla verità, alla dignità della Chiesa, e alla giustizia della storia, di chiarire finalmente questo fatto singolare, tenuto sinora al buio anche per gli Spagnuoli: faremlo con pochi detti, per non allentare il corso della narrazione.
Risulta da irrecusabili documenti, che il padre Bernardo Boil, catalano, monaco Benedettino, è andato alle Indie nella qualità di Vicario Apostolico. Questo è un fatto patente, autentico, indubitabile, che ammettiamo per inconcusso. Nondimeno costui non era l’eletto dalla Santa Sede.
Il re Ferdinando aveva, infatti, col mezzo del suo ambasciatore, fatto presentare alla elezione del Santo Padre, qual Vicario Apostolico delle Indie, il padre Bernardo Boil, Benedettino, molto conosciuto da’ suoi ministri, e familiare della corte di Aragona. Ma sapendo l’attaccamento di Cristoforo Colombo all’Ordine Serafico, e la partecipazione de’ Francescani alla scoperta, il Capo della Chiesa riservava quest’onore all’umiltà di un discepolo di san Francesco; e nominò spontaneamente, con Breve del 7 luglio 1493, qual Vicario Apostolico delle Indie, il frate Bernardo Boyl, provinciale de’ Francescani in Ispagna. D’altronde per la prima missione nel Nuovo Mondo, ci aveva, sopratutto, bisogno di ardente predicazione, di carità operosa, piuttosto che di salmodie in coro, di lavori di erudizione o di finezza diplomatica.
Quando giunse in Castiglia l’ampliazione della Bolla, il Re pensò che si fossero ingannati a Roma nel dinotare la persona, a motivo della somiglianza del nome; che cioè, il Papa avesse disegnato il frate Boyl volendo nominare il padre Boil: intanto, stringendo l’affare, non credette di dover ritardare la partenza della flotta per sì poca cosa, nè sospendere l’invio de’ missionari prima di aver ischiarito quel dubbio. ll padre Boil, Benedettino, presentato dal Re, ricevette avviso dell’arrivo della Bolla: nondimeno, onde risparmiargli gli scrupoli, non vennegli spedito l’originale dell’ampliazione, in cui si leggeva la vera designazione, sotto pretesto che non bisognava esporre agli accidenti del viaggio il prezioso documento, il qual fu trattenuto nella segreteria della camera reale. Noi dobbiamo aggiungere che da lungo tempo una mano prudente ha saputo fare sparire dagli archivi della Castiglia questo documento così importante; onde non ha potuto far parte della raccolta diplomatica pubblicata per ordine della corona di Spagna; e nemmeno fu trovato nelle carte di Simancas, ove conservasi la minuta della lettera di spedizione; ma l’originale della Bolla trovasi a Roma negli archivi segreti del Vaticano, e per la prima volta, il 7 febbraio 1851, n’è stata rilasciata copia, debitamente collazionata e certificata.
Fra Bernardo Boyl, provinciale de’ Francescani, in Ispagna, eletto Vicario apostolico delle Indie, non conobbe la propria nomina.
ll padre Bernardo Boil, scelto dal Re, fu mandato in cambio di fra Bernardo Boyl, eletto dal Santo Padre. Agli occhi di Ferdinando, non v’era nella sostituzione che ardiva permettersi altro che una rettificazione d’indirizzo: non vedeva in ciò di mutato che una lettera nel nome, e un titolo nella persona; Boil invece di Boyl, un Benedettino invece di un Francescano: lasciando stare questa differenza di ortografia e di abito, era sempre un religioso, un uomo di costumi irreprensibili; insomma non trovava alcun inconveniente nel mandare alle Indie un Benedettino assai conosciuto a corte, invece di un Francescano che probabilmente vi era ignoto.
Ma non è lecito pigliarsi giuoco dello spirito della Chiesa, nè l’abilità umana unqua vinse la sapienza di Dio: la Bolla del Santo Padre non giunse al suo indirizzo; e vedemmo quel che ne avvenne.
Se fosse stato compenetrato dello spirito della sua regola, e dedito alla preghiera, come lo era allo studio quel Benedettino avrebbe potuto riuscire di edificazione e salute al Nuovo Mondo, anche servendo la Spagna col suo accorgimento diplomatico; ma investito dal Re di un mandato spirituale, contro la designazion pontificia, non ricevette l’assistenza invisibile che avrebbe fecondata l’opera sua, onde questa fu fiacca e inefficace; e discostandosì dalla sua vocazione, l’orgoglioso soppiantatore cadde in deplorabili erramenti. Mentre il suo titolo di Vicario Apostolico l’obbligavaa dar l’esempio del coraggio, dell’annegazione, della tenera carità, e della costanza nelle prove, ei si mostrò tepido e vile; missionario senza virtù, sacerdote senza dignità, cittadino senza obbedienza, fece disonore al suo Ordine, diventò l’eco delle maldicenze, il consigliere de’ cospiratori; e, per ultimo, aggiunse vergognosamente all’abbandono civile la diserzion religiosa.
Complice del padre Boil, il comandante Pedro Margarit, in abbandonare il suo posto non aveva neppure provveduto a delegare i suoi poteri a qualcuno de’ suoi ufficiali. Trovandosi i soldati in balia di sè medesimi, si sbandarono moltiplicando gli oltraggi e le rapine, onde già opprimevano gli Indiani. Fin allora gl’indigeni si erano sottomessi alla forza: ma quando videro gli Spagnoli indeboliti da intestine discordie, macchinarono di ricominciare le scene sanguinose del fortino. Ad eccezione di Guacanagari, che, trattenuto sempre dal suo attaccamento per Colombo, soffriva, e faceva soffrire a’ suoi sudditi il mantenimento ruinoso di cento soldati impudentemente domiciliati sulle sue terre, i cacichi erano esasperati in vedersi oppressi a quel modo, e risolvettero di supplire col numero all’inferiorità delle armi.
I re di Xaragua, dell’Higuey e della Vega si collegarono col Signore della casa d’oro per esterminare d’un colpo, su tutti i punti dell’isola, que’ superbi ladroni. Diventato sospetto a motivo della sua ospitalità, Guacanagari non fu ammesso nella congiura, venne trattato anzi qual nemico: Caonabo, aiutato da suo cognato, lo assalì improvvisamente, e riuscì a rapirgli una delle sue donne e ad uccidere quella che amava maggiormente, la bella dona Catalina, che, per unirsi con lui erasi dalla Graziosa Maria gettata in mare. In diversi punti dell’isola furono scannati Castigliani. Il cacico Guatiguana ne fe’ trucidare dieci che abitavano le rive del gran fiume; indi incendiò la gran casa che serviva d’ospedale agli Spagnuoli, dove si trovavano allora da quaranta malati con febbre, o convalescenti.
Caonabo, distruttore del fortino, risolvette di uccidere tutti gli stranieri, fece alleanza coi Ciguaiani, la battagliera tribù del nord-ovest, che, esposta alle scorrerie dei Caraibi, aveva contratta l’abitudine delle armi; e d’improvviso co’ suoi guerrieri si presentò dinanzi al forte di San Tomaso, comandato da Ojeda, il quale non aveva sotto i suoi ordini che cinquanta uomini.
Ojeda, la cui prodezza era proverbiale nella colonia, sapea far la guerra; manteneva strettamente la disciplina, faceva pattuglie la notte, vigilava le sentinelle, e, difeso dal fiume Esaque, se ne stava chiuso nella sua rôcca senza temere di scalata. Caonabo riconobbe l’impossibilità di sorprendere la sua vigilanza e di tentare un assalto; si provò, quindi, di affamare la guarnigione: occupò le foreste intorno; s’impadronì di tutti i sentieri che menavano alla fortezza, imboscando numerose coorti ne’ passi che supponeva dover essere corsi per vettovagliare. Ojeda scemò le razioni e aspettò con una stoica pazienza gli effetti della noia su que’ nemici, cui l’osteggiare al sereno, in quella freschezza delle notti, doveva recare gran disagio. Per non lasciarli gustare le dolcezze di un troppo lungo riposo, faceva all’improvviso sortite, nelle quali la furia del suo attacco cagionava grandi stragi. I più intrepidi isolani erano precisamente quelli che cadevano sotto le cariche de’ cavalli Spagnuoli, perocch’essi soli tentavano resistere.
Il Signore della casa d’oro duro fermo nel suo blocco trenta giorni.
Finalmente, vedendo che la sfiducia e le malattie gli diradavan le file, Caonabo si ritirò in silenzio, e disegnava fare, le sue vendette sull’Isabella. Serpeggiando, come rettile sotto l’erba, nascoso nel profondo de’ boschi, giunse segretamente ne’ dintorni della città, facendo di notte il giro delle mura in cerca del punto più debole: spinse l’audacia fino ad entrarvi di pieno giorno, fingendosi amico agli Spagnuoli. Cosi potè riconoscere che l’Isabella era sguernita di soldati, che vi si vedevano assai più malati che genti in buona salute, e che i soldati disseminati alla lontana non potrebbero soccorrerla.
Tali erano lo conseguenze del mal procedere di Pedro Margarit, e delle diffamazioni del Padre Boil; tali erano le paurose congiunture nelle quali Colombo tornava nell’isola allor appunto ch’ei soggiaceva al maggior bisogno di riposo fisico e morale.
Voci inquietanti giungevano intanto a lui da diverse parti. In quel mentre il re Guacanagari venne all’Isabella. Menato al letto su cui l’ammiraglio giaceva, mostrò dolore profondo di trovarlo malato. Tornò sui tragici fatti del fortino, e nuovamente protestò piangendo che non aveva potuto impedire quella sciagura; gli ricordò ch’era suo amico, e che, appunto per questo, gli altri cacichi lo trattavano qual nemico: gli rivelò la congiura ordita per lo sterminio degli Spagnuoli; gli chiese assistenza contra de’ vicini diventatigli suoi nemici; e gli offrì di secondarlo con ogni sua possa.