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La neve durò parecchi giorni; più disastroso fu un periodo di pioggie torrenziali che per quattordici giorni diluviarono ininterrottamente, accompagnate da raffiche di scirocco quasi calde. Adesso il fumo non tentava neppure di uscire dalla cucina; la pioggia penetrava dalle finestre, sgocciolava dai tetti; una vera sorgente scaturì dalla cantina e il signor Antonio dovette in fretta far costruire dal fabbro-stagnaio un tubo di ferro e prendere due uomini per scaricare l’acqua della cantina nella strada. Anche la strada era diventata un torrente; l’orto uno stagno: si aveva l’impressione di essere in una barca che faceva acqua da tutte le parti.

Poi le ragazze si ammalarono: anche Cosima si sentì stringere la gola, fu assalita da una febbre altissima e cominciò a sognare le cose più strane e spaventose. Giaceva nel letto della camera a pian [p. 36 modifica] terreno, e nei momenti di lucidità vedeva il viso pallido della madre piegarsi sul suo e ne provava un senso di frescura come se una ninfea umida la sfiorasse: ma un giorno, il giorno di Sant’Antonio, grosse gocce di rugiada parvero cadere da quel fiore: era ardente, però, quella rugiada; e Cosima ne sentì anche il sapore salato: il sapore del più grande dolore che possa colpire una donna.

Venne una parente, per domandare come stavano le ragazze; entrando, per non dimostrare inquietudine, domandò con voce allegra:

— Oggi è la festa del padrone di casa: farete banchetto: dov’è il porcellino di latte?

— Il porcellino per la festa è su, in camera delle bambine, — disse la madre, con voce rauca.

E la parente andò a vedere: era morta Giovanna, la più bella di tutte le cinque sorelline.

Dopo la morte di Giovanna, l’umore della mamma cambiò. Era stata sempre seria; adesso diveniva melanconica, taciturna, chiusa in un mondo tutto suo; badava ai figli e alle cose domestiche, ma con una freddezza quasi meccanica, con scrupoli di un dovere dal quale non si aspetta nessun premio. Era giovane ancora, bella, ben fatta, sebbene di piccola statura; ma a volte sembrava vecchia, piegata, stanca. Forse il mistero della sua tristezza derivava dal fatto ch’ella si era sposata senza amore, ad un uomo di venti anni più vecchio di lei, che la circondava di cure, che viveva solo per [p. - modifica]GRAZIA GIOVINETTA [p. 37 modifica] lei e la famiglia, ma non poteva darle la soddisfazione e il piacere dei quali tutte le donne giovani hanno bisogno.

Ed ella non poteva procurarseli fuori del recinto domestico: non poteva, per dovere innato. Aveva una volta amato? Si diceva che, sì, prima di sposarsi, avesse corrisposto ad un giovine povero: nessuno sapeva però chi era, e forse neppure esisteva. Ci sono mole donne che vivono del ricordo di un amore fantastico; e l’amore vero è per esse un mistero grande e inafferrabile come quello della divinità.

Inoltre la famiglia della mamma era tutta un po’ strana. Il padre, d’origine straniera, chi diceva genovese, chi addirittura spagnuolo, aveva fatto un po’ tutti i mestieri: in ultimo, proprietario di una casa e di un piccolo podere nella valle, si era ritirato in questo, in una capanna, e viveva da eremita, coltivando la poca terra e allevando uccelli e gatti selvatici. Eppure i figli erano venuti su bene, perché la loro piccola madre li educava santamente: uno era prete, l’altro segretario comunale in un paese del circondario: le figlie sposate: ma tutti avevano un carattere diverso da quello degli abitanti del luogo; mattoidi, li chiamavano, questi altri abitanti beffardi e scrutatori, mentre i figli dell’eremita erano distratti e sognatori e quando parlavano dicevano sempre parole di tagliente verità. [p. 38 modifica]

Fra questa gente e in questo ambiente è cresciuta dunque la piccola Cosima: adesso ha sette anni e va anche lei a scuola, con la sorella maggiore che ripete la quarta elementare. Il viaggio, per arrivare al Convento che serve da scuola, è tutto avventuroso per lei: bisogna scendere per strade anguste male selciate, attraverso casette di povera gente, fino alla piazza, dove è il quartiere aristocratico, con case alte, balconi, tende inamidate alle finestre. Siedono per terra, in un lato della piazza, le erbivendole coi loro cestini di verdura: per lo più sono serve, che vendono i prodotti degli orti dei loro padroni, e raccontano i fatti di questi; a volte c’è anche un carro che viene dai paesi della costa, carico di pesce, o di cocomeri e di melloni; allora è un accorrere di compratori golosi, e lo stesso signor Antonio, se gli capita, acquista un chilogramma di cefali o un popone fragrante e lo porta a casa dentro il fazzolettone a scacchi.

Dalla piazza lo stradone provinciale, che attraversa il paese, prende il nome di Via Maggiore: c’è un lungo palazzo signorile, che con le sue logge e i suoi cornicioni forma la meraviglia di Cosima; c’è, più giù, il caffè con le porte vetrate e, dentro, gli specchi e i divani, altra meraviglia di Cosima: e qua e là negozi e mercerie, botteghe di panno e botteghe di commestibili: ma quella che più interessa la nostra scolaretta è la libreria del signor [p. 39 modifica] Carlino, dove si vendono i quaderni, l’inchiostro, i pennini; tutte quelle cose magiche, insomma, con le quali si può tradurre in segni la parola, e più che la parola il pensiero dell’uomo. Qualcuno di questi segni straordinarii Cosima lo sa già tracciare, perché lo zio Sebastiano glielo ha insegnato; in modo che ella non va alla prima, ma addirittura alla seconda elementare. Il Convento ha due ingressi, uno per i maschi e l’altro per le femmine: a questo si sale per una breve scaletta esterna, e si entra in un lungo corridoio chiaro e pulito sul quale si aprono le aule: piccole aule che sanno ancora di odore claustrale, con le finestre munite d’inferriata, dalle quali però si vede il verde degli orti e si sente il fruscìo dei pioppi e delle canne della valle sottostante. Uccellini verdognoli si posano sui davanzali, le nuvole color di rame dei primi giorni di ottobre passano sul cielo basso di un azzurro intenso eppure luminoso, e la voce della maestra risona nel silenzio come quella del mandriano che su una china alpestre richiama le caprette sbandate. E delle caprette dai grandi occhi liquidi di un colore azzurrognolo, le ragazzine, una quindicina in tutto, hanno la voglia di evadere dal recinto ove si pascola l’erba del sapere, per precipitarsi nei meandri della valle e arrampicarsi sui pioppi lungo il torrentello ancora asciutto. Sono quasi tutte ragazzine un po’ selvatiche, sebbene alcune, come Cosima, di famiglie benestanti e quasi [p. 40 modifica] signorili: le sue compagne di banco sono però figlie una di pastori, l’altra di un fabbro che venuto da un paese lontano sulle prime dovette, per la sua grande povertà, prendere alloggio in una grotta poco distante dal paese, poi a poco a poco fece fortuna e adesso ha una bella casa e un’officina che lavora giorno e notte. Anche la maestra non è del luogo; anzi viene di molto lontano, d’oltre mare, e la chiamano appunto la Continentale: è una donna ancora bella, coi capelli biondi crespi, ma irascibile e nervosa. Cosima sola ha da lei una accoglienza buona e gentile: la bambina però, istintiva, prova subito un senso di diffidenza per quella signora dalla voce grossa e gli occhi vuoti, e rimane ferma, rigida, al suo posto accanto alla finestra.

Per nove mesi dell’anno ella occupò quel posto, profittando delle lezioni più di ogni altra scolaretta; era una delle più piccole, ma la più brava, e quando veniva l’ispettore era sempre lei l’interrogata. E faceva bella figura, sebbene l’uomo, con una grossa testa carducciana, scuro il viso, le destasse un brivido di spavento: ma anche di ammirazione: poiché egli era l’arca santa del sapere, colui che davvero poteva interpretare le carte scritte e le pagine stampate come i sacerdoti i libri sacri. E Cosima aveva una gran voglia di sapere: più che i giocattoli l’attiravano i quaderni; e la lavagna della classe, con quei segni bianchi che la maestra vi tracciava, e che aveva per lei il fascino di una [p. 41 modifica] finestra aperta sull’azzurro scuro di una notte stellata.

Fu promossa senza esame: la maestra le consegnò una letterina per il signor Antonio, con la fausta notizia; ed ella la portò a casa sventolandola ogni tanto come una bandiera di trionfo; tanto che la sorella maggiore le dava, per il dispetto, pizzicotti e spintoni; ma quando il padre aprì il messaggio rimase piuttosto freddo, ed anzi un sorriso sarcastico gli strinse le labbra sottili: poiché la signora maestra, il cui marito era un noto ubriacone, e anche lei, si diceva, non sdegnava qualche bicchierotto di vino buono, gli chiedeva denari in prestito. Questa fu una delle prime commediole tragiche della realtà che diede a Cosima una lezione pratica della vita.


Gli altri anni di scuola passarono presto: tre in tutto, poiché la quarta classe fu ripetuta, ed ella ebbe facilmente il primo premio, consistente in un libro del Tommaseo con la copertina bianca fregiata di oro. Adesso aveva dieci anni, e la sua precocità gliene accresceva qualcun altro.

Due bizzarre famiglie, disordinate e forestiere tutte e due, erano intanto venute ad abitare nel piccolo quartiere; una era quella di un armaiolo, cacciatore infaticato, che quando era in casa faceva rintronare i dintorni con gli urli contro la moglie e le figlie giovinette. Da queste ragazze, che già avevano girato un bel po’ di mondo, Cosima [p. 42 modifica] apprese i misteri che fanno della donna e dell’uomo un essere solo: non ne fu molto turbata, perché i suoi sensi erano chiusi ancora in un boccio che la vita castissima della sua famiglia non tendeva certo a far fiorire. Ma le cose, specialmente della natura, le apparvero già in un barlume nuovo, come di aurora che segue l’incerto biancore dell’alba. Ecco, più che le confidenze a bassa voce delle sue amichette straniere, la colpiscono i diversi profumi del piccolo orto; quello dei gigli, sopra tutto, e delle rose; ella chiude gli occhi nel piegare il viso sui fiori appena sbocciati, e quel misterioso senso subcosciente di una vita anteriore, che prova nel vedere la nonnina, la riprende più forte. Già ella ne capiva qualche cosa, e tentava di spiegarsela, vagamente, come si cerca d’interpretare i sogni. Anche leggendo già di nascosto i libri del fratello maggiore, e quelli che esistevano in casa, pensava a una vita lontana, diversa dalla sua, e che pure le sembrava di aver un giorno conosciuto. Così, a quell’età, lesse i primi romanzi: uno dei quali era I Martiri di Chateaubriand, che lasciò nella sua fantasia una traccia profonda.

Non è detto però che anche nel suo ambiente la vita non cominciasse a mostrarle la faccia della realtà, e gli avvenimenti non prendessero, a volte, colori e movimenti insoliti.

Uno dei fatti più impressionanti e dolorosi fu la scoperta fatta un giorno dal padre, di denari che [p. 43 modifica] mancavano dal suo cassetto chiuso a chiave. Egli non si ingannò un attimo solo: chiamò il figlio Andrea, che allora aveva sedici anni, e lo interrogò a lungo. Andrea era rimasto un ragazzo basso e robusto, senza voglia di studiare, e frequentava altri ragazzi di famiglie paesane, benestanti e prepotenti. Alcune donne di malaffare, appollaiate in certe casupole del quartiere di San Pietro, il più schiettamente popolare della cittadina, attiravano questi giovanetti esuberanti di vita e abbandonati a se stessi.

Il signor Antonio, un po’ tardi, si avvedeva di aver dato anche lui troppa libertà al ragazzo, buono e generoso in fondo, ma con tutti gli istinti di una razza ancora primitiva. Un furore muto, alimentato di rimorso, di paura per l’avvenire, di propositi di fermezza e di repressione ad ogni costo, lo sostenne nel lungo interrogatorio che fece ad Andrea. Il giovane negava di aver preso i denari: allora il padre lo perquisì; gli trovò alcune monete e la chiave che apriva il cassetto. Andrea continuava a negare.

Allora il signor Antonio prese una corda e la lanciò ad una trave della cucina: chiuse le porte e le finestre, mandò fuori le donne. Disse con calma:

— Vedi, Andrea: io stesso farò giustizia immediatamente, se tu non riconosci la tua colpa. Ti impiccherò con le mie mani.

E l’altro confessò. [p. 44 modifica]

Tutto parve cancellato: eppure un’ombra rimase sopra la famiglia: poiché padre e figlio erano d’improvviso apparsi in una luce di terrore e di morte. La madre si fece ancora più triste: Cosima si piegò come uno dei suoi gigli sciupati dal vento.

Ma il giovane parve immediatamente emendarsi. Dichiarò che non voleva proseguire inutilmente gli studi, e desiderava lavorare. Allora il padre pensò di associarlo ai suoi affari: lo mandò a sorvegliare le lavorazioni di carbone e di cenere che aveva sui boschi della montagna, non solo, ma lo fece partire per un viaggio d’istruzione commerciale, con lettere di presentazione e raccomandazioni ai suoi corrispondenti di Napoli e di Livorno.

Anche Santus era fuori: già da due anni frequentava il liceo di Cagliari, e prometteva di diventare un bravo dottore in lettere o in medicina. Preferì quest’ultima, pure non abbandonando i suoi studi e i suoi gusti letterari. Quando tornava per le vacanze era un ampio respiro di nuova vita che animava la casa. Portava libri e regali, ed era vestito con modesta ma accurata eleganza. Ed era bello, col viso fine che sembrava quello di una razza diversa dalla sua, i grandi occhi chiari, trasparenti di intelligenza e di bontà. Non parlava molto, ma parlava bene, e aveva già una cultura larga e profonda, aiutata da una memoria straordinaria. E quello che più stupiva in lui era la serietà, quasi [p. - modifica]ANTONIO DELEDDA, PADRE DI GRAZIA [p. 45 modifica] l’austerità dei costumi: non fumava, non beveva, non guardava le donne: studiava sempre, anche durante le vacanze.

Qualche volta veniva a cercarlo un suo compagno di studi; Antonino, si chiamava, un bellissimo giovane bruno dall’aria un po’ beffarda, vestito inappuntabilmente alla moda di allora, – cappellino di paglia con nastro di tulle e veletta all’estate, mantello azzurro d’inverno, drappeggiato con eleganza dannunziana, – (almeno così Antonino dava ad intendere, chiamando fraternamente col solo nome di Gabriele il giovanissimo poeta che aveva degnato di una sua visita il paese di Cosima).

Anche lui, Antonino, apparteneva ad una famiglia mista, fra borghese e paesana: la madre e le sorelle vestivano in costume, mentre lui e i fratelli, tutti studenti, avevano quasi un’aria aristocratica. Il padre, veramente, era esattore d’imposte, un uomo rude, taciturno, poco pratico della lingua italiana (come i maggiori signori del resto), di mirabile animo e nobiltà. Ben caratteristica era la loro abitazione, l’ultima del paese, costituita da fabbricati bassi che davano su un cortile chiuso, e dove, oltre la loro famiglia, vivevano altri parenti, con numerosi ragazzi: una specie di clan, ma di gente incivilita, anzi, intelligentissima. I ragazzi studiavano tutti, ed erano caustici, osservatori, beffardi. Una bella vigna che guardava sulla valle e [p. 46 modifica] verso i monti a nord, in dolce pendìo, era attigua alla casa: più tardi il padre di Antonino costruì in un angolo di questa vigna una casina alta, dove lo studente, nelle poche settimane che rimaneva in paese, viveva come in una torre d’avorio, studiando, o fingendo di studiare.

Fu il primo, il lungo amore di Cosima. Quando egli veniva a cercare Santus, ella si nascondeva, presa dal terrore che egli potesse rivolgerle un semplice sguardo. Ma non c’era pericolo: egli passava accanto a lei e alle altre ragazze anche maggiori e più belle ed esperte di lei, senza neppure vederle; e se veniva a cercare Santus era perché con lui poteva parlare delle cose e delle persone conosciute nella città dei loro studi; e perché Santus, poi, lo attirava con la sua singolare intelligenza e la sua originalità.

Adesso, poi, il futuro medico, si dedica insolitamente ad altre cose all’infuori dei suoi studi. Costruisce, per esempio, un pallone volante, come li chiamavano allora, e riesce a meraviglia: nessuno conosce il segreto del suo apparecchio; ma è certo che il pallone, di carta-seta, per il cui finanziamento Santus è riuscito a farsi dare qualche sussidio dalla madre, un bel giorno sale dal cortile della casa, leggero e colorato come una grande bolla di sapone; vola sopra il paese, richiamando l’attenzione e l’ammirazione di tutti, sparisce, non ritorna. Qualche giorno dopo si seppe che era sceso, [p. 47 modifica] senza incendiarsi, in un angolo della montagna. Alcuni piccoli pastori di capre lo avevano veduto librarsi sopra le roccie, illuminato dal tramonto, credendolo una cosa sovrannaturale, e, nel vederlo scendere, si erano inginocchiati presi da terrore superstizioso, gridando: «È lo Spirito Santo, è lo Spirito Santo».

Lusingato da questo successo, lo studente ne tentò un altro. Costruì una ruota pirotecnica, che doveva innalzarsi come il pallone e accendersi con fuochi artificiali di sorprendente effetto. Alcuni razzi di prova riuscirono bene: guizzarono in alto, una sera di agosto, si aprirono in meravigliosi getti di fiori incandescenti: ma quando si trattò di issare e far funzionare la ruota, questa s’incendiò, con grande spavento della famiglia, e il giovine inventore ne ebbe una mano e un braccio gravemente ustionati. L’insuccesso e il male lo avvilirono: dovette mettersi a letto, e per placargli le sofferenze e farlo dormire, il dottore gli ordinò una miscela alla quale era mescolato del cognac. Egli si addormentò; ma come se gli avessero propinato una bevanda magica, si svegliò stordito, e quando le sofferenze della sua scottatura lo tormentavano, si preparava la bevanda e ricadeva in sopore. Il suo umore cambiò: divenne irascibile e pigro, trascurò i suoi libri, si assentò per intere giornate da casa senza dire dove andava. Solo la compagnia di Antonino pareva piacergli: si chiudevano [p. 48 modifica]per lunghe ore nella camera alta della casa, e se Cosima, con la forza della curiosità e della passione, riusciva a mettersi in ascolto nel pianerottolo li sentiva leggere ad alta voce e commentare e discutere di cose letterarie. Antonino recitava i versi ultimi del suo diletto poeta: una mattina la sua voce risonò più alta del solito, e nell’umile sereno silenzio della piccola casa patriarcale, si diffuse come una musica che raccontava di città lontane, luminose di fontane, di statue, di giardini, popolate solo di amanti, di donne bellissime, di gente felice.

    Quante volte, in su’ mattini
chiari e tiepidi io l’aspetto!
Ella ancora ne’l suo letto
ride ai sogni mattutini.

    Su la piazza Barberini
s’apre il ciel, zaffiro schietto.
Il Tritone del Bernini
leva il candido suo getto.1

Intorno a quel tempo morì la nonnina.

  1. [p. 224 modifica]Quarto rondò dell’«Intermezzo melico» di Isaotta Guttadauro di G. d’Annunzio: primamente apparso coi tipi della [p. 225 modifica]«Tribuna», Roma, Natale 1886. Su d’A. citato con onore dalla D. vedi Tipi e paesaggi sardi, nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1901. Nel romanzo Colombi e sparvieri (1912) il protagonista adolescente parla, cap. VII, delle sue letture dannunziane: «I romanzi e le novelle di G. d’A. ci rivelavano un mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piene di fiori velenosi e di frutti proibiti... In quel tempo rileggevo Terra vergine e sognavo grandi fiumi luminosi, tutto un paesaggio caldo e fantastico, con isole coperte di canne e di giuncheti ombreggiate da boschi di salici e di pioppi, velato di vapori rosei e popolati di donne belle e voluttuose: e queste donne le vedevo coperte anch’esse di veli fluttuanti, coi capelli sciolti e gli occhi in color di viola come il cielo del crepuscolo. Il mondo reale intorno a me era invece nitido e duro; un mondo fatto di rocce e di macchie dai rami contorti... e le donne erano vestite di nero e di giallo, di panno ruvido...». La D. nutrì sempre una viva ammirazione per il grande scrittore abruzzese. Da ragazzetta era innamorata del De Amicis. Avrebbe voluto avere (Frammenti di memorie infantili, nel volume Nell'azzurro, raccolto nel 1890) «la penna d’uno dei nostri più grandi scrittori — del De Amicis, per esempio — per scrivere le memorie della mia infanzia». Ma poco più tardi, in Fior di Sardegna (pag. 218), con maggiori ambizioni, «oh la penna, la penna di Victor Hugo per un’ora sola, per descrivere queste lotte interne, queste tempeste in un cranio...». Sulle prime simpatie letterarie della giovinetta Grazia vedi Stella d’Oriente in «Avvenire di Sardegna», Cagliari 1889: vi si fanno i nomi di Moore, Byron, Hugo, Dumas, Sue («gran romanziere glorioso o infame secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l’anima poetica di un’ardente fanciulla»), Cavallotti. Più tardi lesse Balzac, Amiel, Scott, Manzoni, Grossi, Guerrazzi, Pellico, Metastasio, Goldoni; poi s’accostò ai contemporanei: Fogazzaro, Verga, Stecchetti, d’Annunzio, Ada Negri, Aurelio Costanzo, poi ad altri stranieri: Carmen Sylva, Elena Vacarescu, Turgheniev, Gogol, Tolstoi, Gorki. Più tardi ancora si appassionò di Dostoievschi.