lino, dove si vendono i quaderni, l’inchiostro, i pennini; tutte quelle cose magiche, insomma, con le quali si può tradurre in segni la parola, e più che la parola il pensiero dell’uomo. Qualcuno di questi segni straordinarii Cosima lo sa già tracciare, perché lo zio Sebastiano glielo ha insegnato; in modo che ella non va alla prima, ma addirittura alla seconda elementare. Il Convento ha due ingressi, uno per i maschi e l’altro per le femmine: a questo si sale per una breve scaletta esterna, e si entra in un lungo corridoio chiaro e pulito sul quale si aprono le aule: piccole aule che sanno ancora di odore claustrale, con le finestre munite d’inferriata, dalle quali però si vede il verde degli orti e si sente il fruscìo dei pioppi e delle canne della valle sottostante. Uccellini verdognoli si posano sui davanzali, le nuvole color di rame dei primi giorni di ottobre passano sul cielo basso di un azzurro intenso eppure luminoso, e la voce della maestra risona nel silenzio come quella del mandriano che su una china alpestre richiama le caprette sbandate. E delle caprette dai grandi occhi liquidi di un colore azzurrognolo, le ragazzine, una quindicina in tutto, hanno la voglia di evadere dal recinto ove si pascola l’erba del sapere, per precipitarsi nei meandri della valle e arrampicarsi sui pioppi lungo il torrentello ancora asciutto. Sono quasi tutte ragazzine un po’ selvatiche, sebbene alcune, come Cosima, di famiglie benestanti e quasi signo-