Contro Wagner/Nietzsche contro Wagner
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NIETZSCHE CONTRO WAGNER.
Giustificazioni d’uno psicologo.
PREMESSA.
I capitoli seguenti sono stati scelti, e non senza cautela, dai miei scritti antecedenti (alcuni risalgono al 1877), resi qua e là più intelligibili, forse, e sopratutto abbreviati. Letti di sèguito non lasceran dubbio alcuno nè su Riccardo Wagner nè su me: noi siamo antipodi. Vi si vedrà ancor altro: si comprenderà, per esempio, che questo è un saggio per gli psicologi, ma punto pei tedeschi... Io ho i miei lettori per ovunque, a Vienna, a Pietroburgo, a Copenaghen, a Stoccolma, a Parigi, a New York — non li ho nel paese basso dell’Europa, in Germania... E avrei forse anche una parola da dire all’orecchio dei signori Italiani che io amo... Quosque tandem,
Crispi... Triplice alleanza: con l’«Impero» un popolo intelligente non fa mai altro che una mésalliance...DOVE AMMIRO.
DOVE FO DELLE OBIEZIONI.
Ciò non implica ch’io tenga cotesta musica per sacra, sopratutto quand’essa parla di Wagner. Le mie obiezioni contro la musica di Wagner son di ordine fisiologico: a che scopo mascherarle ancora sotto formule estetiche? L’estetica non é che una fisiologia applicata. — Io mi fondo sul «fatto» (ed è il mio piccolo fatto vero) che difficilmente respiro quando quella musica comincia ad agire su me, che il mio piede s’inquieta e le si ribella: il mio piede ha bisogno di cadenza, di danza e di marcia — al ritmo della Kaisermarsch di Wagner neppure il giovine Imperatore riesce a marciare — , il mio piede chiede alla musica innanzi tutto il rapimento procurato da un buon incedere, da un passo, da un salto, da una piroetta. Ma non c’è anche il mio stomaco che protesta? il mio cuore? la circolazione del mio sangue? Non s’attristano le mie viscere?
Per sentire Wagner io ho bisogno di pastiglie di Géraudel... E dunque io mi pongo la domanda: cosa chiede il mio corpo, in fin dei conti, alla musica? Poichè non v’è anima... Io credo ch’esso chieda un alleggerimento: come se tutte le funzioni animali dovessero essere accelerate da ritmi leggeri, arditi, sfrenati ed orgogliosi; quasi che la vita dovesse perdere ogni sua gravezza sotto l’azione di melodie dorate, delicate e dolci come l’odio. La mia melanconia vuol aver riposo ne’ nascondigli e negli abissi della perfezione: ed è per ciò che ho bisogno di musica. Ma Wagner rende malato. — Che importa a me del teatro? Che importano i crampi delle sue estasi «morali» delle quali il popolo — e chi non è «popolo» — si soddisfa? Che importano tutte le smorfie del commediante? — Si vede chiaro ch’io ho una natura essenzialmente antiteatrale; in fondo all’animo io ho contro il teatro, contro quest’arte delle masse per eccellenza, lo sdegno profondo che sente oggi ogni artista. Successo al teatro — con ciò si scende nella mia estimazione fino a non esister più; insuccesso — io drizzo l’orecchio e comincio a considerare... Ma Wagner, invece, accanto al Wagner che fa la musica più solitaria che vi sia, era essenzialmente uomo di teatro e commediante, il mimomane più entusiasta che mai forse sia esistito, anche in quanto musicista... E, sia detto di passaggio, se la teoria di Wagner è stata «il dramma è lo scopo, la musica non altro è mai che il mezzo» — la sua pratica è stata invece, dal principio alla fine, «l’atteggiamento è lo scopo, il dramma ed anche la musica non son altro mai che i mezzi». La musica serve ad accentuare, afforzare, interiorizzare il gesto drammatico e l’esteriorità del commediante; il dramma wagneriano non è che pretesto a parecchi atteggiamenti interessanti! — Wagner aveva, accanto agli altri istinti, quelli di comando d’un grande attore, ovunque e sempre, e, come ho già detto, anche in quanto musicista. li quel che una volta ho chiaramente dimostrato a un wagneriano puro sangue; — chiarezza e wagnerismo! Non dico una parola di più. Avevo qualche ragione per aggiungere ancora; «Siate dunque un po’ più onesto verso voi stesso! Non siamo a Bayreuth». A Bayreuth non si è onesti che in quanto massa: come individuo si mentisce, si mentisce a sè stesso. Quando si va a Bayreuth si lascia a casa la propria individualità, si rinunzia al diritto di parlare e di scegliere, si rinunzia al proprio gusto, ed anche alla propria bravura così come la si possiede e la si esercita verso dio e gli uomini fra le quattro mura della propria casa. Nessuno porta al teatro il più gentile senso della propria arte, neppure l’artista che lavora per il teatro, — vi manca la solitudine; tutto quel ch’è perfetto non tollera testimoni... Al teatro si diventa popolo, gregge, femmina, fariseo, elettore, fondatore-patrono, idiota — wagneriano: è quivi che la più personale coscienza soccombe al fascino livellatore del più gran numero, è quivi che regna il «vicino» e che si diventa «vicino»...
WAGNER CONSIDERATO COME DANNO.
1.
La finalità cui tende la musica moderna in quel che oggi si chiama, con parola assai forte ma oscura, la «melodia infinita» può essere espressa così: si entra nel mare, si perde piede a poco a poco fin che ci si abbandona all’elemento; — bisogna nuotare. Nella leggera solenne ed ardente cadenza della musica antica, nel suo moto ora lento ed ora vivo, bisogna cercare tutt’altro — bisognava danzare. La misura che v’era necessaria, l’osservanza di talune gradazioni di tempo e di forza, constringevano l’animo dell’osservatore a una riflessione continua, — è sull’opposizione di correnti refrigeranti, provenienti dalla riflessione e dal caldo soffio dell’entusiasmo, che si fondava il fascino d’ogni buona musica. — Riccardo Wagner volle cercare un’altra specie di moto, — capovolse le condizioni fisiologiche della musica esistente. Nuotare, ondeggiare, — non più camminare nè danzare... Per questo forse la parola decisiva è stata detta? La «melodia infinita» vuol rompere appunto ogni unità di tempo e di forza; le accade anche talvolta di ridersene: essa trova la sua ricchezza d’invenzione precisamente in ciò che per orecchi d’altri tempi suona come un paradosso ritmico e come una bestemmia. Dall’imitazione, dalla preponderanza di un gusto siffatto deriverebbe alla musica un danno che non si potrebbe imaginare più grande — la degenerazione completa del sentimento ritmico, il caos in luogo del ritmo... Il danno è completo quando una tal musica s’appoggia sempre più fortemente sopra un arte teatrale e una mimica assolutamente naturalistiche, non rette da alcuna legge della plastica, ricercatrici dell’effetto e nulla più... L’espressione a ogni costo, e la musica servente e schiava dell’atteggiamento — ecco la fine...
2.
Come? la prima virtù dell’esecuzione sarebbe veramente, come i musicisti esecutori sembrano credere ai giorni nostri, di raggiungere ad ogni costo un altorilievo che non possa più esser superato? Questa teoria, applicata per esempio a Mozart, non sarebbe un vero peccato contro lo spirito di Mozart, contro il genio gaio, entusiasta, tenero ed amoroso di Mozart? il quale, per buona ventura, non era tedesco, e la sua serietà era una serietà benevolente e dorata e per nulla la serietà di un buon borghese tedesco... per non parlare della serietà del «convito di pietra»... Ma voi credete che ogni musica è musica del «convito di pietra», — che ogni musica deve escire dalle mura e sbranare l’auditore fin nelle sue visceri?... È solo così che la musica agisce! — Su chi agisce? Su qualcosa che l’artista nobile deve lasciar fuori il dominio della propria azione — sulla massa! sugl’impuberi! sui malati! sugl’idioti! sui wagneriani!
UNA MUSICA SENZA AVVENIRE.
Di tutte le arti che riescono a fiorire sul suolo di una determinata cultura, la musica fa la sua apparizione come pianta ultima, forse perchè è un’arte anteriore, ultima venuta per conseguenza — quando la cultura dalla quale deriva s’approssima all’autunno e comincia a disfarsi. Solo nell’arte dei maestri Olandesi l’anima del medioevo cristiano ha trovato la sua espressione — , la sua architettura musicale è sorella maggiore, ma legittima ed autentica, del gotico. Soltanto nella musica di Haendel può ricercarsi un’eco dell’anima di Lutero e dei suoi simili, il carattere giudeo-eroico che dette alla Riforma un tratto di franchezza — il Vecchio Testamento fatto musica e non il nuovo. Soltanto Mozart rese l’epoca di Luigi XIV, l’arte di Racine e di Claudio di Lorena in oro sonante. Soltanto nella musica di Beethoven e di Rossini si ripercosse il secolo XVIII, secolo di esaltazione, d’ideale spezzato e di felicità fuggitiva. Ogni musica vera, ogni musica originale è un canto del cigno. — Forse la nostra ultima musica, quale che sia il dominio ch’essa esercita e vuole esercitare ancora, non ha dinanzi a sè che un lasso di tempo assai breve: giacchè essa è sbocciata da una cultura il cui suolo ha rapidamente reso - da una coltura subitamente dilapidata. Un certo cattolicismo del sentimento e un gusto spiccato per qualche antico spirito d’attaccamento al suolo (attaccamento che vien detto «nazionale») sono le sue condizioni prime. I prestiti contratti da Wagner a vecchie leggente e canti, ove il pregiudizio sapiente ha voluto vedere qualcosa di germanico per eccellenza (— oggi ne ridiamo -), la resurrezione di quei mostri scandinavi, con una sete di sensualità in estasi e di spiritualizzazione — questa maniera di prendere e di dare, tutta propria a Wagner, per quanto riguarda i soggetti, le persone, le passioni e i nervi, tutto questo esprime chiaramente lo spirito della sua musica, ammettendo che tal musica, come ogni musica, parlando di sé, non lasci sorgere equivoci: giacchè la musica è femmina... Non bisogna lasciarci sviare su questo stato di cose pel fatto che attualmente noi viviamo nella reazione, nel seno stesso della reazione. L’epoca delle guerre nazionali, del martirio ultramontano, tutto quel carattere d’intermezzo fra un atto e l’altro particolare alla attuale situazione dell’Europa, può difatti procurare un’improvvisa gloria a un’arte come quella di Wagner, senza garentirle per questo un avvenire. Gli stessi Tedeschi non hanno avvenire...
NOIALTRI ANTIPODI.
È noto, almeno fra i miei amici, ch’io ho cominciato per accanirmi contro il mondo moderno con qualche errore e qualche esagerazione, ma, ad ogni modo, con molte speranze. Consideravo — chi sa per quali esperienze personali? — il pessimismo filosofico del secolo decimonono come sintomo d’una superior forza del pensiero e d’una plenitudine di vita più vittoriosa di quella espressa da Hume, da Kant, da Hegel. Considerai la conoscenza tragica come il più bel lusso della nostra civiltà, come la sua più preziosa, più nobile, più pericolosa prodigalità, ma tuttavia, in ragione della sua opulenza, come un lusso che le era consentito. Così anche interpretai la musica di Wagner come l’espressione di una potenza dionisiaca dell’anima; e in essa credei sorprendere il lavorio sotterraneo d’una forza primordiale da secoli repressa e che alfine appare alla luce, indifferente d’altronde a che tutto quanto si chiama oggi cultura potesse essere distrutto. Si vede che interpretai male; ed egualmente si vede di che arricchii Wagner e Schopenhauer — di me stesso... Ciascuna arte, ciascuna filosofia van considerate come rimedi e incoraggiamenti alla vita in ascendenza o in decadenza: esse suppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma v’ha due specie di sofferenti: dapprima quelli che soffrono di soprabbondanza di vita, che vogliono un’arte dionisiaca ed anche una visione tragica della vita interiore ed esteriore — e poi quelli che soffrono d’un ammiserimento della vita, e all’arte e alla filosofia chiedono la calma, il silenzio, un mare piatto, od anche l’ebrezza, la convulsione, la frenesia. Vendicarsi sulla stessa vita — è questa, per siffatti ammiseriti, la più voluttuosa qualità d’ebrezza!... Al duplice bisogno di questi ultimi Wagner risponde così bene quanto Schopenhauer. Essi negano la vita, la calunniano, e appunto per ciò sono i miei antipodi. — L’essere nel quale s’ha la maggior abbondanza di vita, Dionisio, l’uomo dionisiaco, non si compiace soltanto dello spettacolo del terribile e dell’inquietante, ma ama il fatto terribile in sè stesso, ed ogni lusso di distruzione, di disgregamento, di negazione; — la cattiveria, l’insania, la bruttezza gli sembrano in qualche modo consentite, così come nella natura, per una sovrabbondanza atta a far d’ogni deserto una fertilità. È invece l’uomo più sofferente, più povero di forza vitale, che avrebbe più gran bisogno di dolcezza, di amenità, di bontà — di ciò che si chiama oggi umanità — , in pensiero così come in azione; e possibilmente di un dio che fosse in ispecie un dio di malati, un Salvatore; e che anche avrebbe bisogno di logica, di astratta intelligibilità dell’ esistenza, accessibile anche agli idioti ( — i «liberi pensatori» tipici, come gli idealisti e le «belle anime» sono tutti decadenti — ) e insomma di una certa stretta e calda intimità che dissipasse il timore, e d’un imprigionamento fra gli orizzonti ottimisti che consentisse l’imbestiamento... Così imparai, a poco a poco, a comprendere Epicuro, l’opposto d’un greco dionisiaco, ed anche il cristiano che, nel fatto, non è che una specie di epicureo, e che, col suo principio «la fede salva» non fa che seguire il principio dell’edonismo: per quanto è possibile — fin oltre ogni probità intellettuale... Se io ho qualche vantaggio sugli altri psicologi è che posseggo un po’ più d’acume in questo genere così difficile e capzioso di conclusioni, nel quale si commettono gli errori maggiori — la conclusione dell’opera al creatore, del fatto all’autore, dell’ideale a colui per il quale esso è una necessità, di ogni modo di pensare e valutare al bisogno che lo reclama. — Quanto agli artisti d’ogni specie io mi servo ora di questa distinzione capitale e l’odio della vita o l’abbondanza della vita che e divenuta creatrice? In Goethe, per esempio, l’abbondanza divenne creatrice; in Flaubert, l’odio: Flaubert reedizione di Pascal ma, in figura di artista avente questa base di giudizio istruttivo: «Flaubert è sempre odioso: l’uomo è nulla, l’opera è tutto»... Egli si torturava quando scriveva, proprio come Pascal si torturava quando pensava essi sentivano entrambi d’una maniera «altruista»... «Disinteresse» — ecco il principio decadenza, la volontà dell’annientamento nell arte così come nella morale.
DOVE WAGNER È IN CASA SUA.
Ancor oggi la Francia è il rifugio della più intellettuale e raffinata cultura che vi sia in Europa: essa resta pur sempre la grande scuola del gusto. Ma bisogna sapere scoprirla questa «Francia del gusto». La «Gazzetta della Germania del Nord», per esempio, o almeno coloro dei quali essa è l’organo, vedon nei Francesi altrettanti «barbari» — , per conto mio, io vado cercando il continente nero ove si dovrebbero liberar gli schiavi in prossimità della Germania del Nord... Coloro i quali fan parte di quella Francia han cura di tenersi nascosti: sono un piccolo numero, e in questo piccolo numero ve n’ha ancora, forse, che non sono abbastanza saldi sulle loro gambe, fatalisti, melanconici, malati, magari snervati e artificiosi che pongono il loro amor proprio nell’essere artificiosi, — ma hanno in loro possesso tuttavia quanto resta nel mondo di fine e di elevato. In questa Francia dello spirito, che è anche la Francia del pessimismo, Schopenhauer è più in casa sua di quanto fosse mai in Germania: la sua opera maggiore, due volte tradotta, la seconda volta con tanta perfezione ch’io preferisco ora di leggere Schopenhauer in francese (— egli non fu tedesco che per caso, allo stesso modo ch’io lo sono accidentalmente — i tedeschi non hanno attitudine a maneggiarci, e d’altronde essi non hanno mani, non hanno che zampe). Non parlo di di Enrico Heine — l’adorable Heine, come si dice a Parigi — che da tempo è passato nella carne e nel sangue dei più delicati e preliosi lirici parigini. Che farebbe il cornuto bestiame tedesco con delicatezze di siffatta natura! Per quanto infine riguarda Riccardo Wagner, più la musica trancese s’adatterà alle reali esigenze dell’anima moderna, più, si può presagire, essa vagnerizzerà, — lo fa già abbastanza! A tal proposito non bisogna lasciarci ingannare dallo stesso Wagner — fu una vera cattiva azione da parte sua rìdere di Parigi durante la sua agonia del 1871... In Germania, ciò nonostante Wagner non è che un malinteso: chi per esempio, sarebbe atto a capir tanto poco di Wagner quando il giovine imperatore? Nondimeno, per ogni conoscitore del movimento del a cultura in Europa, non resta meno certo il fatto che il romanticismo francese e Riccaido Wagner sona strettamente legati fra di loro. Dominati dalla letteratura, che finanche riempiva l’occhio dei pittori e gli orecchi dei musicisti, i francesi furono i primi ad avere una cultura letteraria universale — quasi tutti scrittori o poeti essi stessi, quasi tutti versatili in più arti e in più sensi, e interpretando l’una a mezzo dell’altra; tutti fanatici dell’espressione ad ogni costo; tutti grandi inventori nel campo del sublime, come anche del brutto e del laido, più grandi inventori ancora in fatto di messa in iscena; utti ricchi di un ingegnosità oltrepassante il loro genio; tutti virtuosi fin nelle midolla esperti di ciò che seduce, che incanta, che afferra, che soggioga; tutti nemici nati della logica della linea retta, assetati dello strano, dell’esotico, del mostruoso e di tutti gli oppi dei sensi e della ragione. Furono insomma una specie di artisti audaci sino alla follia, magnificamente violenti, trascinati essi stessi e trascinanti gli altri con slancio superbo, destinati a insegnare al loro secolo — è il secolo delle «masse» — quel che è un artista. Ma malati...
WAGNER APOSTOLO DELLA CASTITÀ.
1.
Fra la sensualità e la castità non v’è contrasto necessario: ogni buon matrimonio, ogni seria passione del cuore è al di sopra di un contrasto di tal genere. Ma quando cotesto contrasto effettivamente esiste, ce ne vuole, per fortuna, perchè sia un contrasto tragico. Sembra esser così per tutti i mortali di buona salute e di spirito ponderato, i quali son lungi dal giudicar senza valore quell’equilibrio instabile tra l’angelo e la bestia, fra i principii contradittori dell’esistenza, — i più fini, i più chiari, come Hafis, come Goethe vi han visto finanche un’attrazione di più... Sono appunto opposizioni siffatte che fanno amare la vita... D’altra parte, non occorre dire che, quando gli sventurati animali di Circe son portati ad adorare la castità essi non vedono e non adorano che l’opposto, — ah! con che tragici grugniti e con quale ardore! è facile imaginarlo — essi adorano quel contrasto doloroso e assolutamente superfluo che Riccardo Wagner, alla fine della sua vita ha voluto incontestabilmente mettere in musica e portar sulla scena. A quale scopo? si chiederà giustamente.
2.
Non bisognerebbe, intanto, voler evitare quest’altra questione: che veramente gl’importasse quella virile (ahimè! così poco virile) «semplicità dei campi», quel povero diavolo, quel tìglio della natura, che si chiamava Parsifal e ch’egli Unisce per far cattolico con mezzi così insidiosi. Come? Wagner prendeva sul serio quel Parsifal? Che se ne sia riso, io son l’ultimo a contestarlo e al pari di me, Goffredo Keller... A dir vero sfarebbe sperato che il Parsifal di Wagner fosse stato concepito gaiamente, in qualche modo come epilogo e come dramma satirico, a mezzo del quale Wagner il tragico avesse voluto, in maniera conveniente e degna di lui congedarsi da noi, da sè stesso, innanzi tutto dalla tragedia, e ciò per un eccesso di alta e maliziosa parodia dello stesso tragico, di tutta quella terribile gravità terrestre e delle miserie terrestri d’altri tempi, parodia d’una forma alfine vinta, la forma più grossolana di quanto v’è di antinaturale nell’ideale ascetico. Parsifal è per eccellenza un soggetto d’operetta. Il Parsifal di Wagner non è il sorriso nascosto del maestro? quel sorriso di superiorità che s’infischia di sé stessa, il trionfo della sua ultima, della sua suprema libertà d’artista, del suo «al di là» di artista — non è Wagner che sa ridere di sè stesso?... Si potrebbe, lo ripeto ancora, augurarselo. Giacchè, cosa sarebbe Parsifal preso sul serio? È veramente necessario di vedere in lui (per usare un’espressione adoperata in mia presenza) «il prodotto d’un feroce odio contro la scienza, lo spirito e la sensualità», un anatema contro i sensi e lo spirito concentrato in un solo soffio d’odio? Un’apostasia e un voltafaccia verso l’ideale d’un cristianesimo malato e oscurantista? E infine una negazione di sè, una cancellazione di sè, da parte d’un artista che, fin allora, con tutta la potenza della sua volontà, avea lavorato al fine opposto, e cioè alla spiritualizzazione e sensualizzazione suprema dell’arte sua? e non solo della sua arte ma anche della sua vita? Si ricordi con quale entusiasmo Wagner aveva già seguito le orme del filosofo Feuerbach. La parola di Feuerbach, «la sana sensualità», risuonò durante gli anni trenta e quaranta di questo secolo, per Wagner come per molti Tedeschi — si chiamavano la giovine Germania — come la parola redentrice per eccellenza. Finì per cambiar di parere a tal riguardo? Sembra almeno ch’egli avesse alla fine la volontà di mutar la sua dottrina... L’odio della vita è stato vittorioso in lui come in Flaubert? Poichè Parsifal, è un’opera di rancore, di vendetta, un attentato segreto contro ciò ch’è la prima condizione della vita, una cattiva opera. Predicare la castità è una provocazione all’antinaturale: io disprezzo tutti coloro i quali non considerano Parsifal come un attentato contro la morale.
COME MI DISTACCAI DA WAGNER.
1.
Già durante l’estate del 1876, nel periodo stesso delle prime Feste di Bayreuth, io mi congedai da Wagner. Non sopporto nulla che sia eguivoco: da quando Wagner era in Germania, a poco a poco, andava condiscendendo a tutto ciò ch’io disprezzo — finanche all’antisemitismo. E nel fatto, era veramente tempo di congedarsi: ne ebbi subito la prova Riccardo Wagner, il più vittorioso in apparenza, in realtà un decadente, caduco e disperato, si mostrò d’un tratto, irrimediabilmente annientato innanzi la san ta croce...
Nessun tedesco ebbe allora occhi per vedere, e pietà nella conscienza per deplorare quell’orribile spettacolo? E dunque io sono stato il solo ch’egli abbia fatto soffrire? Non importa: l’inatteso avvenimento proiettò una subitanea luce, per me, sul luogo che avevo allora lasciato, — ed anche mi dette quel fremito di terrore che si sente dopo aver corso inconsapevolmente un immenso pericolo. Quando da solo io proseguii pel mio cammino mi misi a tremare. Poco dopo fui malato, più che malato, stanco, — stanco per la continua delusione a riguardo di tutto ciò che ancora entusiasmava noi altri uomini moderni: della forza, del lavoro, della speranza, della giovinezza, dell’amore, inutilmente prodigati, per ovunque; stanco pel disgusto di tutto questa bugiarderia idealista e di questo rammollimento della conscienza che ancora una volta aveano vinto uno dei più bravi; stanco infine — e non fu la minore delle mie stanchezze — per la tristezza d’un implacabile sospetto: il presentimento di dover esser condannato oramai a diffidare ancora più, a disprezzare più profondamente, a essere più assolutamente solo che non mai. Poichè non altri aveva avuto che Riccardo Wagner... Fui sempre condannato a gente tedesca.2.
Solitario oramai e pur diffidente di me io presi allora partito, e non senza collera, contro me stesso e per tutto ciò che giustamente mi faceva male e m* era di pena: e così ch’io ho ritrovato il cammino di quel pessimismo intrepido ch’è il contrario di tutte le gonfiature idealistiche, ed anche come a me sembra, il cammino verso me stesso, — il cammino della mia mèta... Quel non so che d’occulto e dominante che resta a lungo senza nome per noi fin quando ci è dato discoprire che quivi è la nostra mèta — quel tiranno prende una terribile rivincita in noi ad ogni tentativo che facciamo per evitarlo e per sfuggirlo, ad ogni decisione prematura, ad ogni prova di assimiazione con coloro cui siamo estranei, ogni volta che ci diamo ad un’occupazione la quale, per quanto laudabile, ci devia dal nostro scopo principale, — ed anche si vendica di ciascuna delle nostre virtù che vorrebbe proteggerci contro la durezza della nostra più intima responsabilità.
La malattia è sempre il contraccolpo dei nostri dubbi, quando il nostro diritto e il nostro compito ci paiono incerti, quando noi cominciamo a rilasciarci un poco. Cosa strana e terribile nello stesso tempo! Sono i nostri alleggerimenti che ci tocca espiare con maggior durezza! E se più tardi noi vogliam tornare alla salute non abbiamo da scegliere: ci è necessità portare pesi maggior che per l’innanzi....
LO PSICOLOGO PRENDE LA PAROLA.
1.
Quanto più uno psicologo, psicologo di nascita, divinatore di anime, si volge allo studio degli uomini e dei casi d’eccezione, più grande è per lui il pericolo di sentirsi soffocare dalla pietà. Più di ciascun altro egli ha bisogno di durezza e di sincerità. Giacchè la corruzione, la corsa degli uomini superiori verso l’abisso, constituiscono una norma consueta, ed è terribile avere una norma siffatta innanzi agli occhi. Le molteplici torture dello psicologo che ha scoperto una tal ruina, che scopre una volta e poi quasi sempre di nuovo, traverso la storia, quello «stato disperato» che l’uomo superiore porta nella sua anima, quell’eterno «troppo tardi!» per tutte le cose, — quelle torture potranno forse un giorno divenir la causa della sua propria perdita... Si scorgerà quasi sempre, nello psicologo, una perfida predilezione a frequentare uomini ordinari e bene equilibrati: e da ciò si comprende ch’egli ha sempre bisogno di guarigione, che gli occorre una specie di sfuggita e di oblio, lungi da ciò che le analisi e le dissezioni del suo mestiere hanno imposto alla sua propria conscienza. Gli è speciale la paura ch’egli ha della sua memoria. Il giudizio altrui spesso lo spinge a tacere: egli ascolta, col viso immobile, come gli altri venerano, ammirano amano, glorificano, là dov’egli si è contentato di vedere, — od anche ci nasconde il suo stupore accontentandosi a bella posta d’una opinione superficiale. Forse il lato paradossale della sua situazione tocca così da presso lo spaventevole ch’egli è preso d’una grande pietà e d’un grande disprezzo dove le genti «istruite» hanno imparato a porre la loro grande venerazione... E chi sa se in tutti i casi importanti non accadde che si volle adorare un dio e che questo dio non era che una povera bestia da sacrificio... Il successo fu sempre il più gran mentitore — e l’opera, l’adone, sono, anch’esse, dei successi... Il grand uomo di Stato, il conquistatore, l’esploratore sono mascherati dalle loro creazioni fino od essere irriconoscibili; l’opera, quella dell’artista, del filosofo, inventa soltanto quegli che l’ha creata, quegli che si suppone l’abbia creata... I «grandi uomini», così come li si venera, non sono, dopo tutto, che cattive favolette; — nel mondo dei valori storici regna il conio di monete false...
2.
Quei grandi poeti, ad esempio, Byron, de Musset, Poe, Leopardi, Kleist, Gogol — non oso pronunciar nomi più grandi ma è ad essi ch’io penso, — così come sono, così come debbono essere: uomini del momento, sensuali, assurdi, molteplici, leggeri ed impulsivi nella diffidenza e nella confidenza; con anime delle quali spesso voglion nascondere qualche piega: spesso vendicandosi, a mezzo delle loro opere, di una sozzura interiore; spesso cercando nei loro slanci l’oblio d’una ricordanza troppo fedele; idealisti perchè si trovano assai prossimi al pantano! Qual sofferenza non cagionan essi a chi li ha capiti, questi grandi artisti e in generale tutti quelli che vengon detti uomini superiori! Noi siamo tutti avvocati della mediocrità... È facile comprendere che la donna, chiaroveggente nel mondo della sofferenza ed avida di aiutare e soccorrere ahimè! ben oltre le sue forze, prova giustamente per essi quegli slanci di pietà sui quali la folla, e innanzi tutto la venerazione della folla, fa gravare tante interpretazioni indiscrete e presuntuose... Quella pietà s’inganna regolarmente sulla portata della sua forza: la donna vorrebbe credere che l’amore può tutto, — è questa la sua superstizione. Ahimè! chi conosce il cuore umano comprende che anche il migliore e più profondo amore è povero, disaccorto, presuntuoso, suscettibile d’errore — e fin quanto esso è fatto piuttosto per distruqgere che per salvare....
3.
Il disgusto e l’orgoglio spirituale di ciascun uomo che abbia profondamente sofferto (è la capacità di sofferenza che determina il rango) la fremente certezza della quale egli è tutto penetrato, quella certezza di sapere, mediante il suo dolore, più di quanto possano i più intelligenti e i più saggi, d’essere stato familiare e padrone di mondi distanti e terribili dei quali «voi non sapete nulla»... quell’orgoglio spirituale e tacito, quella fierezza dell’eletto della conoscenza, di quegli che é «iniziato» e quasi vittima, ha bisogno d’ogni sorta di travestimento per preservarsi dal tocco di mani importune e compassionevoli, e innanzi tutto di ciò che non lo eguaglia per la sofferenza. Il profondo dolore rende nobile; è separatore. — Una delle più sottili forme di travestimento è l’epicureismo e una certa affetata bravura che considera leggermente il soffrire e tutto ciò che è triste e profondo. Vi sono «uomini gai» che si servono della gaiezza perchè essa li fa mal comprendere — essi vogliono essere mal compresi. Vi sono «spiriti scientifici» che si servono della scienza perchè essa li fa sembrare gai, e perchè il carattere scientifico fa sembrar l’uomo superficiale — essi vogliono indurre a una conclusione erronea... Vi sono spiriti liberi ed audaci che vorrebbero nascondere e negare che in tondo essi son cuori irremediabilmente spezzati, — è il caso di Amleto: e allora la stessa follìa può esser maschera di una conoscenza fatale e troppo certa. —
EPILOGO.
1.
Mi sono spesso chiesto se io non dovevo assai più agli anni maggiormente difficili della mia vita che a tutti gli altri. Ciò che v’è in me di più intimo m’insegna che tutto ciò ch’è necessario, considerato dall’alto e interpretato nel senso d’una economia superiore, è anche utile in sè, — non bisogna soltanto sopportarlo, bisogna anche amarlo... Amor fati: tale è il fondo della mia natura. — E per quanto riguarda la mia lunga malattia, non le debbo forse assai più che alla mia sanità? Le debbo una sanità superiore, una sanità che si fortifica di tutto ciò che non la uccide!
Io le debbo anche la mia filosofia... La grande sofferenza è l’ultima liberatrice dello spirito; essa insegna il grande dubbio che d’ogni U fa un X, un X vero e verace, ciò è dire la penultima lettera innanzi l’ultima... Il grande dolore, il dolore lungo e assiduo che ci consuma in qualche modo a fuoco lento, il dolore che prende tempo, ci forza, noialtri filosofi, a discendere nella nostra ultima profondità e ad allontanare da noi ogni fiducia, ogni bonomia, ogni attenuazione, ogni tenerezza, ogni meditazione, nella quale, forse: altra volta, avevamo posta la nostra umanità. Io dubito che una tale speranza «renda migliore»; ma so ch’essa ci rende più profondi. Già che noi impariamo ad opporle la nostra fierezza, il nostro dileggio, la nostra forza di volontà, simili a quell’indiano che, per quanto crudelmente torturato, si considera vendicato del suo carnefice dalla cattiveria della sua lingua; sia che ci rifugiamo, di fronte al dolore nel nulla, nella rassegnazione muta, inflessibile e sorda, nell’oblio e nell’abolizione di sè, si è altro uomo uscendo da quei lunghi e perigliosi esercizi della dominazione di se, si ritorna con qualche punto interrogativo in più — e sopra tutto con la volontà di porre per l’innanzi più numerose domande, più profonde, più severe, più dure, più cattive e più silenziose, di quante mai ne furon poste fin allora, nel mondo... La fiducia nella vita è sparita, la vita stessa è divenuta un problema. — Ma non si creda che per questo sia stato necessario divenire oscurantista! L’amore della vita è tuttavia possibile, — ma si ama in altro modo... È l’amore per una donna che ci inspira dei dubbi.
2.
Cosa assolutamente strana è che dopo cotesto primo gusto ve ne viene un altro — un secondo gusto. Da simili abissi, anche dall’abisso del grande dubbio, si ritorna rigenerato. Come se si fosse fatta pelle nuova, si diventa più suscettibile e più cattivo, con un più sottile gusto per la gioia, con lingua più delicata per tutte le buone cose, con sensi più gioiosi, con una seconda e più perigliosa innocenza nella gioia, nello stesso tempo più infantile e cento volte più raffinato che per il passato.
Quanto ci ripugna ora il godimento, il grossolano sordo ed oscuro godimento, come generalmente lo intendono i gaudenti, le nostre «persone istruite», i nostri ricchi, i nostri governanti! Con quale malizia noi ora ascoltiamo tutto quel fracasso da fiera, in mezzo al quale l’uomo istruito e il cittadino si lasciano oggi violentare dall’arte, dal libro, dalla musica, per giungere al «godimento spirituale» inaffiato da bevande spiritose! Quanto fan male ora ai nostri orecchi quei clamori teatrali; quanto son fatti estranei a noi il tumulto romantico, il solletico dei sensi che piace alla plebaglia istruita, e tutte quelle aspirazioni all’ideale, al sublime, all’anfigorico! No: se noi che siamo guariti abbiamo ancora bisogno d’un’arte, è di tutt’altra arte — d’un’arte gioiosa, leggera, fuggitiva, divinamente fattizia e piena d’una divina certezza, di un’arte che come una pura fiamma aleggi verso un cielo senza nubi! Innanzi tutto un’arte per artisti, solamente per artisti! Allora ci intenderemo meglio su ciò che importa per questo, la gaiezza, tutta la gaiezza, amici miei!... Vi son cose che noi sappiamo troppo bene, ora, noi che possediamo la conoscenza: ah come impariamo oramai a ben dimenticare, a ben ignorare, da artisti!... E per quanto riguarda il nostro avvenire: non ci si incontrerà certo su le orme di quei giovani egizi che infestavano i templi nella notte, abbracciando le statue e volendo a viva forza svelare, scoprire, porre in piena luce tutto ciò che, per buone ragioni, è tenuto nascosto. No, questo cattivo gusto, questo voler raggiugere la verità, «la verità ad ogni costo», questa mania di adolescenti per l’amore della verità — tutto questo non c’importa più: noi siamo troppo esperti, troppo seri, troppo gai, troppo induriti, troppo profondi... Noi non crediamo più che la verità resti verità quando le si strappa il velo — ed abbiamo vissuto abbastanza per esserne persuasi... Oggi è per noi quistione di convenienza che non si voglia tutto vedere nella sua nudità, e trovarsi ovunque presente, e tutto comprendere, e tutto «sapere». Tutto comprendere — significa tutto disprezzare... «È vero che il buon Dio vede tutto?» chiedeva una bambina a sua madre: «mi sembra una sconvenienza» — avvertimento ai filosofi!... Bisognerebbe avere maggior rispetto del pudore, rifugio della natura che si tien nascosta dietro enigmi ed incertezze multiple. Forse la verità è femmina, ed ha delle ragioni per non lasciar vedere le sue ragioni?... Forse il suo nome, per parlare greco, è Baubò?... Ah quei Greci! se ne intendevano essi del vivere! Per ciò è necessario fermarsi bravamente alla superficie, all’epidermide, di adorare l’apparenza, di credere alle forme, ai suoni, alle parole, a tutto l’Olimpo delle apparenze. Quei Greci erano superficiali — per profondità... E non torniamo ad essi, noialtri rompicolli dello spirito che abbiam salito le più alte e pericolose sommità del pensiero moderno, e che di qui abbiam guardato intorno a noi, al di sotto di noi? Non siamo, anche in questo, greci? Adoratori di forme, di suoni, di parole? E appunto per questo — artisti?