Compendio de le istorie del Regno di Napoli/Libro I

Libro I

../ ../Libro II IncludiIntestazione 25 novembre 2020 25% Da definire

Compendio de le istorie del Regno di Napoli Libro II

[p. 3 modifica]

COMPENDIO DE LE ISTORIE DEL REGNO DI NAPOLI

a lo illustrissimo principe et eccellentissimo signore

Ercule inclito duca di Ferrara

composto da messer Pandolfo Collenuccio

iurisconsulto da Pesaro, suo servo.

LIBRO PRIMO

In questo primo libro si descrive la grandezza e confini di esso regno di Napoli; notansi le regioni che si contengono in quello; dappoi si fa un sommario de le cittá piú illustri e de’ fondatori di esse e li uomini piú famosi di quelle; e si dá notizia de le altre nazioni e popoli esterni, toccando ancora l’origine de’ goti, vandali, longobardi, saracini e altri popoli, e processi di quelli in Italia.


Natural cosa è che non manco si amano li lochi ove li uomini ne la sua tenera etá sono stati educati e nutriti, che quelli ove sono nati: la quale affezione tanto maggior diventa, quanto in quelli lochi l’uomo sotto il governo di qualche principe di eccellente natura ha imparato virtú e costumi e ottima istruzione et esperienza a la vita. Però meraviglia non è se la Vostra Eccellenza, del regno di Napoli, ove il fiore de la puerizia e gioventú in gloriosi esercizi tradusse, e de l’inclito buon re Alfonso I di Aragona, col quale familiarmente in favore onoratissimo visse, spesso parla e volontieri ode, e de le passate sue condizioni cerca averne espedita notizia. E benché sappiamo tutti noi che ne la Vostra corte versiamo, niuna istoria quasi latina o greca trovarsi, che Vostra Signoria letta e intesa con diligenza non abbia, nondimeno, perché variamente e interrottamente le cose di quel [p. 4 modifica]regno da diversi sono scritte, né comportano le cure e cotidiani pensieri del governo e stato Vostro quella sottile et esatta discussione che si ricercaria per ridurre istoricamente in un ordine e in un corpo tutto quello che di esso regno si ritrova scritto, a Vostra Eccellenza è parso dare a me questa cura. Piaccia a Dio che a la elezione di V. Signoria e a lo ardentissimo desiderio mio del bene obedire e piacere, l’opera risponda. Io volontieri ho assunto tal provincia, e se bene confesso tali istorie essere intricatissime e varie e disperse, e per questo laboriose e moleste a ridurle ad ordinata narrazione, nondimeno il farlo volontieri e dilettarmi ne l’opera pel studio di piacere, ogni fatica mi fará leggera. Veramente, illustrissimo Signore, le mutazioni de li stati e la varietá de’ governi a niuna parte d’Italia piú famigliare a’ di nostri esser si vede, che a quella che regno di Napoli è chiamata: onde pare che fatai sia a quelle provincie che in essa si contengono avere non che spesso, ma sempre, tirannie, sedizioni, perfidie, rebellioni, guerre, eversioni di cittá, rapine e incendi, e tutte le altre calamitá che da l’avarizia e ambizione, vere produttrici di tal peste, proceder sogliono. Il che non solo a’ tempi nostri veggiamo, e per la presente istoria in piú modi si comprenderá, ma ancora ne li tempi vetustissimi esserli stato si peculiare leggiamo, che Strabone, scrittore e geografo greco, dice non per altra cagione li poeti aver finto ne li Campi Flegrei, che sono in Terra di Lavoro giá detta Campania, esser state le battaglie e gesti dei giganti, se non perché quella regione di sua proprietá è disposta a muovere e concitare le guerre. E appresso Tito Livio, Publio Sulpizio console romano, volendo deliberare la spedizione contra Filippo II re di Macedonia, dice che tanto stanno questi regnicoli senza rebellione, quanto non hanno a chi rebellarsi, e in un altro loco dice la perfidia essere ingenita e naturale a quelli di Campania. La qual cosa fa ancora che manco mi maravigli se rara memoria si trova fatta, per croniche o per annali propri, de li uomini di quel regno, pensando che tutto sia proceduto da le continue mutazioni et esilii e [p. 5 modifica]inquietudine de li uomini, che non hanno potuto avere ozio a componere libri; e se qualche ricordo ne è stato fatto, facilmente si estima che li incendi e le rapine da varie nazioni fatte lo abbino estinto. Non voglio però che tal cosa ad escusazione mi vaglia a fine di schivar l’impresa a me data, ma si bene a qualche giusta venia mi giovi, se non tutte le cose minutamente, come a me incognite, in questi libri comprenderò; assai bene (a mio giudizio) satisfacendo, se de le cose piú degne li piú importanti capi, da molti illustri scrittori estratti al numero di ventiquattro o piú, oltra molti detti al proposito de’ nostri iurisconsulti e fedele relazione di alcuni viventi, in questo compendio avrò condotto: non omettendo però di far brevemente special nota di qualche cosa ancora che al detto regno non spettasse, se alcuna ne la narrazione ne occorrerá che di osservazione e notizia sia degna. Del che non credo poter esserne biasimato, si come neanche ad un peregrino che a qualche determinato loco ha il suo cammino dirizzato, si deve a vizio imputare se, alcuna cittá o degno loco trovando per via, in quello qualche poco si ferma a vederlo, da l’instituto suo viaggio però non mancando. Ma volendo con intelligibile ordine in questa opera ridurre tutto quello che a mia notizia è pervenuto de li gesti e cose fatte e accadute nel detto regno di Napoli, cominciando da lo imperio di Cesare Augusto e da l’anno primo de la nativitá di Cristo insi’no a questi nostri tempi, estimo non esser fuor di proposito, per evidenza del tutto, nel primo libro con un breve discorso descrivere la grandezza e i confini del regno di Napoli, appresso denotare quali regioni d’Italia sieno quelle che oggi per un sol nome regno di Napoli son chiamate, poi far sommario ricordo de le cittá piú illustri e uomini famosi di quelle, e ultimamente dare piú chiara notizia mi sia possibile de le nazioni e popoli esterni, de li quali in questo epitome occorrerá ragionare, per potere avere nel processo piú chiara intelligenza de le particolari contingenze che d’esso regno scriveremo. Dovemo adunque sapere che questo regno in tre modi appresso li istorici si trova nominato, cioè regno di Napoli, [p. 6 modifica]regno di Puglia, regno di Sicilia oltra il Faro. Li suoi termini d’intorno sono oggi: prima, per la via d’infra terra, la linea e li confini, per li quali detto regno si congiunge a Maremma e Campagna di Roma, che oggi son terminate al fiume di qua da Terracina chiamato Ufente; e da la bocca del detto fiume, ove entra nel mare Tirreno, procedendo in su verso l’Apennino, con Lazio e parte di Sabina, e passando il monte Apennino, con parte de 1 ’ Umbria e del Piceno detto Marca di Ancona, insino a li confini di essa, che è il fiume Tronto ove entra nel seno Adriatico. La qual linea, perché non è retta, ma si va curvando e torcendo da un fiume a l’altro predetti per li termini di queste regioni, si fa di lunghezza circa 150 miglia, andando cioè da Terracina per li confini del regno a Pontecorvo e Ceperano, e per li confini di Riete, tra il contado di Tagliacozzo, ad Interocrea (oggi Interdoco), a Civita reale e a l’Amatrice, e di li per il fiume ad Ascoli sin poi in bocca di Tronto: la quale linea, quando diritta si tirasse, appena 130 miglia e ancor manco di lunghezza saria. Per la via litorea e marittima è terminato il regno intorno, come peninsula, verso mezzodi dal mar Tirreno e dal mar Siciliano, e dal mare detto Adriano da la parte di levante, e di verso tramontana, parte dal mare e seno Ionio sino al monte Gargano (detto oggi Sant’Angelo)’ e parte dal seno Adriatico dal Gargano al Tronto: in tanto li suoi liti con questi mari tutti il regno comunica, come piú chiaramente appresso noteremo. È di lunghezza questo giro da l’Ufente al Tronto, per riviera, in tutto 1318 miglia; però che da Terracina a Napoli sono miglia 82, da Napoli al capo del golfo di Policastro miglia 147, dal capo di Policastro a Regio di Calabria miglia 183, da Regio al capo di Spartivento (giá detto Erculeo) 33, dal capo di Spartivento al capo de le Colonne (giá detto Lacinio) 195, dal capo de le Colonne a Taranto 200, da Taranto a capo di Leuca (giá detto Salentino) 30, dal capo di Leuca al capo di Otranto 26, dal capo di Otranto al capo Sant’Angelo (giá detto Gargano) 222, dal [p. 7 modifica]capo Sant’Angelo a l’ultimo suo confine, che è il fiume Tronto, miglia 200. Le quali somme insieme raccolte fanno di giro per riviera miglia 1318, onde aggiungendovi le 150 predette, che è lo spazio de la linea per terra, con che si congiunge a l’altre parti d’Italia, da l’Ufente al Tronto, sommano a 1468 miglia. E questa è oggi la dimensione del circuito del regno di Napoli. Contiene il detto regno in sé queste provincie. Prima, cominciando a l’Ufente sopra il mare Tirreno, una parte del vero Lazio, il quale anticamente si stendeva sino al fiume Liri, oggi detto il Garigliano. E benché a questi tempi, si come ogni cosa è confusa, di tutta la regione che è tra il Tevere e Sabina e l’Apennino e Terracina, ne sieno fatte tre parti e tre nomi, cioè Lazio, Campagna di Roma e Maremma, nondimeno anticamente tutto di un nome, insino al Garigliano, era chiamato Lazio nuovo. Tenne dunque prima il regno una parte del Lazio nuovo, quanto è dal detto fiume di Terracina sino al Garigliano: ne la qual parte principali terre sono Formie, Fundi e Gaeta. Séguita poi, dal Garigliano al fiume Sarno, Campania vecchia, da’ moderni detta Terra di Lavoro: nobilissime cittá de la quale furono anticamente, e oggi ancor sono, Capua e Napoli. Appresso Campania succede la terra de’ Picentini, dal Sarno insino al fiume Silaro, oggi per la maggior parte detta Principato: de la quale Surrento e Nuceria detta de’ pagani e Salerno sono terre piú illustri. Continua poi Lucania, per una gran parte detta oggi Basilicata, dal Silaro sino al fiume chiamato Sapri, che anticamente era detto Lao: de la quale piú note cittá sono Policastro e la Scalea, si come al tempo prisco Pesto e Busento, e tra monti molte castelle. Confina Lucania la regione de’ Bruzzi, dal fiume Sapri, sopra il mare Tirreno, sino al promontorio Leucopetra inclusivamente, nel mare Siculo, oggi detto capo de l’Arme, ove il monte Apennino, che cominciando da le Alpi scorre per [p. 8 modifica] mezzo tutta la lunghezza d’Italia, si termina, e l’ultima sua cima sopra il detto capo oggi da’ marinari Punta di Talo è chiamata. Et è da’ moderni questa terra de’ Bruzzi detta oggi Calabria, de la quale le principali terre, si come per il passato, sono ancor oggi Cosenza per terra e a la marina Regio cognominato lidio, a differenza di Regio cognominato Lepido in Lombardia.

Partito dal capo de l’Arme, voltando verso tramontana al promontorio Erculeo, oggi detto capo di Spartivento, per riviera insino a Taranto inclusivamente, sopra il mare detto Adriano, succede la Magna Grecia, ancor detta in questo tempo Calabria: de la quale principali terre furono e ancor sono Scillaceo, oggi detto Squillaci, e Cotrone e Taranto. Appresso la Magna Grecia séguita la regione de’ Salentini sopra il seno di Taranto, sin al capo di Leuca, giá detto promontorio salentino: de la quale piú note cittá son Gallipoli e Ugento. E da’ Salentini si continua, voltando al capo di Leuca verso tramontana sino a Brundusio inclusivamente, la regione la quale da li antichi propriamente fu detta Calabria sopra il mare Ionio: famose cittá de la quale erano e ancor sono Aleccio, Brundusio e Idrunte (oggi Brindisi e Otranto nominate). E queste due regioni, Salentini c Calabria, che è quella lingua di terra che si estende verso levante tra il seno Tarentino e il mare Ionio, sono oggi tutte per un nome chiamate Terra d’Otranto, ma anticamente, oltre Salentini e Calabria, eran dette Iapigia e Messapia. Et è peninsula, però che da Taranto a Brindisi, che son sopra li due mari, per via di terra piú di trentacinque miglia non sono.

Séguita tra Brundusio e lo Aufido fiume, oggi detto l’Ofanto, ancora sopra il seno Ionio, Apulia, cognominata Peucezia e da alcuni Etolia, oggi per riviera detta Terra di Bari, de la quale celebri cittá erano a la marina Bari e Egnazia, ora detta Iovenazzo, e infra terra Venosa.

È contermine a questa poi, tra l’Ofanto e il fiume Tiferno, oggi detto Fortore, sopra il seno Ionio sin passato capo Sant’Angelo, e da quello sopra il seno Adriatico sino al Fortore, l’altra [p. 9 modifica] Apulia cognominata Daunia, oggi per gran parte detta Puglia piana: de la quale le piú note terre a la riviera erano Salapia e Siponto e Manfredonia terra nuova, e infra terra Luceria detta de’ saracini e Canusio; per la maggior parte però detta Capitanata.

Dal Fortore sino al fiume Saro, oggi detto il Sánguine, séguita la regione de’ Frentani pur sopra il seno Adriatico: de la quale piú famose terre anticamente furono Istonio, che ancora Ostoni si chiama, e infra terra Larino e Anzano, oggi detto Lanzano.

Tra il Sánguine e l’Aterno, fiume oggi detto Pescara, è la regione de’ Peligni, de la quale piú notabili cittá erano, a la marina Ortona e infra terra Sulmona e Corfinio, giá celebratissima cittá, la quale ora Péntima si chiama. Da l’Aterno insino al Tronto, ultimo fine del regno a quella riviera sopra il seno Adriatico, continua il paese de’ Marrucini, i quali a la marina cittá alcuna famosa non aveano, ancora che oggi Francavilla giá detta Castronovo e San Fabiano se li nomini, ma fra terra la loro metropoli era Teate, oggi detta Civita di Chieti.

Sopra i Marrucini fra terra e ne l’Apennino e sue radici, cominciando al confine de’ Peligni giá detti e venendo verso il Piceno, cioè Marca d’Ancona, sono tre altri popoli per ordine, cioè prima li Vestini, cittá de’ quali erano Pinna, oggi detta Civita di Penne e Amiterno e Furcone, cittá ora distrutte: de le ruine de le quali, non molto lontano da esse, è l’Aquila cittá nuova. Sono poi appresso li Vestini li Precuzii, da li quali si pensa facilmente sia disceso il nome, che oggi si usa, di Abruzzo, quasi Precuzzo: capo de li quali era Interamna, oggi detta Teramo d’Abruzzo. Poi sono piú nel monte li Marsi, de li quali terra famosa è oggi Celano, col suo lago Fucino, oggi detto de’ Marsi, et Alba.

E la regione di tutti li predetti sei popoli, cioè frentani, peligni, marrucini, vestini, precuzi e marsi, da un nome solo è chiamata a nostri tempi Abruzzo, paese di uomini forte e di sito; e che anticamente con li popoli infrascritti, detti sanniti, [p. 10 modifica]IO ISTORIE DEL REGNO DI NAPOLI il piú de le volte erano confederati e uniti, e sotto un medesimo nome di sanniti da scrittori moderni spesse volte si comprendono. Si contiene ancora nel regno un’altra regione fra terra e quasi in mezzo di esso, tra li predetti sei popoli per il lungo e il Lazio e la Campania, e che partecipa del piano e del monte, di qua e di lá da l’Apennino, chiamata anticamente Sannio, oggi detta valle Beneventana, la quale si estende le miglia ottanta in lunghezza sino a la fonte del Silaro; piena di molte terre giá di gran nome, tra le quali erano principali Esernia, Sepino, Alife, Telesia, Benevento e Boviano. E con Sannio un’altra nazione si continua pur di sanniti, chiamata anticamente Irpini, i quali con picentini, lucani e apuli confinano, e cosí oggi di Principato e Basilicata partecipano: de li quali erano terre piú note Avellino e Aquilonia, oggi detta volgarmente Agnone e in latino castello de Anglotia. Questi furono li sanniti, fortissima nazione d’Italia, i quali nel principio de la libertá romana quaranta nove anni continui faticorno Roma e infine, lunghissimo tempo dappoi, avendo per molte centinara d’anni ritenuto in sé l’odio contro a’ romani, furono estinti da Lucio Siila dittatore. Il quale prima vi andò con lo esercito e senza alcuna misericordia li armati e disarmati e quelli che erano presi e quelli che si rendevano fece occidere, e tre mila, ovvero quattro (secondo alcuni), che aveano buttate l’arme in terra e si erano ridotti a Roma, lui li fece rinchiudere in un loco chiamato li Ovili e miseli dentro li suoi militi armati e in tre di li fece tutti ammazzare. Fece poi la proscrizione de’ sanniti, cioè li pose la taglia, in modo che tutti o furono morti, o sconosciuti si levorno di Italia; e le loro terre e cittá fece tutte ruinare. E maravigliandosi alcuno di tanta crudeltá, rispose che ’l si sapea per esperienza, che pur un uomo romano non potria mai aver pace o riposo, finché sanniti si potessino adunare e convenire insieme: per la qual cosa in questo modo li estinse. Queste sono le regioni in terra ferma che fanno il regno di Napoli, le quali benché tante sieno e con questi ordini e [p. 11 modifica] nomi da li antichi latini e greci descritte, nondimeno a questi tempi in sette principali parti, o provincie che vogliamo appellarle, tutto il regno di Napoli è ridotto: le quali sono Terra di Lavoro, Principato, Basilicata, Calabria, Terra d’Otranto, Puglia e Ahriuzo Si applicano ancora al detto regno, sotto la medesima appellazione, alcune isole le quali piú vicine e a l’incontro e intorno li sono: come nel mare Tirreno, a l’opposito di Terracina e Gaeta, Ponzia e Pandataria, oggi detta Palmarola; e al dritto di Mola, Partenope, oggi detta Bentete; e l’isola d’Ischia a rincontro di Pozzuolo, la quale anticamente avea tre nomi, Pithecusa, Inarime et Aenaria. E appresso Ischia, l’isola Prochyta, oggi detta Procida, e Nesi, oggi detta Nisari, e Caprea a rincontro del capo de la Minerva, e le Sirenusse a l’incontro di Passettano, che sono due isolette, una detta Gale e l’altra San Piero. È contributa ancora a questo regno l’isola di Lipari, la quale gira dieci miglia e ha cittá; e armano i liparioti quando da li re napolitani sono richiesti, quantunque l’isola per sé sia aggiudicata e aderente a Sicilia, del numero de le sette, le quali erano giá chiamate Eolie e da alcuni Liparee, dal nome di questa. E poi nel seno Adriatico, passato il Gargano, a l’incontro di Varano, quattro che sono de le isole di Diomede, oggi dette Tremiti, le quali sono piccole; ma de le due maggiori la prima è chiamata Santa Maria, l’altra San Doimo, e le due minori l’una lo Gatizzo e l’altra la Caprara. E queste sono le isole di qualche nome, lasciando stare li scogli che sono inclusi ne’ confini del regno di Napoli: con le quali saria ancora da porvi Sicilia, isola italica e grande e opulenta, se ’l non fusse che è ora regno da per sé e ha proprio signore, e in tanto ha partecipato il nome suo col regno di Napoli, che alcuni re primi, che l’una e l’altro hanno posseduto, come Federico li e Manfredi e Carlo I d’Angiò e Alfonso I d’Aragona, ne li loro titoli si scriveano re de l’una e l’altra Sicilia, citra et ultra il Faro. Onde quando semplicemente si trova scritto regno di Sicilia, s’intende de l’isola, e non di Sicilia di qua dal Faro in Italia. [p. 12 modifica] Cittá famose assai sono in questo regno, e per antichitá e per nobiltá de li conditori di esse e per li gran gesti che in quelle esser fatti si scrivono. Ma troppo operosa cosa saria parlare di tutte, essendone massimamente molte in tanto distrutte, che appena le vestigie de le ruine si vedono: come in Campania Cuma, la quale non solo di questo regno ma di tutta Italia e Sicilia fu antiquissima cittá, e Minturna e Sinuessa, e ne la Magna Grecia Thurio, Sibari e Metaponto, e in Puglia Argirippa, Siponto e Salapia, famosa per lo innamoramento di Annibaie cartaginese; in Abruzzo Amiterno, Buca e Istonio, e in Sannio Cominio, Atina e Aquilonia; e molte altre simili per tutto il regno.

Lasciando adunque il ricordare di queste distrutte e rovi nate, quelle che al presente si vedono e piú illustri sono: Napoli prima, capo del regno, edificata da cumei e calcidesi, nazione greca, i quali partiti da l’isola di Euboia, oggi detta Negroponte, vennero prima ad Ischia, poi edificorno Cuma, e di li partiti edificorno in due volte Napoli in diversi tempi, abitando in due cittá una vicina a l’altra un popolo medesimo, chiamando la prima Paleopoli e la seconda Neapoli, che in greco suonano cittá vecchia e cittá nova; benché a la prima ponessino in principio nome Partenope per la sepoltura d’una de le tre sorelle, meretrici famose chiamate Sirene, che era nominata Partenope, e in quel loco la trovarono sepolta. Onde poi cancellato in tutto il nome di Paleopoli, solo è rimasto Neapoli e da’ poeti qualche volta è usitato Partenope. Capua è ancora vetustissima cittá, a chi quel nome per quattro ragioni fu imposto: prima dal fondator d’essa, che fu Capys troiano successore di Enea; poi da l’augurio che nel fondarla videno, che fu capi , uccello nobile che in lingua etrusca significa il falcone; appresso da la bontá e fertilitá de’ campi, onde non capuani ma campani erano detti; ultimamente detta Capua per esser capo di dodici cittá principali di Campania. È terra in tanto di molti beni dotata, che Marco Tullio Cicerone dice che appresso Roma queste tre cittá avevano sito e condizione di avere l’imperio del mondo, Capua, [p. 13 modifica] Corinto e Cartagine; benché Capua al di d’oggi non sia ove anticamente fu posta, e ora li vestigi e ruine di essa due miglia lontano, a Santa Maria di Grazia, si vedono. Sono ancora vetuste e nobili cittá: Benevento, giá detto Malevento e dai greci Malezio, fatto prima da Diomede greco, che si trovò a la guerra troiana, instaurato poi da’ romani; Taranto da Falanto lacedemoniese o spartano, ottavo successore per retta linea da Ercule; Cosenza edificata per metropoli da’ Bruzzi; Regio da li calcidesi predetti, che edificorno Cuma; Crotone construtta da Miscello greco di Acaia, a’ conforti e monizione de l’oracolo di Apollo; Aleccio, vetustissima cittá; Otranto da uomini de l’isola di Creta, condotti in quel loco da lapige, figliuolo di Dedalo; Brundusio similmente da candiotti edificato, li quali insieme con Teseo da l’isola si partirono, e il loco chiamorono Brundusio, che in lingua messapica (che era anticamente in terra d’Otranto) significa ’capo di cervo’, però che la cittá, con li suoi porti, figura di un capo di cervo con le corna disegna; Otranto, petra di pirati, edificata da loro de’ naufragii di legni marittimi; Sulmona, da Solimo compagno di Enea ne la sua venuta in Italia; Gaeta insieme con Formie construtta da uomini di Lacedemoni greci: a chi diede poi il nome una donna detta Caieta, nutrice di Enea, in quel loco morta e sepolta; Salerno, fatto e fortificato da’ romani contra li movimenti e rebellioni de’ lucani e de’ bruzzi; Venosa vetusta ancora, dal tempio e cultura di Venere antica dea, che in quel loco era, secondo alcuni, nominata Venusia; Trani, cosi chiamata per piú brevitá, ma prima detta Traianopoli, per esser stata da Traiano imperatore (secondo che alcuni non antichi autori scrivono) edificata; benché questo io [p. 14 modifica] non affermi, per non avere autore alcuno autentico che lo scriva, ma solo la comune fama e voce de’ paesani.

Ma lasciando di commemorare piú de le antiche cittá, una sola magnificenza di edifici, che eccede qualunque altra maraviglia avesse mai provincia alcuna, ebbe Campania vecchia. Perocché tutta quella curvatura e quel golfo, che tra la punta di Miseno e la punta del capo della Minerva a 1 ’ incontro de l’isola di Capri anticamente era detta il seno Cratere, il qual per riviera circa cinquantaquattro miglia par che scorra; questo seno tanto fu giá pieno di edifici, di cittá, castelle, ville, palagi, bagni, teatri e moli e simil cose magnificentissime e superbe, e in tanto spessi e continuati l’uno sotto l’altro, cominciando da Baia e procedendo a Bauli, a Lucrino e Averno e Pozzuolo e Napoli et Erculaneo (oggi la Torre de l’Annunziata) e Pompei (oggi Castello a mare) e Surrento, che chi stando in mare questo seno mirava, a guardarlo, non molti diversi lochi, ma solo una grandissima cittá li parea vedere. Del qual spettacolo niun altro piú giocondo, piú suntuoso e stupendo poteva mostrare a’ quei tempi il mondo: pubblica iattura e dolor d’Italia vedere ora dal tempo, da terremoti e da le guerre la sua piú bella parte miserabilmente, eccetto Napoli, da ruine sepolta.

Sono ancora nondimeno nel regno molte cittá nobili, le quali ancor che a rispetto de le predette si possono chiamare nuove, per esser non è gran tempo edificate, nondimeno non sono vacue di laude: come è Barletta, fatta da quelli che abbandonorono Canusio, e Fossia per conserva de’ frumenti, da’ coloni cosi detta per il gran numero de le fosse che ad uso di granari vi sono; e alcune altre non ignobili di Puglia, le quali è incerta fama che da oltramarini albanesi e schiavoni e dalmatini sieno state construtte. Né di bassa condizione sono l’Aquila e Manfredonia transferita da Siponto, ambedue opera de’ Germani, e Troia de’ moderni greci, e Melfi e Aversa de’ normanni, de le quali tutte al suo loco special menzione faremo. Né in questo tacerò Amalfi, piccola terra, capo de la costa di Picenza, a la quale tutti quelli che il mare solcano [p. 15 modifica] debbono officiosamente eterne grazie referire, essendo prima in quella terra trovato l’uso e l’artificio de la calamita o del bussolo, col quale li naviganti, la stella tramontana infallibilmente mirando, dirizzano il loro corso: si come è pubblica fama e li amalfitani si gloriano, né senza ragione da li piú si crede, essendo certo che li antichi tale instrumento non aveano, né essendo mai in tutto falso quello che in molto tempo e da molti si divulga.

Un’altra cosa memorabile di Amalfi non mi pare da pretermettere: che la origine e principio de l’ordine de’ Cavalieri de l’Ospitale di san Giovanni ierosolimitano (che sono quelli che oggi hanno il suo capo a Rodi e portano la croce bianca) fu da uomini e mercatanti amalfitani: li quali ebbeno giá tanta autoritá e grazia appresso al Soldano di Egitto, che impetrorno di edificar la chiesa di Santa Maria de la Latina in Hierusalem appresso il sepolcro di Cristo e un ospitale sotto il titolo di San Giovanni cipriota, detto Elemosinario. Al servizio del quale fu poi instituito il detto ordine della Milizia e cavalieri di San Giovanni: si come io ho letto ne le istorie autentiche de le cose orientali fatte da’ cristiani in Siria e in Giudea.

Non mi curerò in questo loco versarmi ne le laudi del regno, in voler narrare quanto el sia in molte sue parti ameno, dilettevole e salubre, quanto opportuno a le cose marine, quanto fertile e opulento di tutte le cose che a la vita de li uomini sono necessarie, essendone tutti i libri (oltre la evidenza) pieni; cagione forse perché tanto da molti sia sempre stato desiderato, e da li suoi abitatori, per troppo copia e ubertá, si spesso messo in travagli e turbolenze di guerre: per la qual cagione, da poi che memoria di scritture latine e greche si trova, sempre le nazioni esterne si sono ingegnate occuparlo, e li nuovi abitatori, cacciando li vecchi, l’hanno usurpato. Si come, de’ vetustissimi parlando, li enotrii, i pclasgi, li ausonii, li aurunci, li etrusci, li osci, li opici, li nomi de’ quali la vetustá da le menti de li uomini ha giá cancellato; oltra i liburni, che sopra la riva del Tronto [p. 16 modifica] edificorno giá una cittá di quel nome che ora è estinta, e oltra li illirii, de li quali essendo passati in Puglia nove giovini con nove donzelle, detti ora pediculi e ora peucezi, in spazio di tempo di loro produsseno in quelle regioni tredici popoli, tra li quali Bari e Iovenazzo ancor furono; si come ancor quelli, di chi fresca e recente memoria insino a questo tempo si serva, e noi nel processo demonstraremo, i quali lo hanno per simil modo occupato, come greci, goti, longobardi, saracini, normanni, germani, francesi, spagnoli: in modo che veramente si può estimare che niuno al di d’oggi dei detto regno sia ingenito, né che famiglia o popolo alcuno per antica origine di quello sia nativo, ma piuttosto da esterna gente e nazione tutti discesi.

Lasciaremo ancora di commemorare li uomini militari di questo regno e che hanno portato pregio di virtú d’arme, come Adriano imperatore per origine di Adria d’Abruzzo, e Gaio Mario d’Arpino, essendo pubblica confessione di ogni uomo, che fortissime nazioni di tutta Italia sieno peligni, frentani, marsi e sanniti; sapendosi ancora come ne le guerre di Archidamo e Cleonimo spartani e di Agatocle siciliano e di Alessandro epirota e di Pirro molosso e di Annibai cartaginese e ne le civili di Iulio Cesare e Pompeo e d’altri romani, le genti regnicole ne le cose belliche si sieno portate. Dirò ben questo (poi che per un discorso in questi propositi siamo entrati) questo regno solo avere prodotto tutti li uomini che di dottrina et erudizione latina sono stati ornamento, e de le piú nobili sette di filosofi prestantissimi autori; e quelli che di esso nativi non furono, nondimeno degno lo stimorono ove la loro vita, ozi e studi traducessino, come furono Pitagora, Platone, Erodoto, il quale in Thurii terra di Magna Grecia scrisse la sua Istoria, Vergilio, Livio, Piotino, li quali in diversi lochi del regno ebbeno loro diversorii, ebbeno ville, composeno opere, tennero famose scole, ancor che Greci o Galli o d’altra patria fussino. Ma chi sará che non dica il regno di Napoli solo esser quello, a chi la nazione latina e italica tutto obbligato debba essere, avendo [p. 17 modifica] del suo gremio tutti li eccellenti ingegni in ogni erudizione e disciplina prodotti? si come in filosofia Archita et Eurito per nazione tarentini, Alcmeone e Filolao nativi da Cotrone, Zenone, Leucippo e Parmenide de la Scalea, Ippaso da Metaponto, Timeo da Locri, terra per vetustá consunta, Ocelo di Lucania e Tomaso prossimo a l’etá nostra, lume d’ogni erudizione, da Aquino. Non tacerò la gloria de’ poeti e oratori che questo regno ornarono e ora la lingua latina onorano: Ennio vetustissimo poeta Rodi in Puglia ebbe per patria, alias Rudia, in Terra d’Otranto (vedi Strabone), Lucilio Aurunca giá a Benevento vicina, Pacuvio poeta tragico fu nativo cittadino di Brundusio; Venosa di avere Orazio cittadino si vanta, Sulmona di Ovidio si gloria, Napoli di Stazio, Aquino di Iuvenale, Amiterno di Sallustio, e di Marco Tullio Cicerone, fulmine d’eloquenza, Arpino. Per la qual cosa felicissimo regno chiamar si potria, se la propria felicitá per la naturale incostanza de li uomini non li fusse inimica.

Poiché adunque questi fondamenti di notizia a l’istoria nostra del regno di Napoli, quasi in un passar correndo, avemo gettati, non sará forse inconveniente se un’altra utile cognizione secondariamente per evidenza proponeremo, in significar chi fussino e donde venissino quelle genti e nazioni, de le quali principalmente avemo a ragionare e le quali essere entrate in questo regno demonstraremo, per non lasciare scrupolo alcuno ne la mente dei lettori: affinché, prima instrutti de la qualitá de’ popoli, li gesti poi loro e le condizioni del regno piú chiaramente senza alcuna esitazione comprendano. Le nazioni veramente de le quali avemo principalmente a parlare son queste: goti, vandali, longobardi, saracini, normanni, svevi, franchi, catalani, aragonesi e turchi; lasciando i greci come nazione notissima, ancor che di loro ne la istoria non piccola menzione si faccia.

Goti, detti antichissimamente geti. Benché da molti scrittori sieno detti sciti per origine, nondimeno secondo le vere descrizioni de’ geografi, essendo la loro origine in Europa, non possono esser sciti, che sono nazione asiatica; però che [p. 18 modifica] uscirono di un paese detto Scandia da greci, Gozia da italiani, da molti latini istorici Scandinavia e da todeschi Gottland, che in lor lingua suona * de’goti terra’. Et è ne l’Oceano germanico, a rincontro di Sarmazia di qua dal fiume Tanai, termine de l’Asia e de 1 ’ Europa, per gran spazio in ambiguo se deve esser nominata isola o peninsula; perché si tiene per una lingua, ovvero braccio di terra assai angusto, con Svezia ovvero Norvegia, e secondo il flusso e riflusso del mare si copre e discopre quella lingua, in modo che ora pare isola e ora peninsula, et è piú del tempo peninsula per il ghiaccio che li stringe si le acque di sopra che son basse, che pare sia terra continuata.

Di questa terra adunque anticamente usciron li goti, con incredibil moltitudine, uomini e donne, e discesero in Sarmazia, oggi in buona parte detta Polonia, e sino al tempo di Lucio Lucullo e poi di Augusto cominciorno a esser conosciuti e dare qualche suspizione di sé a l’imperio romano; poi di tempo in tempo facendosi innanzi, per forza d’aFme subiugorono le provincie vicine verso il Ponto Eusino, detto Mar maggiore, e verso il Danubio, in tanto che al tempo di Domiziano avendolo passato, occuporono la Pannonia e vinseno li capitani romani mandati da Domiziano per cacciarli. Traiano poi li superò e vinse e rebuttolli di lá dal Danubio ne le provincie prima da loro occupate; né stando mai quieti con li imperatori che a Traiano successene, al tempo che Filippo imperava, ripassorno di qua dal Danubio piú che trecento mila di loro, et essendoli mandato Decio a rincontro da Filippo, dopo molte e varie battaglie Decio li lasciò piú presto vincitori che vinti. Essendo poi lacerato lo imperio di Roma da quelli trenta tiranni, che in vari lochi si usurpomo li eserciti e il nome de l’imperio in modo che non si potea chiamar piú monarchia, si fecero innanzi, e oltra la Pannonia andando piú verso levante, preseno la Mesia e parte de la Tracia, oggi detta parte Rascia e Bulgaria e Romania, e passorono in Asia dominando per tutto dove andavano. E in questa prosperitá stetteno fin che Claudio II fortissimo impe[p. 19 modifica] ratore, addatoli incontro, li ruppe per terra e per acqua e in piú volte vincendoli, al numero di trecento mila ne occise e prese; quella parte di loro che di lá dal Danubio ne la Sarmazia provincia romana era rimasta, Constantino Magno la debellò, e in fine poi con essi fece pace, lasciandoli quella provincia per loro abitazione, e da quel tempo in poi sempre quasi con i romani ebbeno piú presto amicizia e pace che guerra, e con loro militorno. Et essendo stati circa settanta anni in Sarmazia, li unni, terribile nazione di Scizia, sopravenendoli addosso li vinseno e li tolseno la provincia al tempo di Valente imperatore: il quale, per paura che li unni non passassino contra di lui di qua dal Danubio ne le provincie de l’imperio, per valersi del presidio dei goti li ricettò ne la Mesia e ne la Tracia, e feceli fare cristiani, benché secondo la setta de li eretici ariani, la quale esso Valente ancor tenea, e condusseli al suo stipendio. Ma non passando poi li unni il Danubio, anzi andati verso la Germania e occupati in gran guerre contra burgundioni e altre nazioni ponentine, quelli de l’imperio, come liberi da la paura de li unni, trattavano male li goti né li pagavano li loro stipendi; il perché da sdegno e da necessitá costretti, si rebellorno da Valente e ammazzorno li suoi officiali e tesorieri, e occuporno la Mesia superiore e la Dacia Ripense, che è tra le due Mesie di qua dal Danubio, e la Tracia, ponendo ne le fortezze lor gente e presidii. E andandoli incontro Valente, in una gran battaglia appresso Adrianopoli fu rotto e bruciato in una casa di un villano; e non è dubbio che li goti in quel tempo si seriano fatti signori de l’imperio, se non che Graziano, imperatore che successe a Valente, chiamò d’Ispagna Teodosio uomo valoroso e se lo fece compagno ne l’imperio. Il quale venuto a Constantinopoli, in varie battaglie domò li goti e indusseli a pace con l’imperio, con tutte quelle condizioni e stipendi che volse. Perseverorno poi li goti ne l’amicizia e stipendio de li imperatori romani sino a Radagaso e Alarico, che tenne la Spagna e prese Roma e insin a Teodemiro re pronepote di Alarico: il quale venendo insieme con Valemiro suo compagno [p. 20 modifica] nel regno di Spagna e di Gallia, debellò li figliuoli di Attila re degli unni in Pannonia e fece amicizia e pace con Leone, il quale fu il primo di nazione greca che imperasse in Constantinopoli. Di quel Teodemiro e di Arileva sua concubina fu figliuolo Teodorico nobilissimo giovine e vittorioso, tanto amato da romani e da greci: il quale essendo di etá di diciotto anni mandato dal padre con l’esercito in Sarmazia, passò il Danubio, e debellato e morto Babacco re dei sarmati, al padre, che allora era in Mesia, con splendida vittoria tornò. Poi da Zenone imperatore, successore di Leone, fu fatto patrizio; e li dedicò una statua equestre in Constantinopoli e fecelo re d’Italia e fu cognominato Magno. Dopo la morte del quale circa settantanni, furono le successioni e guerre de’ goti in Italia, come nel processo demonstraremo. Questo è brevemente quanto mi è parso transcorrere de l’origine e successo de’ goti, i quali per tant’anni gloriosissimamente in molte guerre e paesi si portorono, de li quali circa ducento conversorno con romani. Aggiungerò ben questo per notizia, che prima al tempo di Valentiniano imperatore e di dui loro re Frigiderno e Alarico, essendo tra loro divise le amministrazioni de le provincie e de la moltitudine de le lor genti, fu introdotto che li goti i quali praticavano la parte verso levante si chiamassino ostrogoti, che in lor lingua sonava ’orientali goti’, e quelli di ponente si chiamassino viscigoti, cioè ’occidentali goti*. Questo a notizia or basti dei goti, li cui successori ancora ne la Spagna e in parte d’Italia oggidí regnano.

Dei vandali, tra tutti li scrittori romani antichi solo Cornelio Tacito pone il nome, facendoli nazione germanica; ma tutti li altri posteriori ad un consenso dicono che furono di Scizia, e usciti in gran moltitudine de la lor patria, passorono in Sarmazia in quella parte che è oggi detta Polonia, e da un fiume chiamato Vandalo, sopra il quale abitorno, furono detti vandali, e si esteseno sopra il Danubio. Ma cacciati da’ goti, sottomettendosi a l’imperio, impetrorno da Constatino di stare in Pannonia: ove stati circa sessant’anni e [p. 21 modifica] fatti potenti, al tempo di Arcadio imperatore rebellatisi a’ romani, entrorno in Gallia, la quale in molti modi adlisseno. £ cacciati da’ goti si ridusseno in Ispagna, la quale similmente in buona parte dominando tennero alcuni anni: onde ancor oggi dal lor nome è chiamata una parte di essa Vandalusia e in latino Vandalia. Ma Onorio imperatore diede la Spagna a’goti con patto che ne cacciassino li vandali: questi stretti da’ goti non aveano piú rimedio al loro ultimo eccidio, se la discordia di Bonifacio et Ezio capitani romani non li avesse trovato rifugio. Imperocché, essendo mandato un capitano contra Bonifacio, chiamato Sigulto, non parse a Bonifacio poterli resistere e con le sue forze sole poter tenere l’Africa; per la qual cosa vedendosi inferiore ad Ezio, passò in Ispagna e fatta lega con essi vandali, li introdusse in Africa, nel tempo che Augustino sommo dottore de la Chiesa era vescovo di Ippona. I vandali adunque in Africa diventorno potenti e in breve la dominorono sotto alcuni re sino a Genserico, che rubò Roma, e dipoi sino a Guilimero ultimo loro re: il quale vinto e preso fu menato a Constantinopoli in trionfo da Belisario gloriosissimo capitano: per la virtú e opera del quale, prima contra Guilimero e in un’altra spedizione contra Guntarith, che il nome del re si avea usurpato, l’Africa fu recuperata a l’imperio e il nome di vandali al tutto fu estinto e annullato.

Longobardi de la medesima isola di Scandia donde li goti, ancor loro uscirno; imperocché essendo moltiplicata tanto la loro nazione, che il suo paese non ne era capace, feceno di loro tre parti, e poi gittate le sorti, quella parte sopra chi cadde usci de l’isola, ovvero peninsula che la sia, e sotto due capitani, Aio e Tato, per forza d’arme si feceno la via in Sarmazia e in Germania, ove occuporno alcune provincie, sforzando li primi abitatori d’esse a tórli con loro in compagnia; et essendo prima chiamati vinnuli, furono detti longobardi perché, secondo alcuni scrittori non molto antichi, soli fra tutte le nazioni germaniche usavano le barbe e le nutrivano lunghe, e però detti quasi longhibarbi. (La quale etimologia [p. 22 modifica] però a me non piace, perché Tolomeo cosmografo e la lingua greca, la qual prima conobbeno i longobardi che la latina, e li libri vetusti latini li chiamano longobardi: il perche non è vero che da la lunghezza de le barbe sieno appellati). E in Germania abitorno circa al Reno da la parte settentrionale di esso, tra li cauci e li svevi; e di loro dice Cornelio Tacito che erano pochi e nobili, e che essendo posti tra gagliardissime nazioni si vivevano sicuri, non perché compiacessino né si umiliassino a’ loro vicini, ma per stare sempre in arme e in guerre e con la spada mantener la loro libertá. Costoro sotto dieci re molte provincie conquistorno, e fra le altre, la Rugiland e la Bulgaria e la Pannonia insino ad Alboino re. Il quale, chiamato da Narse eunuco capitano di Iustiniano imperatore, che dappoi vinti li goti stava a Napoli, movendo di Pannonia insieme con li ungari, nazione scitica poco innanzi venuta in Pannonia, che da loro ebbe poi nome Ungaria, passò in Italia e venne a Verona. E tanto prosperorno dopo lui li longobardi, che sotto molti altri re e capitani tennero Italia tutta, eccetto Roma, circa anni 232, finché sotto l’ultimo suo re Desiderio furono da Carlo magno debellati, come al suo loco ricordaremo.

Saraci ni altro non sono per prima origine che arabi. La loro nazione è questa: Abraam patriarca, marito di Sara, ebbe di una sua serva chiamata Agar un figliuolo nominato Ismael; li discendenti di questo Ismael crebbono in gran generazione e tennero per loro abitazione tre gran paesi, ovvero provincie, tutte dette Arabia, una cognominata felice, l’altra petrea e la terza deserta: né altro in lor lingua vuol dire Arab che f deserto *. Sono confinate queste tre Arabie dal seno Persico e Arabico da due bande, da li altri lati hanno la Babilonia di Assiria e parte di Mesopotamia e di Soria e di Giudea. E in tanto si sono estesi, che insino al di d’oggi tengono le montagne di Soria e la maggior parte de li deserti di Egitto e di Libia. Furono da principio chiamati, ora ismaeliti dal loro autore, ora agareni dal nome de la madre di Ismael; poi quasi vergognandosi di quelli nomi, usurporono [p. 23 modifica] il cognome de la moglie legittima di Abraam, chiamandosi da. Sara saracini, e dal nome de li loro regni sono chiamati arabi. Questi saracini militarono molte volte con romani, e ultimamente sotto Eraclio imperatore contro Cosdroe re dei Parti, nel tempo che Maumeth, ancora lui Saracino, nato arabo, con buona compagnia sotto Eraclio militava; e una volta combattendo in certo fatto d’arme, fu da un turco fe-t rito nel volto: e poi finita la guerra, a certe montagne a latrocinare, secondo l’usanza de’ suoi compatrioti, si ridusse. Accadette che vinto Cosdroe, dimandando un procuratore de la compagnia de’ saracini denari ad un eunuco tesoriero di Eraclio, et instando importunamente di averli, l’eunuco adirato li disse in questa sentenza: — Tu sei fastidioso, saracino; credi tu ch’io voglia dare a li cani il pane ch’io debbo dare a li figliuoli? — Rispose il saracino:—Adunque siamo noi cani? — E senza dire altro montato a cavallo, tornò volando a li suoi, de’ quali era capitano Omar saracino e disseli: — Io torno vuoto di denari, ma carico d’iniuria e di villania. — E feceli intendere la risposta de l’eunuco. Allora tutti li saracini indignati si levorno e andorno a trovare Maumeth, uomo allora in grandissima opinione di animositá e di prudenza in quella nazione e lo feceno loro capo de la rebellione. Maumeth, vedendosi cresciuto e fatto potente di buon numero di gente d’arme, e l’imperio romano esausto per le guerre, e il regno de’ Parti vinto e impoverito, cominciò a pensare di volersi acquistare il regno di Oriente. Onde, aiutato dal consiglio d’un monaco chiamato Sergio, cacciato per eretico nestorino da Constantinopoli, deliberò, per ottenere il suo intento, congiungere la religione con la forza: per la qual cosa, come sagacissimo, per compiacere ad ogni nazione, fecesi prima battezzare da Sergio, poi tolse la legge giudaica e la legge cristiana e le opinioni di tutte le eresie che allora erano in vigore; e da tutte queste levò ogni cosa che parse a lui che fusse o impossibile a credere o difficile a servare, e di tutte ne fece una mistura componendone un suo libro chiamato Alcorano, la qual parola significa ’ collezione di precetti \ Nel [p. 24 modifica] quale lodando Moisé, David e Cristo, lo diede a li sudditi ne la cittá de la Mecca in Arabia Felice, comandandoli che osservassino quello, come libro portato dal cielo per l’angelo Gabriel, si come ancora dal cielo avevano avuto li suoi predecessori Moisé il vecchio Testamento, David il Psalterio e Cristo l’Evangelio,’ e fecesi chiamare messo di Dio. Cosi con l’autoritá de la religione e con la forza de la spada, con la licenza del vivere a lor modo e con la relevazione de li tributi si sottomise la Media, la Persia, la Siria, la Giudea, l’Egitto e l’Africa e quasi tutte le provincie cristiane d’Oriente, ampliando il nome e la legge e la reputazione de’ saracini.

Questi sono li saracini, li successori de’ quali grandissime guerre e danni feceno a l’imperio constantinopolitano e che passarono in Italia, come a suo loco diremo. E ancora molti paesi tengono, se bene superati da’ turchi circa dieci anni, o poco piú, prima che si facesse il gran passo di oltramare al tempo di Gottfredo Buglione duca di Lorena, e ora sotto l’imperio de’turchi si trovino e abbino in parte mutati li nomi; imperocché li nobili e potenti che hanno qualche grado verso l’Asia e la Persia si chiamano turcomanni, e li popoli che abitano la Soria e la Giudea e l’Egitto si appellano saracini, e quelli che abitano l’Africa, per rispetto de la Mauritania si chiamano mauri, ovvero mori. Quelli che stanno a le montagne e non hanno cittá, e anche pochi castelli o casali, ma vivono scorrendo li paesi di Soria, di Giudea, di Arabia, di Egitto e di Africa, rubando ogni nazione, si hanno ritenuto il nome antico di arabi: gente fiera e inumana, i quali sempre da la loro origine e sino al presente hanno visso e vivono di cacciagione e di rapina, menando lor vita con tutte lor famiglie a l’aere sotto tende e trabacche, mutando il paese al modo fanno li sciti. Altr’arme non hanno che ’l cavallo e la targa e l’arco e le saette e le lancie, le quali fanno di una sorte di canne che appresso loro nascono, piene di medulla, solide e durissime. Sono di statura giusta, di corpi asciutti, che quasi pareno senza umori; il volto bruno e fosco, poca barba e rara. Il loro gesto e andare e portamento di [p. 25 modifica] persona, pieno di gravitá e di reverenza; di forza e destrezza e agilitá di corpo a niuna quasi nazione sono inferiori. Questo brevemente per notizia de’ saracini sia detto.

Normanni per antica loro origine sono goti: i quali occuporno quella peninsula grande ne l’oceano germanico anticamente chiamata Chersoneso Cimbrica, oggi in latino detta Dania , e dal vulgo corrottamente Dazia, e però li moderni re di quella provincia si intitolorno re dei dani e dei goti. Avevano per consuetudine questi dani consegnare lo stato e la ereditá tutta al primogenito: li altri figliuoli mandavano fuora de la provincia, come ancor oggi in molte provincie di quelle parti si osserva. Lutrocco re dei dani, non ancor cristiano, avendo un suo figliuolo di buona indole e da lui amato, ma non primogenito, per nome Biergosta, e mandandolo fuora del regno, lo raccomandò ad un suo barone detto per nome Astingo e di valorosi uomini buona compagnia li dette. Costoro, montati sopra un’armata, se ne vennero a li liti di Gallia, et entrati ne la Piccardia sino a Vermendois predando e acquistando, bruciorno San Quintino e Noione e occuporno molte regioni facendo gran danno per il regno di Francia per spazio di circa quarant’anni; finché fu fatto un loro capitano chiamato Rollone, il quale animoso e potente, facendo tre armate, e per tre fiumi, cioè l’Era, la Senna e la Garumna, entrando da tre bande in Francia, prese e bruciò molte cittá facendo grandissime prede e occisioni, al tempo di Carlo cognominato Semplice, XXVI re di Francia. Carlo impotente a resistere fece trattar pace e colloquio tra Rollone e lui, per uno chiamato Franco, vescovo di Roano; e venuti a parlamento sopra un fiume detto Epta, stando ciascuno in diversa riva, concluseno pace in questo modo: che Rollone si facesse cristiano e pigliasse per donna Gillia figliuola di Carlo e in dote avesse la provincia di Neustria, la quale ha per confini la Senna da settentrione e il mare Oceano da ponente e da mezzodi la Bretagna e da levante la Epta fiume predetto. Conclusa la pace, Rollone fu battezzato e chiamato Roberto, dal nome di Roberto conte di Poiters che lo tenne a battesimo; [p. 26 modifica] e menò Gillia sua donna. E la provincia di Neustria volle che si chiamasse Nortmannia, il qual nome suona * gente settentrionale ’, però che in lingua daziana north. significa e settentrione 5 e man vuol dire * uomo Onde poi corrotto il vocabolo, si è sempre chiamata Normandia; se bene alcuni senza fondamento alcuno di ragione e di autoritá dicono i normanni aver avuto il nome e l’origine da quelli popoli di Gallia, i quali Iulio Cesare, Plinio e Antonin Pio chiamano veromandui. Di questo paese e di questa nazione adunque e quarantanni dappo’ il tempo di quelli che guerreggiavano in Francia, vennero in Italia con la sua compagnia Roberto e Riccardo e li altri, de li quali avremo a ragionare in processo di questo nostro scrivere. Non voglio omettere un festivo e ridicolo atto che fece Rollone predetto, notato da li istorici in questa forma. Il di che Carlo li diede Gillia per donna e li fece la consegnazione di Neustria, fu da li circostanti esortato a baciare il piede al re secondo l’usanza regale in simili atti. Rollone non degnandosi di inclinare li ginocchi per farlo, prese il piede del re e alzandolo se l’accostò a la bocca e baciollo. Ma in tal modo lo alzò, che ’1 re cadette resupino e roverso sopra la sedia: il che vedendo li normanni tutti levorno un gran riso, ma li francesi turbati dimostrandone ira e indignazione aspramente lo ripreseno. Tuttavia fu imputato quell’atto a semplicitá, imperocché Rollone scusandosi disse, cotal modo di baciare essere antica usanza de la sua provincia.

Svevi sono nazione todesca di qua dal Reno tra la Franconia e la Baviera e la valle de l’Eno e il contado di Tirolo. Iulio Cesare la chiama grandissima nazione dicendo che abitavano cento pagi, ovvero castelli, e che erano bellicosissimi tra’ Germani; perché stimavano somma gloria il cacciar li vicini et estendere lungamente li suoi confini, e lasciarli deserti, parendoli cosa di molto onore non aver vicini che ardire avessino di accostarseli. E però si dice che da una banda di Svevia erano seicento miglia di solitudine, e Cornelio Tacito li fa grandissima nazione distinta in piú nomi, in modo [p. 27 modifica] che ottengono la maggior parte di Germania. Oggi è tenuta umana, civile e nobile nazione quella che infra li detti confini ha ritenuto il nome di Svevia, soggetta alla casa d’Austria e di Baviera e dei marchesi di Bada e dei conti di Vertiinberg: e ha molte nobili cittá, tra le quali è Campidona e Memminga e Olma e molte altre, e ha il fiume Lieo e il Flavio e l’Ilaro e la fonte donde nasce il Danubio nel monte di Arnoba, in una villa chiamata Daneschingen, che in lingua alemannica vuol dire * Lavadore del Danubio \ Tra questi svevi era una famiglia nobile e valorosa ne l’arte militare, chiamata casata di Staufen, de la quale essendo un Federico uomo molto illustre nel mestiero de l’arme, Enrico IV imperatore li diede per donna Agnese sua figliuola, nata per madre de la casa de’ Carli di Francia, e fecelo duca di Svevia. Di questo Federico duca di Svevia nacque Corrado li imperatore, e di Corrado Federico I imperatore, cognominato Barbarossa, del quale nacque Enrico VI imperatore, del quale poi nacque Federico II nobilissimo re di Sicilia e di Napoli e imperatore, del quale, e suoi successori, ne l’istoria accaderá parlare. E questo per notizia de’ svevi sia bastante aver detto.

Francesi: benché sieno assai noti, nondimeno per piú chiarezza de l’istoria in poche parole la somma de la loro nazione diremo. Lasciando molte cose favolose, che da alcuni loro scrittori sono dette, che da Priamo re troiano discendessino, quello ch’è concorde opinione di veritá è questo. Franconia è una provincia di Germania, che da levante e tramontana ha la Boemia e la Turingia e l’Assia; da ponente il Reno; da mezzodi la Svevia e la Baviera. Da questa provincia al tempo di Valentiniano imperatore uscirno Clodio e Meroveo con gran numero di gente, con intenzione di passare in Gallia per trovarsi nuove abitazioni. Ezio, capitano fortissimo romano, in quel tempo governava la Gallia, e crescendo ogni di la fama che Attila re de li unni veniva in Gallia, ancor che ’l tórre gente esterna in quel paese non li piacesse, pur per esser piú forte contro li unni, fu contento passassino il [p. 28 modifica] Reno, e li accettò volentieri, consegnandoli una regione di Callia, che coi Burgundioni è contermine. E da quel tempo quel paese ove furono posti, dal nome de la sua provincia Franconia fu chiamato Francia, si come loro Franchi. Ezio in modo se li fece amici, che in quella grandissima battaglia, de la quale maggiore in istoria non si trova, ch’ei fece con Attila ne le campagne di Catalauno, diede il governo del destro corno a Meroveo. Morendo Meroveo, successe a lui nel regno di Francia Clodoveo suo figliuolo, il quale fu animoso, prudente e fortunato e acquistò nome grandissimo ne l’arme. Da questi Meroveo e Clodoveo andò la successione loro nel regno per loro eredi 250 anni o piú, insino ad uno chiamato Teoderico: il quale essendo uomo rozzo di ingegno e inetto ad ogni regale officio, era governato da consiglieri, i quali piú presto il ben lor proprio che quello del regno procuravano. Era in quel tempo in Austria, provincia ancor germanica, principe uno chiamato Pipino, il quale vedendo il regno di Francia per mal governo facile da potersi acquistare, fatto un buon esercito passò in Gallia, e rotti e dissipati li governatori del regno con li loro eserciti, e ricevuto benignamente da Teoderico, fu creato suo maggiordomo, la quale dignitá era allora prima nel regno. Morto Pipino, Carlo Martello suo figliuolo li successe, uomo gloriosissimo e che fece gran fatti e nondimeno altro titolo non ebbe che il paterno, di maggiordomo. Dappo’ il Martello successe suo figliuolo Pipino II, il quale in niente dissimile al padre e a l’avo fece grandissime cose per Childerico suo re; nondimeno, essendo Childerico inetto a tanto regno (chi si fusse l’autore, o li baroni oppur Pipino) fu operato in modo che con l’autoritá di Zaccaria, allora pontefice romano, Childerico fu deposto dal regno e Pipino II fatto re di Francia: il quale fu poi padre di Carlomagno. Cosi in Childerico mancò la linea dei Merovei nel regno di Francia, e cominciò quella dei Carli ne l’anno di Cristo 752. Essendo poi successi molti re de la stirpe dei Carli, e mancata quella ne l’anno 992, Ugo cognominato Ciapetto, conte di Parise, fu coronato del regno di Francia, e li [p. 29 modifica] suoi successori per retta linea insino a l’anno 1327 regnorno. E dappoi Filippo detto di Valois, ben propinquo per linea mascolina, ma transversale, a quella del Ciapetto, cominciò a regnare, li successori del quale al di d’oggi nel regno perseverano; essendo prossimamente creato re Luigi XII di questo nome, giá duca di Orleans, ne l’anno presente 1498. Questa è la origine e processo de’ francesi, de li quali furono chiamati alcuni re nel regno di Napoli, si come al suo loco si dirá; nobile nazione per una singular proprietá, che sola tra tutti li altri regni, avendo avuto da Meroveo sino al presente cinquantacinque re e regnato oltre mill’anni, sempre inviolabilmente, senza alcuna infezione di eresia, ha servato la fede e la religione cristiana: per la qual cosa li suoi re il nome di cristianissimi si hanno vindicato.

Catalani e aragonesi: benché ancor loro assai sien noti, nondimeno qualche cosa occorre dire che è bene a saperla. Sono nazione spagnola, di quella parte di Ispagna che è detta anticamente tarraconense, ovvero citeriore. Catalani furono cosi chiamati, imperocché al tempo di Onorio imperatore, quando Alarico goto in Italia prese e saccheggiò Roma, Alani, svevi e vandali e altre barbare nazioni passorno il Reno e scorrendo tutta la Gallia pervennono a li monti Pirenei, che la Gallia separano da la Spagna: ove non essendo stati molto spazio di tempo, aperti li passi de’ monti per fraude e perfidia di quelli che li guardavano, quasi come un diluvio queste nazioni inondorno la Spagna, scorrendo, devastando e domando quelli che prima l’abitavano. Li Alani tra l’ibero e Rubricato fiumi, ove giá erano li popoli detti iaccetani, si fermarono; circa quattro anni poi, morto in Italia Alarico e fatto suo successore Ataulfo, un capitano di Onorio chiamato Constanzo, a chi era commessa la Gallia, cacciò li goti di Narbona e di quella provincia, i quali ancora, passati in Spagna, nel medesimo loco ove erano li Alani si ridusseno. E avendo un tempo maltrattata e lacerata tutta quella regione et essendo stato morto in Barzalona da li suoi Ataulfo, finalmente accordandosi insieme a la comune abitazione e cultura [p. 30 modifica] del paese goti e alani, la consuetudine del parlare a poco a poco di due popoli e due nomi ne fece uno e furono detti gotalani e la provincia Gotalania: il qual nome, alquanto mutato poi dal comune e vulgar uso del parlare, è ridotto in questo che oggi usiamo, catalani e Catalogna. Capo di questa nazione, si come allora, ancora è oggi Barzalona, anticamente detta Barellinone. Né prima che Alfonso re di Aragona fusse chiamato al regno di Napoli, fu il nome celebrato in Italia, eccetto qualche poco da marittimi popoli conosciuto. Aragonesi sono di lá da’ catalani verso ponente piú presso al fiume Ibero e il regno di Valenza: da Tarracona, antica cittá edificata da Publio e Gneo Scipioni fratelli romani nel tempo de la seconda guerra cartaginese, cosi detti, quasi tarraconesi. Li antichi spagnoli il regno di Aragona da la Catalogna aveano giá per distinto, poi fu Catalogna unita con Aragona in questo modo: non essendo re in Aragona, li popoli fecero loro principe un gentiluomo chiamato Piero Tares, il qual non era de la successione e sangue dei goti. Costui fatto re, diventato superbo e insolente, venne in odio a li sudditi e in poco tempo fu privato del regno. Né si trovando altri allora, con autoritá apostolica cavorno del monasterio uno chiamato Ranimiro, figliuolo bastardo di Sancio maggiore, del quale prole legittima non era restata, e lo coronorno re di Aragona ne la cittá di Osca; e fu primo re di Aragona de la casata dei goti e cominciò a regnare circa l’anno 1017. E li diedero per donna una sorella del conte di Poiters, de la quale ebbe una figliuola chiamata Urraca. Fece poi alcune guerre con Mori e vinse, e pacificò il paese; et essendo assai semplice e insidiato da’ suoi baroni, raccomandò sé e il regno e la figliuola fin che fusse in etá da marito, ad Alfonso settimo re di Castiglia, e tornò nel monasterio, ove fini la sua vita. Urraca sua figliuola al tempo fu data per donna a Ramondo conte di Barzalona, il quale mediante la persona de la mogliere successe nel regno di Aragona. E in questo modo Catalogna e Aragona rimaseno allora unite in un regno: nel qual poi vacando la linea del conte Ramondo, successeno [p. 31 modifica] quelli de’quali ne l’istoria nostra sequente parlaremo. Una cosa trovo scritta di questo Ranimiro, la quale per un poco di digressione intendo narrare. Essendo, come abbiamo detto, molto semplice e avendo a andare contro a’ Mori, li suoi baroni Io armorno e poseno a cavallo, poi ne la man sinistra li diederno la targa e ne la destra la lancia. Porgendoli poi le redini de la briglia, disse Ranimiro: — Datemele in bocca, perché le mani sono occupate. — Del qual atto e altre sue cose puerili ridendosi immoderatamente li suoi baroni e senza alcuna reverenza dileggiandolo, Ranimiro, deposta un di la sua naturale e monacale semplicitá, fece venire in Osca undici de li suoi nobili e baroni, e feceli tagliar la testa, non dicendo altre parole in sua lingua che queste: No sabe la voipegia con quieti trompegia. Il qual proverbio in vulgar nostro italiano vuol dire: 4 Non sa la volpetta con chi la scherza *. Turchi per la loro prima origine furono sciti, secondo Pomponio Mela e Plinio; ma per la loro ignobilitá poco conosciuti per il passato, appena ricordati alquanto al tempo di Eraclio imperatore, che militassino con Cosdroe re dei Parti. Nazione in ogni modo fu aquilonare di lá da li monti Caspi, dove abitavano per deserti e solitudini grandissime, senza cittá, castelle o ville, senza umanitade o forma alcuna -di repubblica. Mutavano lochi secondo l’erbe e la pastura, vivendo di cacciagione e di armenti di bestiame, e mangiando d’ogni animale, lupi orsi e voltori, né ad altro che a gola e lussuria attendevano. Uscirno di Scizia una gran moltitudine di loro e passato il monte Caucaso, calorno in Persia, e trovata in quella una fertile regione, con volontá del re de’ Persi e con pagamento di certo tributo vi stetteno molti anni, moltiplicando poi in grandissimo numero; e per questo essendo sospetta a’ Persi la lor compagnia, li cominciorno ad aggravare di tributi e angarie, acciò che da per loro per tedio si levassino. E infine per pubblico editto da’ Persi furono de la loro provincia licenziati.

I turchi insino che stetteno misti con Persi non conobbeno la loro potenza; ma partiti di Persia popolarmente, come [p. 32 modifica] ebbeno passato il fiume Cobar di Babilonia, vedendosi di si gran numero e maravigliandosi di lor medesimi de l’avere sopportato tante oppressioni da’ Persi, conobbeno questo esserli intervenuto per non aver avuto un capo e un re che li avesse governati come le altre nazioni. Il perché deliberato tra loro di provvedersi al futuro, elesserno di tutta la lor gente cento de le piú nobili famiglie, ordinando che ciascuna di loro presentasse una saetta: il che fatto, e legatole tutte in un fascio e postole sotto un velo, feceno che un fanciullo a sorte ne tirasse fuora una. Usci al tirar del fanciullo la saetta di una famiglia chiamata Elducei; onde, inteso per questo che di quella tribú, de la quale erano li Elducei, si avea a trar per sorte il re loro, feceno di tutta la tribú eleggere cento uomini li piú reputati che fussino in essa, e a ciascheduno presentar la sua saetta. E fattone il fascio e coperto e tratta in simil modo la sorte, usci la saetta di uno chiamato Selduch, uomo atto e magnifico di persona e gagliardo, a chi degnamente ancor per elezione avriano dovuto dare il regno. Fatto Selduch re, e promessali e giurata secondo lor rito da tutti piena obedienza, subito comandò che ripassassino il fiume e furiosamente scorressino e occupassino la Persia. Cosi fu fatto, e dappoi grande strage e direpzione, occupata la Persia e la Media, crescendo di animo e di potenza, occuporno molte regioni e provincie orientali. Al tempo poi di Constantino imperatore, figliuolo di Leone, il quale cominciò a imperare l’anno 742, voltandosi al ponente passorno in Cilicia, la quale oggi è detta Armenia minore, e quella occuporno e sempre l’hanno tenuta chiamandola Turchia, continuando sempre il far guerra con Persi e con saracini sino a l’anno 1080. E infine stracchi de le guerre e indebiliti, i saracini vennero a pace con questa condizione, che i turchi confessassino e tenessino la legge saracinica di Maumeth: e in questo modo furono contenti i saracini d’esser dominati da’ turchi. Dappoi questo, Belzetto potente re di Oriente venne con innumerabile moltitudine di turchi e di Persi e d’altre nazioni verso l’Asia, l’anno 1071, dando per tutto il guasto dove andava; e fatto [p. 33 modifica] in Asia un grandissimo fatto d’arme con l’imperatore di Constantinopoli chiamato Romano Diogene, lo ruppe e dissipò il suo esercito e occupò l’Asia e la Soria. Et esso Romano fece prigione e qualunque volta facea consiglio con li suoi baroni, 10 teneva prostrato in terra innanzi a sé e uno de li piedi suoi 11 tenea sopra la gola, per magnificenza: la qual cosa avendo fatto piú giorni, in fine lo liberò. Ma tornato che fu a Constantinopoli, li greci indignati di si vile imperatore li cavorno li occhi e de l’imperio lo deposeno.

Poi in quattro lochi pose Belzetto quattro suoi capitani per difensione e tutela de le provincie che avea preso: a Solimano suo nepote diede la Turchia, come per un confine et un muro tra l’imperio e li persiani; a Ducato consegnò Damasco contra il Califo di Egitto, se qualche movimento da quella banda si eccitasse; in Antiochia mise Ansich turco; in Aleppo pose Assagur. Occupati questi lochi principali e debilitati li greci, li fu poi facile occupare il Ponto, la Cappadocia e la Bitinia, la Frigia e la Pisidia e l’Asia e la Caria e la Pamfilia e tutte quelle provincie che oggidí si chiamano per un nome Turchia, e Anatolia da’ greci: che tengono per lunghezza, da la Cilicia sino al braccio di San Giorgio a l’incontro di Constantinopoli, trenta giornate, e per larghezza in alcun loco dieci e in alcun loco quindici. Circa dieci anni dappoi, li principi cristiani passorno a la recuperazione de la cittá santa e a lo esterminio de la setta maumettana; et allora cominciò molto a diffondersi per l’Europa e intendersi in Italia il nome de’ turchi, perché essendo l’una e l’altra nazione, turchi e saracini, uniti insieme a la comune difesa, gran battaglie feceno li’ nostri con loro e gran rotte li detterno. Et è manifesto questo, che quasi tutti li loro capitani furono turchi, e poi il Saladino ancora, uomo valorosissimo, il quale primo ebbe l’imperio de la Soria e de l’Egitto, fu turco, secondo che tutti li scrittori consentono. Dappoi la guerra cristiana e la espulsione de’ nostri di Terra Santa, i saracini furono sempre in total servitú de’ turchi insino al di d’oggi, onde niun saracino può piú avere magistrato [p. 34 modifica] né tenere arme o cavalli; e appresso i turchi soli è il dominio, e li soldani e li suoi nobili e cortegiani parlano in lingua turchesca e a vergogna si arrecariano parlare in lingua arabesca con i loro sudditi. Di questa nazione turca adunque cosi ampliata, possono essere ora cento e ottanta anni vel circa, uno chiamato Ottomano, uomo di sangue e facultade molto infimo e basso, ma di ingegno sagace e d’animo valoroso, vedendo che li signori e capitani loro l’un l’altro per ambizione e avarizia si laceravano, prese occasione di farsi ancor lui grande; e fattosi una compagnia ben di uomini gregari e di ventura, ma disposti ad ogni pericolo e fatica, cominciò a scorrere il paese contra li suoi e li alieni, e a saccheggiare e bruciare terre, e fortificare lochi opportuni e ben muniti: in modo che, concorrendo a la opinione de la gagliardia sua e a la novitá de la cosa gran moltitudine di uomini, si fece in breve tempo autoritá e fama di buon capitano, e con quella mori, lasciando a li figliuoli lo stato, e il nome de li Ottomani a la famiglia. Successe dappo’ lui nel medesimo proposito e instituto di vita Orcane suo figliuolo, uomo piacevole e umano e ne le cose militari espertissimo e liberale in modo, che lo stato e reputazione del padre augumentò. Morto Orcane, succedette a lui Amuratte I, suo figliuolo, in niente inferiore di virtú al padre e a l’avo, ma superiore di astuzia e di prudenza: il quale chiamato in Europa in aiuto di uno de’ due greci che contendevano insieme del regno di Constantinopoli, primo di tutti li turchi passò in Tracia e astutamente prolungando la guerra e lasciando consumare tra loro li due parenti che de l’imperio certavano, prese Gallipoli e alcune altre terre di Tracia, le quali i turchi sempre poi tennero. Ad Amuratte I, Solimano e Baisetto suoi figliuoli successeno. La vita di Solimano fu breve; Baisetto ebbe il dominio tutto et essendo uomo fortissimo e intrepido in ogni cosa e sopra tutto astuto e fraudolente, scorse la Tracia e la Tessaglia e le provincie di Atene e di Tebe: e la Tessaglia e la Macedonia acquistò, passando insino in Servia e ne la Rascia e predando molti paesi. E in fine assediò Constantinopoli [p. 35 modifica] e tanto lo strinse, che l’imperatore usci fuora de la cittá e lasciolla, e in persona venne in Italia e andò in Francia a dimandar soccorso; e il popolo vinto da la fame giá pensava di darsi, e lo aria giá fatto se ’l non fusse che ’l Tamerlano re de’ tartari, passato in Asia con innumerabile moltitudine in quel tempo e prosternando e pigliando ogni cosa, strinse Baisetto a levarsi da l’assedio e passare in Turchia a la difesa de li suoi stati. Fu alfín vinto Baisetto in una gran battaglia dal Tamerlano e preso e menato un buon tempo incatenato drieto a l’esercito: quattro figliuoli di Baisetto fuggendo in Grecia la calamitá del padre, furono presi da l’armata greca e menati a Constantinopoli. Rilasciato nondimeno da’ greci il maggior suo figliuolo chiamato Calapino, ricuperò il regno paterno, partito giá il Tamerlano; e contra Calapino andato Sigismondo imperatore romano, per disordine de’ francesi che avea nel suo esercito fu rotto da’ turchi appresso Nicopoli e perse l’esercito e li carriaggi, e vituperosamente fuggi: e Giovanni duca di Borgogna fatto prigione, con una gran somma di denari si riscosse.

A Calapino successe Orcane II, suo figliuolo pupillo, sotto tutela de’ suoi capitani; ma fu morto da Moise suo zio, fratello di Calapino, il quale occupò la signoria. Regnò poco tempo Moise e morendo senza figliuoli, rimase nel regno dopo lui Maumeth I suo fratello, il quale afflisse molto i cristiani che abitavano nel suo regno e tolse li stati a molti signori de’ turchi e per forza d’arme fece tributaria la Valachia maggiore di lá dal Danubio. Successe a Maumeth I Amuratte II suo figliuolo, uomo di somma virtú e felicitá, il quale volendo passare in Tracia, ebbe per un tempo gran fatica, impedito da le armate de i greci, i quali li mandorno a l’opposito Mustafá quarto figliuolo di Baisetto. Nondimeno Amuratte vinse e uccise Mustafá, e passato in Europa, prese Salonich, grossa terra e potente, e occupò il Despotato, che era in Epiro, e spianò da’ fondamenti il muro de l’Eximilio; entrò ne la Morea, ogni cosa bruciando e predando, e soggiogò quasi tutta la Servia. Ebbe per donna, [p. 36 modifica] tra l’altre sue, una figliuola di Giorgio, despoto di Servia. In un gran fatto d’arme ruppe i cristiani a Varna, loco di Tracia ove il Cardinal Sant’Angelo de’ Cesarini romano, legato apostolico e Vladislao re di Polonia furono morti; e Giovanni Vaivoda fuggi. Rimasto vincitore Amuratte col stato quieto, si ridusse ad una vita solitaria e religiosa a lor modo, lasciando la cura de lo stato a Maumeth II suo figliuolo giovinetto, sotto il governo di Cali suo primo Bassá. Giovanni Vaivoda in quel mezzo, reparato l’esercito per vendicarsi de la rotta di Varna, ne venia in Tracia. Cali avvisato di questo da Giorgio despoto di Servia, parendoli troppa impresa a l’etá di Maumeth, lo fece intendere ad Amuratte suo padre: il quale uscito subito de l’eremitorio, fece un esercito di cento mila turchi e con due navi de’ genovesi, con li quali si convenne di un ducato per testa di nolizzato, passò lo stretto di Gallipoli e venne in Tracia. E venuto a le mani in un loco chiamato Basilsa, dopo una gran battaglia ove perdette circa trenta mila de li suoi, ruppe con grande occisione e cacciò Giovan Vaivoda: ove morirono molti capitani e signori cristiani e quasi tutti li prelati di Ungaria. Dappoi questa vittoria tornò al suo eremo e solitudine Amuratte e pieno di gloria in pace si mori. Successe a lui Maumeth II suo figliuolo predetto, il quale a’ di nostri per forza prese Constantinopoli, Negroponte e Caffa, ruppe Iason Cassano tartaro, fece gran fatti e ampliò il suo stato di due imperi, di quattro regni, di ventidue ovvero ventiquattro provincie e di piú di ducento cittá grosse. Mori ne l’anno 1483, lasciando dopo sé dui suoi figliuoli, cioè Baisetto II, il quale vive e regna in tutto il stato paterno pacifico, e Zizimo, il quale a Roma vedemmo, e in Campania mori. Questo è il sommario de l’origine e processo de’ turchi, de li quali, quanto al regno di Napoli appartiene, avremo nel processo a parlare.

Una breve digressione farò per notizia del Tamerlano, del quale una parola avemo detto di sopra. Fu il Tamerlano di bassa condizione, fatto, per virtú d’arme e animositá, grande. Menò con sé in Asia un milione e ducento mila persone; chia[p. 37 modifica] mavasi ira e flagello di Dio, vendicatore de’ peccati. Fu crudelissimo e avido di sangue. Quando ad una terra si accampava, tendeva il paviglione suo bianco il primo di; se la terra se li dava, altro non voleva che la preda. Il di secondo tendeva il paviglione rosso; e rendendosi la terra, tutti li capi di famiglia occideva. Il terzo di tendeva il negro, segno di morte e di ultima strage; e avendo poi in qualunque modo la terra, tutta la metteva a foco e ruina, e maschi e femine di ogni etá per il filo de la spada mandava. Prese la Persia e l’Armenia, bruciò Damasco, vinse Baisetto, niuna cosa li fece resistenza. Ma durò poco: mori l’anno 1402. Era zoppo e il suo nome era Themirlang : in idioma tartaresco themir significa * ferro * e lang ’ zoppo ’. Noi corrompendo il vocabolo, per Themirlang Tamerlano lo chiamiamo.

Con questi preambuli per evidenza del nostro compendio de la istoria del regno di Napoli, sia finito il primo libro: ora a la narrazione de le cose accadute e fatte in quello, nel sequente libro passiamo. [p. 38 modifica]