Commedia (Lana)/Inferno/Canto XIV

Canto XIII

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Inferno - Canto XIII Inferno - Canto XV
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XIV.


In questo canto intende l’autore trattare di quelli ch’ebbeno per lor superbia in dispetto e odio Dio, e punisceli secondo la division fatta primiera, nel terzo circoletto del primo gùrone: fòlli penare in uno renoso piano, ed essere stimolati da falde di fuoco, le quali li piovano adosso a similitudine come quando neva, che cade l’ acqua gelata a falde; pone che la rena di sotto è si disposta e conforme a tale accensione, che quando la falda vi cade suso, ad essa s’appiglia a mo’ che fa l’esca sotto l’ acciarolo e pietra quando si fa fuoco.

Parteli in tre parti: li più dispettosi stanno supini su la rena, e ricevono quella rogiada: li altri stanno a sedere e molto raccolti per occupar men luogo , tuttavolta aitandosi come possono colle mani a schifar lor duolo; li terzi vanno attorno a questi, e sono in continuo movimento senza riposo.

Tiene tal modo l’autore per allegorìa a significare che la superbia che si hae contra Dio, conviene essere punita da Dio, ed è sì ragionevile giustizia la sua, che le cose basse conferiscono a tal giudizio, siccome la rena. Introduce, come apparirà nel testo, alcune favole poetiche sì in punire alcuni superbi, come eziandìo mostrare l’età del mondo, per una imagine, che fu nell’isola di Greti: la quale elli introduce in questo capitolo per mostrare come da lei procedono quattro nomi di fiumi, li quali fiumi vanno e correno verso lo centro del mondo. In le quali parti si puniscono alcune anime, che per giustizia di Dio hanno più basso luogo che le predette, come in la esposizion del testo apparirà.

Poi in fine del capitolo fa menzione del fiume ch’elli appella Lete.

Circa la qual materia si può far questione, se alcuno uomo può avere odio a Dio. Ed argomentasi prima che no: dice san Dionisio in lo quarto libro De divinis nominibus:— Omnibuss amabile et diligibìle est primum bonum et pulchrum, Dio è quella boutade e bellezza, adonqua non può essere odiato Dio da alcuni. Ancora sicomeappare in li Apocrifi d’Esdra, che dice: omnia intocant teritatem et benignitatem in operibus eius: Dio è quella verità, donqua Dio è amato da ogni uomo; e per consequens non può essere odiato da alcuno. Circa la qual questione è da sapere che odio è un movimento d’appetito, lo qual appetito descende da alcuna apprensione, overo cognoscibilitade, la quale apprensione può essere in odio in due modi. [p. 263 modifica]L’uno modo è cognoscere ed apprendere Dio per la sua essenzia, la quale essenzia è la bontà di Dio, e non può essere odiata da alcuni, in per quello che ella è di ragione di bene, e però non può essere odiata.

L’altro modo d’apprensione può essere per li suoi effetti, per li quali effetti visibili si può cognoseere le invisibili virtudi di Dio, e questi effetti si possono considerare in due modi. L’uno è che ’l vivere, l’intendere, l’amare non può essere contra la volontade umana: certo è che tali differenzie ella hae da Dio, sichè per questo modo è impossibile odiare Dio.

L’altro modo è quando li effetti di Dio repugnano e contrariano la volontade umana, che è inverziata e contraria alla ragione: sicome quando per alcun peccato riceve da Dio pena, o è costretto per legge divina di non incorrere ad alcun diletto: e però che è in questo ultimo modo inviluppato, può benissimo avere odio a Dio; e di questi così fatti son quelli di chi nel presente capitolo si fa menzione.

Lo primo argomento che parla in universali, si solve che questi che vedeno Dio per la sua essenzia, cioè li santi, non puonno avere odio a Dio: non segue però che coloro che vedono Dio per esenzia, non possano odiarlo.

Lo secondo argomento s’intende in quelli ch’hanno naturale e dritta volontade ed appetito; quelli che l’hanno perversa possono avere in odio Dio, perchè a loro dispiaceno li ragionevili effetti.

Poich’è detta la intenzione del capitolo presente e la condizione di quelli che menziona, si è da esponere dov’è bisogno lo testo. [p. 264 modifica]





oichè la carità del natio loco
    Mi strinse, rannai le fronde sparte,
     E rende’ le a colui ch’era già fioco.
Indi venimmo al fine, ove si parte
     Lo secondo giron dal terzo, e dove
     Si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove,
     Dico che arrivammo ad una landa,
     Che dal suo letto ogni pianta rimove.
La dolorosa selva 1’ è ghirlanda
     Intorno, come il fosso tristo ad essa:
     Quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,1
     Non d’altra foggia fatta che colei.


  1. V. 1-2. Restituisco i passi colla Crusca, il Cassin. e i Cod. mantovani, parmensi e bolognesi, il Land, il Cortonese , il Laur. XL, 7, ora veduti.




V. 1. Seguendo lo poema dice, che poiché ebbe udito che l’anima del cespuglio era stata fiorentina, si lo strinse a carità, perch’elli e lui erano nati in uno luogo cioè in Firenze; per la qual compassion raunò le fronde sparte, ch’erano state dilacerate e scarpite per le cagne nere che seguiano Jacomo de Santo Andrea predetto, e rendèle a colui, cioè a messer Lotto, lo quale era già fioco, cioè che non li parlava più.

4. Cioè che partendo dal cespuglio venèno sopra lo terzo cercoletto, dove la giustizia di Dio punia con diversa arte quelli peccatori.

7. Qui vuol descrivere lo sito del luogo: dice che arivò a una landa, cioè a una via, la quale era in figura curva. Circuiva questa via un terretorio arenoso in lo qual non era né albero né pianta; si che questa via da l’una parte era confinata dal fosso, e dall’altra parte dalla rena: e aduce per esemplo che era simile questa rena a quella che passò Cato. Circa la qual comparazione è da sapere, sicome ne scrive Lucano nel VIIII libro, Pompeio era capo del popol di Roma contra Cesare, e andonnolo perseguendo fino in Libia. Or essendo in Siria lo detto popolo , Pompeio mori, sichè fu fatto Cato capitaneo. Passò con sua gente in Libia, e lì fue alle mani con la gente di Cesare: perderono li Romani, sichè Cato ricoverò in uno castello. Cesare fu ad assedio intorno ad esso,

e infine tanto lo strinse, che Cato veggendo che non potea scam [p. 265 modifica]

     Che fa dai piè di Caton già soppressa.115
vendetta di Dio, quanto tu dêi
     Esser temuta da ciascun che legge
     Ciò che fu manifesto agli occhi miei!
D’anime nude vidi molte gregge
     Che piangean tutte assai miseramente, 20
     E parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente;
     Alcuna si sedea tutta raccolta,
     Ed altra andava continuamente.
Quella che giva intorno era più molta, 25
     E quella men, che giacea al tormento,
     Ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto il sabbion d’un cader lento


  1. V 15. Per fuggire un cattivo suono, e mantenere più possibile intera la dizione accetto quella del Riccardiano e del Cod. Cassinese, deim antovani Bagno e Cavriani, dei parmigiani, dei bolognesi, del Laur. XL, 7, e del Landiano




scampare, prese venèno e morìo. Or dice l’autore che si fatta rena era quella dello inferno come quella che passò Cato in le sopradette contrade.

V. 16. Qui apostrofa l’autore alla divina giustizia, soggiungendo come dovrebbe esser temuta da quelli che odeno e considerano le pene, ch’hanno l’anime passate da questa vita per i peccati commessi nel mondo.

19. Qui comincia a dire per singulo le pene e ’l modo d’esse.

Ivi. Gregge, cioè moltitudine.

21. Diversa legge, cioè ricevevano diverse pene.

22. Alcune stavano supine, cioè col corpo in suso.

23. Cioè che sedevano, ma stavano raccolti per occupar menluogo.

24. Queste sempre erano in movimento. Or così la fa nel dolore, e dice che quella che andava intorno era più vòlta, cioè più mossa, e quella meno ch’era supina: ma la lingua della supina era più sciolta al lamento, e per consequens avea più pena e men moto, e per respetto alle giacenti più moto e men pena.

28. Qui descrive che cosa era quella che li passionava, e dice ch’erano falde di fuoco, come sogliono di neve, cioè vapori congelati nella mezzana, overo seconda regione dell’aiere, li quali cagiono a terra e sono apellati neve in le alpi, cioè in li luoghi alti e settentrionali, nelle quali ne cade tanta e sì folta, ch’ella si sta tutto l’anno; e dice senza vento a demostrare che quando neva, se lì non è vento, la neve ha maggiori stracci, perchè ’l vento alquanto per lo movimento la trita. Ed acciò che non si proceda in esemplo per quella fallacia che è probare ignotum per ignota, come prova Aristotile in li Elenchi, el è da sapere che ’l circolo, overo [p. 266 modifica]

Piovean di fuoco dilatate falde,
     Come di neve in alpe senza vento. 30
Quali Alessandro in quelle parti calde
     D’India vide sovra lo suo stuolo
     Fiamme cadere infino a terra salde;
Perch’ei provvide a scalpitar lo suolo




cielo de l'aiere, ha tre parti, e sono appellate reioni; una è la parte suprema che termina e confina col cielo del fuoco: la terza è la parte infima, e questa termina collo cielo della acqua: la seconda tramezzo queste due. La suprema parte è sempre in movimento in per quello che lo ratto della ottava spera ha tanta forza, che muove tutta quella prima parte, cioè li cieli de’ pianeti, lo cielo del fuoco e la suprema parte de l'aiere: e per lo detto movimento è quasi calda, perchè ogni movimento rarefà, e per consequens si scalda, come appare in De cœlo et mundo ed in De generatione et corruptlone, Aristotile. La infima parte è calda perchè li radii del sole vegnon fino al corpo della terra; trovan lo corpo solido, reverberan in suso, e dura questa reverberazione per tutta l'infima parte dell’aiere; e però che i radii vi sono doppi e caldi, resta adunqua che la region di mezzo è fredda. E però quando li vapori si levano dalla terra o per lo sole e per altra constellazione, elli non puonno gelare in la infima regione per che è caldo, com’è detto; s’elli scendono alla seconda, che è fredda, lie si gelano. Come sono gelati per lo freddo immantinente hanno acquistato gravitade e cadono a terra; e questo aviene, come prova lo Filosofo in terzo e quarto Phisicorum, che ogni frigidità si constringe, e ogni constringimento acquista gravezza; e però in questa seconda regione si genera piove, neva, tempesta, brina e rogiata. E se 'l vapore fosse viscoso e la constellazione, che lo lieva, fosse tanto forte ch’elli ascendesse alla suprema regione dell’aiere , allora là suso s’accende per lo calor del movimento e del fuoco, e fassene quelle stelle che appellate sono Comete. E se 'l vapore non ascende alla seconda regione dell’aire, non si congela, ma è nebbia overo fumane.

Or di tutta questa materia chiaro tratta Aristotile nella sua Meteora.

V. 31. Dà un altro esempio: elli è scritto in la vita d’Alessandro ch’elli fuo ad assedio d’una terra d’India in Oriente, e standosi un die, dissen che cadeano fiamme di fuoco dal cielo, le quali ardeano quelli a chi elli coglieano a discoverto; ed erano in tanta quantità che la terra tutta se ne copria, e similemente facea la sua incensione grande danno. Dice che Alessandro, assalito da tal battaglia, immantinente fe’ armare tutta sua gente e montare a cavallo, e correre attorno la terra, e trebbiar si tutto lo luogo dov’era l’oste, ch’elli l'ammortonno tutta, si finalmente che li fe’ poco danno.

32. Cioè sua gente.

34. Cioè la terra. [p. 267 modifica]

Con le sue schiere, perciocchè il vapore 35
     Me’ si stingeva mentre ch’ era solo: *
Tale scendeva l'eternale ardore;
     Onde la rena s’accendea, com' esca *
     Sotto il focile, a raddoppiar dolore. *
Senza riposo mai era la tresca 40
     Delle misere mani, or quindi or quinci
     Iscotendo da sè l'arsura fresca.
Io cominciai: Maestro, tu che vinci
     Tutte le cose, fuor che i Dimon duri.
     Che all’entrar della porta incontro uscinci, 45
Chi è quel grande che non par che curi
     L’incendio, e giace dispettoso e torto
     Sì che la pioggia non par che il maturi?1
E quel medesmo, che si fue accorto


  1. V. 48. Molti Cod. e illustri e buone stampe hanno marturi; ma qui ha senso di domare e bene sta il maturi.



V. 36. Cioè lo vapore acceso solo senza compagno, che come cadea elli l'ammortava, sì ch’el secondo non trovava il primo: se l'avesse trovato, sarebbe moltiplicato sì lo calore, che non l' avrebbeno possuto tòr via.

37. Qui dice che quelle che sovra li peccatori scendeano eran sì fatte.

38. Qui mette che la rena era sì conforme a tale accendimento, che come era caduta la falda del fuoco, altrettanto la rena s’accendeva , tutto à simile come s’accende l'esca sotto lo fucile, over acciarolo, le quali due accensioni faceano doppia pena a quelli mal nati.

40. Qui denota come senza intervallo di riposo quelle anime si scussavan d’adosso le dette falde del fuoco, e continuo lì ne cadeano di nuove adosso.

43. Qui persuade il suo duce facendo distinzione del suo podere e dice: tutte le cose. Qui è da intendere tutte le cose che per umano intelletto e possanza si posson vincere. Ma quando soggiunge nel testo: fuor che i Demon , mostra che a voler tal viaggio adurre a compita terminazione, non si può per possanza umana sola perficere, ma bisognali grazia da Dio, sicome fu lo messaggio, il quale li fe’ entrar dentro dalla porta della città di Dite, invito e contra grado dei demonii, sicome è detto in 1’ ottavo capitolo.

46. Dopo la persuasione comincia a domandare d’uno, ch’era lì a tal tormento, lo quale era fuora della comunale forma: e così com’era difformato, così parca superbo nel suo animo, ch’elli non curava molto di schermirsi del fuoco ch’adosso li piovea.

49. Qui poetando come nel testo appare, introduce quello stesso

a far la risposta, la qual fu: si com’io ebbi in dispetto Dio es [p. 268 modifica]

     Ch’io dimandava il mio duca di lui, 50
     Gridò: Qual io fui vivo, tal son morto. *
Se Giove stanchi il suo fabbro, da cui
Crucciato prese la folgore acuta,
     Onde l’ultimo dì percosso fui;
     s’egli stanchi gli altri a muta a muta 55
In Mongibello alla fucina negra.
     Gridando, Buon Vulcano, aiuta aiuta;
     Sì com’ei fece alla pugna di Plegra,
E me saetti di tutta sua forza,
     Non ne potrebbe aver vendetta allegra.

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essendo vivo, e non curai di sue minaccie, tal mo ch’io sono morto, poco lo pregio. E soggiunge, come apparirà, ch’era sorpreso da tanta superbia che disse che Dio con tutta la sua forza nol potrebbe fare condannare a lamentarsi, e per conseguente non avrebbe di lui vendetta allegra. Quasi a dire: Dio non mi potrebbe daretanta pena ch’io mi lamentassi, nè che la sua voglia fosse contenta di mia passione, perchè mai non verrò a quel termine ch’io mi chiami vinto.

V. 58. Elli si scrive fabulose che a Flegra, cioè in una montagna prelionno insieme li giganti centra li Dei, sichè Iuppiter, veggendosi a mal partito, chiamò Vulcano dicendo: soccorri, soccorri; sichè Vulcano continuo li fabbricava saette, e fulminava li giganti. Infine perdenno li giganti e furono tutti tagliati.

Mongibello è un monte in Cicilia molto alto, ed evvi continuo foco, perchè v’hae, come mostra lo Filosofo in la Meteora, una vena di solfare inceso, lo qual fuoco continuo getta fiamme e pietre accese. Or li poeti volendo fittivamente far menzione di quel monte, poneano che lie stessen li fabbri di Iuppiter, e lie fabbricassen le sue saette.

Udito tanta superbia, sicome è detto, Virgilio esclamò contra Capaneo dicendo: o vizioso Capaneo, che non s’ammorza la tua superbia tu se’ più punito, quasi a dire grandemente, tu hai la eccellenzia de’martìri, salvo che la tua rabbia ti dee essere ancora maggior martirio e conformevile alla tua colpa; sicome dice san Dionisio, 8, cap. De divinis nominibus demonum: — moltitudo demonum causa est omnium malorum et sibi et aliis; cosi in opposito la moltitudine della rabbia di Capaneo è cagione del suo tormento.

Questo Capaneo fu uno de’ sette regi, li quali assedionno Tebe. Or un die questo Capaneo forzevolemente montò su le mura della detta cittade, e sgridando dicea centra li Tebani: o gente assediata, cattiva e abbandonata! li vostri Dei ove sono che non v’ajutano? come vi lassano elli cosi assediare? dicendo ogni disonor d’essi e delli suoi Dei. Allora Iove s’adirò contra lui e fulminollo d’una saetta di folgore, essendo ello su lo sopradetto muro, e si lo ancise. E però dice lo testo in persona di Capaneo : se Iove stan [p. 269 modifica]

Allora il Duca mio parlò di forza
     Tanto, ch’io non l'avea sì forte udito:
     O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
La tua superbia, se’ tu più punito:
     Nullo martirio, fuor che la tua rabbia, 65
     Sarebbe al tuo furor dolor compito.
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
     Dicendo: Quel fu l'un de’sette regi
     Ch’assiser Tebe; ed ebbe, e par ch’egli abbia
Dio in disdegno, e poco par che il pregi: 70
     Ma, come io dissi lui, li suoi dispetti
     Sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti
     Ancor li piedi nella rena arsiccia:
     Ma sempre al bosco li ritieni stretti. 75
Tacendo ne venimmo là ove spiccia
     Fuor della rena un picciol fiumicello,*
     Lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del bulicame esce il ruscello.
     Che parton poi tra lor le peccatrici, 80
     Tal per la riva in giù sen giva quello.1


  1. V. 81. Il Cassin. ha la riva giù e vi si notò Lezione unica. Dovean dir vera, perchè quello che pongo io è del Cortonese. La verità scaturisce dai versi che seguono.



stanchi il suo fabbro, quasi a dire: se continuo elli mi fulminasse da tali saette, sicome fu quella che mi percosse l'ultimo die, cioè lo die ch’io morii, non avrebbe vendetta allegra1.

V. 61. Poetando segue mostrando come parlò di forza Virgilio, quasi a dire: questa è notevile e pessima superbia.

67. Poi si rivolse. Segue lo poema. — Miglior labbia, cioè parladura e aspetto.

71. Quasi a dire: elli è fregiato di fiamme di fuoco, li quali fregi li convegnono al suo petto, cioè alla sua superbia.

73. Segue lo poema suo, come nel testo appare.

76. Poi che si partirono da Capaneo, vuol far menzione l'autore de’fiumi dello inferno , toccando infine del capitolo d’uno altro fiume, lo quale è posto per li autori che è appellato Lete.

79. Quale del Bulicame. Qui dà esempio a’ mondani dell’essere del detto fiume, e dice che è a Viterbo, là dove è una fontana che è appellata Bulicame; che ne sorge acqua calda perchè termina in le viscere della terra col solfero, della quale si fa un riello, overo fiumicello, lo qual si parte per le case dove stanno le peccatrici a [p. 270 modifica]

Lo fondo suo ed ambo le pendici
     Fatt’eran pietra, e i margini da lato:
     Perch’io m’accorsi che il passo era lici.
Tra tutto l'altro ch’io t’ho dimostrato, 85
     Posciachè noi entrammo per la porta
     Lo cui sogliare a nessuno è negato,
Cosa non fu dagli tuoi occhi scorta
     Notabile, com’e 'l presente rio, *
     Che sopra sò tutte fiammelle ammorta, 80
Queste parole fur del Duca mio:
     Perchè il pregai, che mi largisse il pasto
     Di cui largito m’aveva il disio.
In mezzo mar siede un paese guasto, 2
     Diss’egli allora, che s’appella Creta,3 95
     Sotto il cui rege fu già il mondo casto.
Una montagna v’è, che già fu lieta
     D’acque e di fronde, che si chiama Ida; *
     Ora è diserta come cosa vieta.


  1. Tutto questo tratto fino a pessima superbia manca al Cod Riccardiano.
  2. V. 94. Restituisco in mezzo mar colla Vind. e col R. testo e comm. coi tre parmigiani, Bg, Cavr., Laur. XL, 7 coi tre dell’università bolognese e col Landiano, il Cassin. e il Filippino e illustri stampe non essendo dello qual mare. Vale molto distante da terra. Così Virg. Ea. 3: Creta Iovis magni medio jacet insula Ponto.
  3. V. 95. Aveva scelto chiamò qual sostenuto da molti codici; ma riflettendo meglio è troppo vicino l’altro chiamò perchè Dante ve l’abbia posto. Parecchi han chiama, e forse questo aveva il ms. da cui fece copia la Vind. S'appella hanno i tre dell’Università e due dell’Archig. di Bologna, il Land, il Cassinese; e quindi chiama Ida per concordanza di tempo, che anche nel Commento è di presente.




Viterbo predetto: e ciascuna casa ha un bagno della detta acqua in casa, la qual acqua per lo suo fondo solforico, e per lo calore, si è in color rossetto, e fuma continuo. Cosi per l'aiere dello inferno n’andava quello e rosso e fumoso.

V. 83. Margini, cioè le rive.

85. Qui rende sollecito Virgilio Dante alla istoria detta della imagine.

87. Quasi a dire che 'l peccato si afà molto coll'appetito, che ama libertà: e il peccato non vieta come fa la vertù alcuna cosa che è nelli precetti, e quasi tutto lo dittato negativo è vietato: non habebis Deos alienos coram me, non mæchaberis etc. Non futurum facies; non concupisces uxorem etc.

88. Quasi a dire: lo presente rio ti distingue tutte le pene dello inferno.

94. Cioè in Creti. Mettesi per li poeti in Creti questa imagine perchè vi fu un re ch’ebbe nome Saturno, lo quale amò molto drittura, e fu tutto simile alla prima etade; e però dice; sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto, cioè senza vizio di cupidigia. [p. 271 modifica]

Rea la scelse già per cuna fida 100
     Del suo figliuolo, e, per celarlo meglio,
     Quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio
     Che tien volte le spalle inver Damiata,




V. 100. Questa Rea fu moglie del detto Saturno di Creti, ed essendo gravida di lui, lo detto re volle sapere che erede elli dovea avere; assembiò tutti li astrologhi di quelle contrade, e domandolli che elli li dovesseno dire della condizione del suo erede. Questi li rispuoseno: la donna tua avrà figliuolo maschio, lo quale sarà appellato Iuppiter, e crescerà in tanto stato al mondo, ch’elli ti terrà la signoria; e in tal modo fiorirà che solo lui sarà menzionato, e di te non sarà menzione alcuna. Udito questo Saturno fu commosso ad ira e comandò che com’elli fosse nato fosse portato suso una montagna che è appellata Ida, che è nell’isola di Creti, e dirupato di suso in giuso in tal modo ch’elli morisse, sichè mai non li fèsse noia alla signorìa. Udita questa sentenzia Rea, sicome fanno le femine che sempre s’apigliano al contrario, cercò di scampar lo fantino in questo modo. Ella trovòe una balia di cui ella si fidava, e dissele: tu mi notricherai lo mio fantino quand’elli sarà nato, e starai suso lo tal palagio di messer lo re che è sovra Ida; e quando lo fanciullo per alcuno accidente piangesse e facesse romore, acciò che neuno uomo sappia ch’elli sia lie, sì fa sonare tutti questi stromenti; e dielle trombe e tamburri e altri strumenti da fare romore, e similemente diede alla detta balia cotal famiglia che avea mestiero ai detti stromenti; sichè mai non si sappia se non quand’elli sarà grande, ch’elli sia vivo. In processo di tempo venne a nascere lo fanciullo. Questa avea fatta fare una imaginetta di pietra piccinina, e fasciolla e mandolla a Saturno dicendo: questo è quello figliuolo che ti dee torre lo reame. Saturno non volle vedere ma comandò che fosse adotta ad effetto la sentenzia ch’elli avea data. Andonno li giustizieri e gittonno giuso dalla montagna questa imaginetta così fasciata, credendo elli e tutta gente che fosse figliuolo del re. Fatto tal giudizio non si temea più Saturno credendo che ’l figliuolo fosse morto. La detta reina mandò lo fanciullo alla predetta balia, la quale l'allevò e accrescèllo. E quando passava alcuna gente per quella contrada, o lo re che andasse in caccia, tutti li stromenti sonavano e facevano tanto romore che del fanciullo non sen sentìa nulla. Lo re più volte domandò perchè suonasser quelle trombe; erali detto per li familiari della balia: messer, per allegrezza di voi. Costui lo credeva. Crebbe lo fanciullo e tolse lo reame al padre come innanzi apparirà. La qual montagna in quel tempo era molto agregata di palagi e di fontane e di giardini, e al tempo dell’autore era tutto disfatta e guasta.

103. Cioè l'imagine predette del vecchio, della quale è detto in la forma e l'allegorìa per lo sogno di Daniello, sicome appar nel testo. [p. 272 modifica]

     E Roma guarda sì come suo speglio. 105
La sua testa è di fin’oro formata,
     Di puro argento son le braccia e il petto, *
     Poi è di rame infino alla forcata:




106. Dice l’istoria che la città di Babilonia signoreggiò il mondo un grande tempo. Poi fu costrutta Roma; e quanto Roma montava in signoria, cotanto Babilonia calava e montò tanto Roma in grandezza che lo imperio, sicome si ha per le croniche, fu transmutato a Roma. Or dice che essendo Nabuccodonosor imperadore di Babilonia, elli sognò un meraviglioso sogno, lo quale era di tanta novitade che la sua fantasìa, quando fu dissedato, per alcuno modo non lo poteva rifermare1. Costui volendo pur sapere che sogno elli aveva fatto, fe assemblare tutti li suoi savii proponendo innanzi ad essi ch’elli li dovesseno dire lo sogno ch’elli avea fatto, con ciò sia cosa che ch’ era meravigliosa cosa, ma non se lo ricordava. Li savii suoi li rispuoseno: da poi che tu non te ne ricordi che l’hai fatto, noi per nostra scienzia non ne potemo saper nulla; convienti trovar persona, ch’abbia spirito profetico, e quello per revelazione te lo dirà. Or questo Nabuccodonosor per li peccati de’Giudei avea fatto guerra con essi e infino tanto oltraggiandoli che li avea dispersi delle sue signorìe, e molti ne tenea in prigione, fra li quali elli avea Daniel profeta. Fu detto: manda per uno Ebreo che tu hai in prigione che ha nome Daniel, lo quale ti saprà dire quello che vuoli sapere, imperocché 'l hae dal suo Dio spezial grazia, ed è profeta. Nabuccodonosor udito questo, mandò per Daniello e fèlli la questione. Daniel li rispuose: tu hai sognato di vedere in la isola di Creti un imagine d’un vecchio suso una montagna, la qual tiene lo viso volto a Roma e le sue spalle volte a Damiata: ha questa imagine lo capo d’oro fino, le braccia e 'l petto sono d’argento, poscia fino le anche di rame; poi l’anca sinistra e la gamba e lo piede si sono di ferro; l'anca destra e la gamba e il piede si è di terra cotta. E parve che la detta imagine si sostenesse più su lo piè destro che sopra l’altro; poi t’aparse che la detta imagine fosse fessa dal collo in giuso per tutte l’infime parti, per la qual fessura descendea uno umido, del qual si facea un fiume, lo qual parea descendere sino al centro del mondo.

Detto questo sogno Daniello a Nabuccodonosor, fu poi per lui domandato che hae a significare questo vecchio. Rispuoseli Daniello: questa imagine hae a denotare l'etadi del mondo. In prima ch’ella sta volta verso Roma, e tiene le spalle verso Damiata, ch’era un monte di Babilonia, hae a significare che lo imperio del mondo, e la signorìa pubblica si partirà di Babilonia e girà a Roma. Quel ch’ell’ hae lo capo d’oro fino senza alcuna frattura, denota la prima etade delli uomini del mondo, la qual fu tutta estratta e separata da cupidigia ed avarizia. Quel [p. 273 modifica]

Da indi in giuso è tutto ferro eletto,
     Salvo che il destro piede è terra cotta, 110
     E sta in su quel, più che in su l'altro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta
     D’una fessura che lagrime goccia.
     Le quali accolte fòran quella grotta.




ch’ell'hae le braccia e l petto d’ariento con alcuna frattura significa la seconda etade degli uomini del mondo, li quali non fanno cosi liberi o larghi come li primi. La terza parte ch’è di rame significa la terza etade e più rotta, nella quale si denota men perfezione a contrastar la cupidigia. La quarta parte cioè l'anca stanca, la gamba e ’l piè di ferro significa la quarta etade del mondo, la quale per arme conquistò, e visse in prosperitade, tutta volta essendo vòlti più che li terzi in cupidigia. La quinta parte è l’anca, e lo piede di terra cotta, lo quale significa lo primo stato della chiesa di Dio; ed un membro artifizioso, perchè di terra, hae a dimostrare che la Chiesa di Dio è più nella umana generazione per grazia che per natura, imperocché l'arte aggiugne alla natura, così la grazia di Dio aggiugne e soccorre alla umana generazione.

Or questa quinta parte è bagnata del detto fiume; e questo a demostrare che li pastori della Chiesa di Dio non solo nelle spirituali cose tendeno, ma eziandìo in la cupidigia temporale e grandi possessioni. E fue suo cominciatnento quando Costantino la dotò.

La sesta parte è la gamba dritta di pietra come l’anca predetta, ma perchè più bassa è più offesa dall’umido del fiume. E questa è l'etade in che Dante fue, che sicome apparirà innanzi, li pastori della Chiesa hanno tanto il cuore alle delizie temporali, che tutto suo sollicito verso esse si versa.

La settima parte è lo piè dritto, in lo quale quelli che saranno in quella etade saranno sì sommersi in avarizia, che altro fine non intenderà il suo volere; e questo è quello che disse l'autore nel primo capitolo; e più saranno ancora in fin ch'l veltro.

Udito questo, Nabuccodonosor disse: mo lo fiume che nasce di questa imagine, e tiene fine al centro del mondo , che hae a significare? e Daniel disse: questo fiume, sicom’elli si disparte d’una imagine, hae a significare tutto lo decorso del mondo vizioso, così desso si fa parti per lo foro d’abisso, in lo quale si puniscon li peccatori. La prima cagione del detto fiume è ch’elli entra in lo inferno, e ha nome fino al quarto de la sua via Acheronte, il quale nome è per interpretazione esposto senza allegrezza, quasi a dire che ’l peccatore ch’entra nello inferno primieramente entra in luogo senza allegrezza, poi discende per lo secondo quarto verso lo centro, ed è appellato Stigie, cioè tristizia, a mostrar che ’l peccatore che tanto in giuso discende si trova in tristizia. Poi discende per lo terzo quarto tutta volta verso lo centro del mondo, ed è appellato Flegetonte, il quale è di color rosso e sanguinolento a demostrare che in esso si puniscon quelli che contra il sangue [p. 274 modifica]

Lor corso in questa valle si diroccia: 115
     Fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
     Poi sen van giù per questa stretta doccia
Infin là ove più non si dismonta:
     Fanno Cocito; e qual sia quello stagno,
     Tu lo vedrai: Però qui non si conta. 120
Ed io a lui: Se il presente rigagno
     Si deriva così dal nostro mondo,
     Perchè ci appar pure a questo vivagno?
Ed egli a me: Tu sài che il luogo è tondo,
     E tutto che tu sii venuto molto 125
     Pur a sinistra giù calando al fondo,
Non se’ancor per tutto il cerchio volto;
     Perchè, se cosa n’apparisce nova,
     Non dee addur maraviglia al tuo volto.
Ed io ancor: Maestro, ove si trova 130
     Flegetonte e Letè, che dell’un taci,2
     E l'altro di che si fa d’està piova?3


  1. Cioè quando fu desto, non lo ritenne in mente, nè potea raccapezzare.
  2. V. 131 Conservo Letè perchè con Letèo che pur si trova, in altri codici; il verso avanza d’un piede, e se dice Flegeton e Letèo si mi taglia il respiro Letè rappresenta ottimamente il Lethe, originario.
  3. V 126. Witte seguitò Foscolo e ha autorità nel BF, ma quel suo più, ch’è di varii codici non dà perspicità alcuna, senza che quel più col successivo giù mi sona male. Il pur che sia per anzi ha ben migliore espressione e maggior foiza e l’ha il Laur XL, 7, e il BV, e che più importa il Boccaccio nel suo Commento Pure può essere preso per cuntinuo sempre; ma più che varrebbe?




umano hanno usato disordine. Poi descende per l’ultimo quarto e termina nel centro, ed è appellato Cocito, cioè congelato, nel qual la giustizia di Dio li pessimi suoi nimici martiria.

Nabuccodonosor tenne presso lui Daniello ed ave con lui spesso consiglio. Or dice l'autore: tacendo divenimmo là dove un fiumicello ci apparve, lo quale collo suo rossore tanto spavento mi mise, ch’ancora mi raccapriccia, cioè me ne arriccio.

V. 121. Ed io a lui. Qui fa questione Dante se questo fiume, lo quale per diversi siti ha diversi nomi, fa suo processo dal mondo, com’è ciò ch’ell’è pur da questo vivagno? cioè da questo lato che non lo troviamo pur mo di nuovo.

124. Qui risponde Virgilio che ben procede dal mondo; ma elli tutto che sieno discesi per cotanto spazio e tutta volta a sinistra, non hanno ancora dato una volta al tondo: e però può esser cosa nuova a loro in quella parte del mondo ch’è lì non ancor veduta

130. Qui domanda Dante Virgilio: questo fiume per diverso sito

cambia nome, in che parte troveremo noi là dove ell’è appellato Flegetonte? e dove trovaremo Lete che è un altro fiume? che tu taci di loro e non li mentovi. [p. 275 modifica]

In tutte tue question certo mi piaci,
     Rispose; ma il bollor dell’acqua rossa
     Dovea ben solver l’una che tu faci. 135
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa.
     Là ove vanno l'anime a lavarsi.
     Quando la colpa pentuta è rimossa.
Poi disse: Ornai è tempo da scostarsi
     Dal bosco: fa che a me diretro vegne: * 140
     Li margini fan via, che non son arsi,
E sopra loro ogni vapor si spegne.




V. 133. Qui risponde Virgilio e per renderlo sicuro a dimandare dice che a lui piace ch’elli dimandi; vero è che quando elli vide la palude dov’en puniti li tiranni, che bollia con vermilio e sanguinolento colore ben si doveva avvedere che quello era Flegetonte, sicome di sopra è esposto in suo nome.

136. Questo è lo fiume che è nel Purgatorio, il quale è fiume di oblivione e di dismenticanza, sicome nella seconda parte di quella Comedia apparirà là dove si tratterà d’esso e però dice: là ove vanno l'anime a lavarsi.

139. Segue suo poema mostrando ch’era miglior via a ire suso per li arginelli, in per quello che non sono arsi, ed eziandio lo vapore del fiume non li imbrigava alla vista.

E si compie la sentenzia del quattordicesimo capitolo.



Nota. Il Cam. dell' Ottimo ha una congerie di concetti e periodi nel suo Proemio a questo Canto che non lascia perdonare il mal menato così fatto delle idee e dei periodi del Lana. Il Lana vi è tutto ma difformato assai; di lui, e intere, sono le chiose che l' Ottimo ha poste ai V. 38 e 79. Non vorrò per altro non credere che i copisti abbian fatta lor parte trista.