Commedia (Buti)/Paradiso/Canto IX

Paradiso
Canto nono

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Paradiso - Canto VIII Paradiso - Canto X
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C A N T O     IX.

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1Da poi che Carlo tuo, o bella Clemenza,1
     M’ebbe chiarito, mi narrò l’ inganni,
     Che ricever dovea la sua semenza;
4Ma disse: Taci, e lassa muover gli anni;2
     Sì ch’ io non posso dir, se non che pianto
     Iusto verrà di rieto ai vostri danni.
7E già la vista di quel lume santo
     Rivolta s’ era al Ben che la riempie,3
     Com’ a quel ben, ch’ a ogni cosa è tanto.
10Ahi anime ingannate, e fatture empie,
     Che da sì fatto ben torcete i cuori,
     Drizzando in vanità le vostre tempie!
13Et ecco un altro di quelli splendori
     Ver me si fece, e ’l suo voler piacermi
     Significava nel chiarir di fuori.
16Li occhi di Beatrice, ch’eran fermi
     Sopra me, come pria, di caro assenso4
     Al mio disio certificato fermi.5

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19Deh mette al mio voler tosto compenso,
     Beato spirito, dissi, e fàmi pruova6
     Che possa in te rifletter quel, ch’io penso.
22Unde la luce, che m’era ancor nova,
     Del suo profondo, ond’ella pria cantava,
     Seguette, com’a cui di ben far giova:
25In quella parte della Terra prava
     Italica, che siede tra Rialto,7
     E le fontane di Brenta e di Pava,8
28Si leva un colle, e non surge molto alto,
     Là unde scese già una facella,
     Che fece a la contrada grande assalto.9
31D’una radice nacqui et io e ella:
     Cunisia fui chiamata, e qui rifulgo,10
     Perchè mi vinse il lume d’està stella.11
34Ma lietamente a me medesma indulgo
     La cagion di mia sorte, e non mi noia,
     Che parria forsi forte al vostro vulgo.
37Di questa luculenta e cara gioia
     Del nostro Cielo, che più m’è propinqua,
     Grande fama rimase, e, pria che muoia,
{R+|40|1}}Questo centesimo anno ancor s'incinqua;12
     Vedi se far si dè l’omo eccellente,13
     Sì ch’altra vita la prima relinqua:
43E ciò non pensa la turba presente,
     Che Talliamento et Adice richiude,
     Nè per esser battuta ancor si pente.

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46Ma tosto fia che Padova al palude
     Cangerà l’acqua, che Vincenzia bagna14
     Per esser al dover le genti crude.
49E là ve Sile e Cagna s’ accompagna,15
     Tal signoreggia e va co la testa alta,
     Che già per lui carpir si fa la ragna.
52Piangerà Feltro ancora la diffalta
     Dell’ empio suo pastor, che serà sconcia16
     Sì, che per simil non s’ intrò in Malta.
55Troppo sarebbe larga la bigoncia,
     Che ricevesse il sangue ferrarese,
     E stanco chi ’l pesasse ad oncia ad oncia,
58Che donerà questo prete cortese,
     Per mostrarsi di parte; e cotai doni
     Conformi fieno al viver del paese.17
61Su sono specchi, voi dicete Troni,18
     Onde rifulge a noi Dio iudicante,
     Sì che questi parlar ne paion buoni.
64Qui si tacette, e fecemi sembiante,
     Che fosse ad altro volta, per la rota,19
     In che si mise, com’era davante.
67L’altra letizia, che m’era già nota,
     Preclara cosa mi si fece in vista,20
     Qual fin balascio, in che lo Sol percuota.21
70Per letizia lassù fulgor s’acquista,
     Sì come riso qui; ma giù s’ abbuia
     L’ombra di fuor, come la mente trista.22

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73Dio vede tutto, e tuo veder s’illuia,
     Diss’io, beato spirto, sì che nulla
     Voglia di sè a te puot’esser fuia.23
76Dunque la voce tua che il Ciel trastulla
     Sempre col canto di quei fochi pii,
     Che di sei ale facen la cuculla,24
79Perchè non satisface ai miei disii?25
     Già non attenderei io tua dimanda,
     S’io m’intuasse come tu t’immii.
82La maggior valle, in che l’acqua si spanda,
     Incominciaro allor le sue parole,26
     Fuor di quel mar che la terra inghirlanda,
85Tra i discordanti liti contra ’l Sole
     Tanto sen va, che fa meridiano
     Là, dove l’ orizonte pria far sole,
88Di quella valle fu’ io litorano
     Tra Ebro e Macra, che per cammin corto27
     Lo Genovese parte dal Toscano.28
91Ad uno occaso quasi et ad uno orto
     Buggea siede, e la terra und’ io fui,29
     Che fe del sangue suo già caldo ’l porto
94Folco mi disse quella gente, a cui
     Fu noto il nome mio; e questo Cielo
     Di me s’impronta, com’io fei di lui;30
97Che più non arse là fillia di Belo,
     Noiando a Sicheo et a Creusa,31
     Di me, infin che si convenne al pelo;

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100Nè quella Rodopeia, che delusa
     Fue da Demofonte, nè Alcide,
     Quando Iole nel cuor ebbe rinchiusa.
103Non però qui si pente; ma si ride,
     Non de la colpa, che a mente non torna;
     Ma del valor, che ordinò e provide.
106Qui si rimira ne l’arte ch’adorna
     Cotanto effetto, e discernesi ’l bene,32
     Per che al modo di su quel di giù torna.33
109Ma perchè tutte le tue vollie piene
     Ten porti, che son nate in questa spera,
     Proceder ancora oltra mi conviene.34
112Tu vuoi saper chi è ’n questa lumera,
     Che qui appresso me così scintilla,
     Come raggio di Sole in acqua mera.
115Or sappi che là entro si tranquilla
     Raab, et a nostro ordin è coniunta,
     E di le’ il sommo grado si sigilla.35
118Da questo Cielo, in cui l’ombra s’appunta,
     Che ’l vostro mondo face, pria ch’altra alma
     Del triunfo di Cristo fu assunta.
121Ben si convenne lei lassar per palma.
     In alcun Cielo, de l’alta vittoria,
     Che s’acquistò coll’una e l’altra palma;
124Perch’ella favorò la prima gloria36 37
     Di Iosue in su la terra santa,
     Che poco tocca al papa la memoria.

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127La tua città, che di colui è pianta,
     Che pria volse le spalle al suo Fattore,
     E di cui è la invidia tutta quanta,38
130Produce e spande il maladetto fiore,
     Che à disviato le pecore e gli agni:
     Però ch’à fatto lupo del pastore.39
133Per questo l’ Evangelio e i Dottor magni
     Son derelitti, e solo ai Decretali
     Si studia sì, ch’appare ai lor vivagni.40
136A questo intende papa e cardinali:41
     Non vanno i lor pensier a Nazzarette
     Là, dove Gabriel aperse l’ali.
139Ma Vaticano, e l’altre parti elette
     Di Roma, che son state cimitero42 43
     A la milizia, che Pietro seguette,44 45 46
142Tosto libere fien da l’adultero.43

  1. v. 1. C. A. tuo, bella
  2. v. 4. C. A. lascia volger
  3. v. 8. C.A. al Sol che
  4. v. 17. C. A. Sovra me, come pria, di chiaro
  5. v. 18. C. A. Al disio mio
  6. v. 20. C. A. fammi prova
  7. v. 26. C. A. siede intra
  8. v. 27. C. A. Piava,
  9. v. 30. C. A. alle contrade un
  10. v. 32. C. A. Cunizza
  11. v. 33. C. A. Perchè in me vinse
  12. v. 40. C. A. anno ch’or s’incinqua;
  13. v. 41. C. A. Se fare dee l’uomo
  14. v. 47. C. A. che Vicenza
  15. v. 49. C. A. E dove Sile fosen e Cagnan
  16. v. 53. C. A. che s’era
  17. v. 60. Fieno; saranno, dal futuro latino fient. E.
  18. v. 61. Dicete; dall’infinito dicere. E.
  19. v. 65. C. A. ad altro attesa,
  20. v. 68. C. A. Per cara cosa
  21. v. 69. C. A. il Sol percota.
  22. v. 72. C.A. è trista.
  23. v. 75. C. A. può esser
  24. v. 78. C.A. sei ali facean
  25. v. 79. C.A. soddisfaci a’
  26. v. 83. C. A. Incominciò allor
  27. v. 89. C. A. Magra,
  28. v. 90. C.A. Parte lo Genovese
  29. v. 92. C. A. siede, alla terra onde
  30. v. 96. C. A. imprenta,
  31. v. 98. C. A. ed a Sicheo ed a
  32. v. 107. C. A. Con tanto affetto,
  33. v. 108. C. A. Perchè al mondo
  34. v. 111. C. A. ancora oltre mi
  35. v. 117. C. A. Di lui nel
  36. v. 124. Favorò; dall’infinito favorare, verbo della terza coniugazione acconciato alla prima. E.
  37. v. 124. C. A. favorì
  38. v. 129. C. A. la invidia tanto pianta,
  39. v. 132. C. A. fatto à lupo
  40. v. 135. C. A. che pare ai
  41. v. 136. C. A. il papa e i
  42. v. 140. C. A. son fatte cimitero
  43. 43,0 43,1 vv. 140-142. ’’Cimitero; adultero,’’ cavatone via l’ i come gli antichi talora
    costumavano. Quindi si à ’’contraro, martiro’’. ec. ’’E’’.
  44. v. 141. C. A. Della milizia,
  45. v. 141. C. A. Della milizia,
  46. v. 141. ’’Seguette;’’ perfetto d’un verbo della terza adattato alla seconda coniugazione, come Inf. xxv, v. 40 ’’convenette,’’ e Purg. xxii, v. 85 ’’perseguette’’
    e simili. E.

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C O M M E N T O


Da poi che Carlo tuo ec. Questo è lo nono canto della terza cantica, nel quale lo nostro autore tratta ancora della materia predetta; cioè delli spiriti beati che si rappresentano a lui nella terza spera di Venere, e finge come venisse a parlamento con certi beati spiriti che erano nel corpo di Venere, finito lo parlamento che finge avere avuto con Carlo Martello. Et in questo canto fa principalmente due cose: imperò che prima finge come, finito lo parlamento che ebbe co lo spirito di sopra nominato, venne a parlamento con uno altro spirito; cioè con una donna, che fu gentil donna chiamata Cunisia, [p. 293 modifica]dei fatti de la Marca trivigiana; nella seconda finge come venisse a parlamento con uno altro spirito beato, che si chiamava Folco da Marsiglia, et incominciasi la seconda: La maggior valle ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in sei parti: imperò che prima finge, usando l’apostrofa, colore retorico e figura di Grammatica, che dirizzasse lo suo parlare inverso Clemenzia figliuola del detto re Carlo, e come lo re Carlo partito da lui si ritornò all’orazione sua; nella seconda finge come uno altro di quelli beati spiriti venne a parlare con lui, et incominciasi quine: Et ecco un altro ec.; nella terza finge come quello spirito, addimandato da lui chi elli era, si li manifestò, et incominciasi quine: In quella parte ec.; nella quarta parte finge come lo detto spirito, intrato a parlare con lui, li manifesta un altro che era presso a lui et entra a riprendere li uomini della Marca trivigiana, et incominciasi quine: Di questa luculenta ec.; nella quinta finge come si stendesse lo detto spirito a parlare del Vescovo di Feltro, et incominciasi quine: Piangerà Feltro ec.; nella sesta introduce uno altro spirito beato a parlamentare con seco, dimostrando com’elli li dimandò, et incominciasi quine: L’altra letizia ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo coll’esposizioni litterali, allegoriche e morali.

C. IX — v. 1-12. In questi quattro ternari finge lo nostro autore come lo detto re Carlo d’Ungaria, poi che li ebbe dichiarato lo dubbio, li disse gl’inganni che doveano ricevere li suoi figliuoli del regno di Puglia, e dell’altre signorie che s’appartenevano a loro come eredi: imperò ch’egli ebbe tre figliuoli; cioè Ludovico, Andrea e Stefano, et una 1 Clemenza; e Ludovico succedè a lui in el reame d’Ungaria, poi succedè a lui la figliuola, cioè Maria; et Andrea fu marito della reina Ioanna figliuola del re Roberto. E finge ch’elli li ponesse silenzio, e questo finge perchè non voleva dire male del re Roberto, a cui tempo l’autore fu: usa qui uno modo di parlare che si chiama apostrofa, secondo Dottrinale che dice: Absenti sermo directus apostropha fiet. Finge, l’autore che, poi che fu tornato al mondo e scrisse quello ch’elli avea veduto, finito di dire la dichiaragione fattali da Carlo detto di sopra del dubbio detto nel precedento canto, elli dirizzasse lo parlare suo a Clemenza, figliuola del detto re Carlo, bench’ella non fusse presente quando egli scriveva, dicendo così: o bella Clemenza, Da poi che Carlo tuo; cioè tuo padre detto di sopra, M’ebbe chiarito; cioè m’ebbe dichiarato lo dubbio ch’io li mossi, come appare di sopra, mi narrò l’inganni; cioè mi disse l’inganni, Che; cioè li quali, ricever dovea la sua semenza; [p. 294 modifica]cioè li suo’ figliuoli, che sono semente del padre, Ma disse: Taci, ecco che si scusa perchè non li dice: imperò che li puose silenzio dicendo: Ma disse a me Dante lo detto Carlo: Tace quello che io t’ò detto, dice l’autore, e lassa muover gli anni; cioè muovere le cose che sono avvenute: lo tempo si muove, e muove gli effetti delle cose che vegnano in esso, Sì ch’io; cioè per la qual cosa io Dante, poi ch’elli m’à posto silenzio, non posso dir; alcuna cosa speziale; ma in generale sì, e però dice: se non che pianto Iusto: imperò che iustamente fia punito chi ingannerà e farà male, verrà di rieto ai vostri danni; ecco quel che io posso dire, cioè che voi riceverete danni; ma chi ne fi’ cagione iustamente ne fia punito; e qui finisce l’autore l’apostrofa, e ritorna a la sua materia. E già la vista; cioè lo ragguardamento, di quel lume santo; cioè di quello spirito beato detto di sopra, Rivolta s’era al Ben; cioè a Dio che è sommo bene: li beati sempre ragguardano Iddio, e però come finse che si partisse da quel ragguardamento quando li parlò; così finge che ora sia ritornato al ragguardamento del sommo bene, che la riempie; cioè che li dà piena refezione, Com’a quel ben; cioè com a sì fatto ben, ch’a ogni cosa è tanto; cioè ad ogni cosa è tanto quanto fa bisogno: imperò che ogni cosa riempie e contenta. E però adiugne ora una esclamazione, riprendendo gli uomini che sono negligenti a sì fatto bene, dicendo: Ahi anime ingannate; cioè umane, ingannate da beni mondani che sono falsi et ingannevili, e fatture empie; cioè fatture inique del vostro fattore: impia fattura è quella che non seguita lo suo fattore, et impia creatura è quella che non seguita lo suo creatore, Che; cioè le quali, da sì fatto ben; come è quello che è detto di sopra, torcete i cuori; cioè rimovete le vostre intenzioni: lo quore significa la intenzione: Iddio non vuole se non li nostri cuori, unde dice: Fili, praebe mihi cor tuum: non dovrebbe l’uomo intendere ad altro che a Dio, lui amando, lui desiderando, et ogni cosa a lui referendo, Drizzando in vanità; cioè nelle cose vane del mondo che paiano buone e non sono, sì come in suo fine, le vostre tempie; cioè le vostre sentenzie e li vostri intendimenti, iudicando pur quelli essere li vostri veri beni, li quali non sono nè possano essere se non breve tempo, et anco non ànno in sè pieno contentamento! Seguita.

C. IX — v. 13— 24. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come uno altro spirito beato si fece inverso lui per parlare con lui, poi che ’l primo si fu ito via; e per questo dà ad intendere che, determinata la materia detta di sopra, si diè a trattare d’altra materia. Dice così: Et ecco un altro di quelli splendori; cioè uno altro di quelli beati spiriti, che erano nel corpo di Venere, Ver me; cioè verso me Dante, si fece; per voler parlarmi, e ’l suo voler [p. 295 modifica]piacermi'; cioè a me Dante, Significava nel chiarir di fuori; ecco che dimostra come se ne vedea: imperò che ’l vedeva diventar più splendido. Li occhi di Beatrice, ch’eran fermi; ecco questi occhi significano qui li raggi, e Beatrice la grazia d’Iddio: unde vuole dire l’autore che li raggi della grazia d’Iddio erano fermi sopra di lui, così ora come erano stati nella materia passata; et anco si può intendere che li occhi di Beatrice siano l’intelletti litterali e morali, per l’uno occhio allegorici, et anagogici per l’altro; secondo li quali intelletti fu licito a Dante di mutare materia e fare la infrascritta fizione. Sopra me; cioè Dante, come pria; cioè come innanti erano stati, fermi; cioè fecionomi, certificato; cioè certo, di caro assenso; cioè di consentimento caro, Al mio disio; cioè al mio desiderio. Deh; questa è interiezione deprecativa, mette al mio voler tosto compenso, Beato spirito, dissi; cioè Dante, parlando a quello spirito, lo pregai che contentasse tosto lo mio desiderio, e fàmi pruova Che possa in te rifletter quel, ch’io penso; cioè risponde al mio pensieri, senza ch’io tel manifesti; e questo si prova che in Dio sono tutti li nostri pensieri: imperò ch’elli li vede e sa meglio che noi; e l’anime beate, ragguardando Iddio vedeno in lui cioè che in lui riluce; e però rispondere al suo pensieri senza ch’elli lo dica, serà prova ch’egli l’abbia veduto in Dio. Unde la luce; cioè per la qual cosa quello beato spirito, che m’era; cioè lo quale era a me Dante, ancor nova; imperò ch’io nolla cognoscea ancora, Del suo profondo; cioè del suo alto ardore di carità, ond’ella; cioè per la quale ella, pria cantava: imperò che ’l cantare de’ beati, che l’autore finge, significa l’ardentissima carità che è in loro, Seguette; cioè lo suo parlare, com’a cui di ben far giova; cioè come seguita con allegrezza colui che si diletta di ben fare.

C. IX — v. 25-36. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come continuò suo parlare quello beato spirito, lo quale elli avea pregato di sopra, siccome detto è, dicendo così: In quella parte della Terra prava Italica; cioè in quella parte d’Italia che è ria, che siede tra Rialto; cioè Venezia: Rialto è la piazza di Venezia dove è la chiesa di san Marco, e ponsi per la città pigliando la parte per lo tutto per lo colore che si chiama intellettivo, E le fontane di Brenta; questo è uno fiume che corre per lo trivigiano a Padova, e di Pava, questo è anco fiume che corre per lo trivigiano, Si leva un colle; cioè uno monte più alto che tutti gli altri, e non surge; cioè non si leva, molto alto; cioè lo detto colle, ben che sia più alto che gli altri. Questa contrada descritta si ò la Marca trivigiana: in su questo colle è una terra che si chiama Romano, unde fu messere Azzulino di Romano de la Marca trivigiana, che menò grande guerra a tutta la contrada et a’ Padovani; per la qual cosa molti [p. 296 modifica]Padovani furno morti, lo quale ebbe una sua suore chiamata madonna Cunisia, la quale fu molto molestata da l’amore mondano; ma a la fine si ricognobbe, e così finge l’autore ch’ella sia tra quelli beati che sono del terzo grado che si rappresentano ne la spera di Venere, Là unde; cioè del qual colle, scese già una facella, cioè scese una piccola fiaccola, cioè messere Azzulino suo fratello, Che; cioè lo quale, fece a la contrada; cioè de la Marca trevigiana che la volse signoreggiare, et a Padova ancora; e però dice, grande assalto; cioè grande assallimento. D’una radice nacqui et io e ella; cioè d’un padre e d’una madre nascemo amenduni: imperò ch’elli fu mio fratello, Cunisia fui chiamata; ecco che si nomina, e qui; cioè in questo pianeto, rifulgo; cioè risplendo, Perchè mi vinse; cioè mi signoreggiò, il lume d’esta stella; cioè la influenzia di questo pianeto, che non mi lassò montare a maggiore grado; e ben dice mi vinse — , Quia sapiens dominabitur astris; et ella non fu savia e lasciossi signoreggiare a la influenzia della costellazione, benchè poi se ne pentì e fecene penitenzia. E però debbiamo sapere, come è stato detto di sopra degli altri due pianeti, che secondo che dice Albumasar nel suo Introduttorio, trattato settimo differenzia nona, Venus è fredda et umida e flemmatica temperata, e significa bellezza, largezza, pazienzia, dolcezza, onestà di costumi, appetito di vestimenti, et ornamenti d’oro e d’ariento, umiltà in verso gli amici, superbia et adiunzione, dilettazione e dilezione di canto e d’uso d’ornamenti, gaudio e letizia, saltazioni, uso di canto con canne e con leuto, di nozze, d’ornamenti e d’unguenti ottimi, sottigliezza in componere canzoni, uso di giuochi di tavole di scacchi, ozio, ebrietà, opere di lussuria, d’adulterio, di gesticulazioni, e di lascività di meretrici, moltitudine di speriuri, di bugie e di coito in ogni spezie, amore di figliuoli, dilezione d’uomini, fortezza di corpo, debilità d’animo, moltitudine di carne e diletti corporali, servamento di fede e di iustizia, traffico di mercanzie odorifere; e come fu detto della Luna, tutte non si trovano in uno uomo; ma a chi una parte et a chi un’altra secondo la Providenzia Divina, e lo savio a le buone s’accosta e l’altre vince. Et è da tenere che dai cieli non vegnano se non buone influenzie; ma li omini co le sue infezioni e malizie le perverteno, sì che vegnano ad alcuni vizi dei quali è fatto menzione; ecco la vera influenzia di Venere; e letizia et amore, le quali sono buone, e gli omini le perverteno operando quelle in cose disoneste come giochi illiciti e concubiti illiciti, e così dell’altre cose; e però conviene l’anima tornare netta a la pura letizia e puro amore, quando è beata, e questo è quello che finge l’autore che si rappresentasseno in Venere. Ma lietamente; cioè con lieto animo, a me medesma [p. 297 modifica]indulgo; cioè do per opera, La cagion di mia sorte; cioè la influenzia del detto pianeto, che fu cagione della mia condizione; cioè d’essere amorosa, et in questo lietamente ora m’adopero cioè in amare Iddio perfettamente, secondo la influenzia dello amore che a me fu data come sorte. O vogliamo intendere: Io me la perdono; cioè la cagione, cioè la vita mia tale quale ella fu, che fu cagione di mia sorte, cioè di questo grado di beatitudine che io òne. La tristizia della colpa portai nel mondo quando me ne pentitti, e nel purgatorio portai volentieri la pena, et ora con allegrezza mi ricordo di tal peccato esser mondata e lavata. E dèsi intendere: E non desidero d’essere stata se non di quella condizione che io fui: imperò che se io desiderassi altro, non arei vita beata; e però dice e la condizione di mia sorte non mi noia; cioè non mi fa increscimento nè noia la vita mia fatta come fu, che fu cagione di questo grado di beatitudine che io òne, nè non vorrei che fusse fatta altra ch’ella fu, anco ne sono contenta e lieta; e però dice lo testo, e non mi noia; cioè e non mi nuoce la cagione di mia sorte: imperò che io ne sono lieta e contenta, avendo sodisfatto quanto richiedeva lo diritto della iustizia, e per questo mi perdono quello con allegrezza, perchè veggo che è sodisfatto a la iustizia in che è quietato lo mio desiderio che desiderava iustizia del peccato mio. Che; cioè la qual cosa, parria forsi forte al vostro vulgo; cioè parrebbe forte cosa al popolo che non vede bene la verità, cioè che l’anime beate siano liete e contente de la loro vita passata, comunqua sia stata fatta. Ma non si dè intendere ch’elle siano liete dei loro peccati, come intende forse lo popolo, nè non si dè pensare che dei loro peccati abbiano tristizia: imperò ch’elle sono beate, e colla beatitudine non può stare la tristizia; ma dèsi intendere, come è stato detto, ch’elle sono liete che si vedeno secondo iustizia aver sodisfatto al peccato et essere premiate da Dio per sua larghezza e misericordia più che non meritavano, e sono contente della loro condizione che ebbono nel mondo, perché la loro volontà è quietata. E questo parrebbe a molti che contradicesse a quel che finse di sopra nell’ultimo canto della seconda cantica; cioè che era una fonte unde descendevano due fiumi; cioè Eunoe che rende la memoria del bene, et accende a ben fare; e Lete che tolle la memoria del male: imperò che s interpetra dimenticagione, e qui mostra che se ne ricordino, dunqua contradice a quello. A che si dè rispondere che non contradice: imperò che non si debbe intendere che Lete tolla la memoria dell’atto che l’uomo àe fatto; ma sì del male animo con che si fece, cioè che l’omo dimentica lo male animo ch’elli ebbe al fatto: imperò che è purgato, e non è più, e quel che non è non si dè ricordare; e non dimentica l’atto che in sè è buono, se con buono animo si fa. Et è necessario che così sia: imperò che [p. 298 modifica]questo sarebbe imperfezione, et anco fa dimenticare lo incentivo e l’appetito del male: imperò che non à più 2 desiderio di mal fare e fa dimenticare la tristizia che l’anima à del male fatto, infine che non è purgato secondo 3 iustizia, del quale, purgato iustamente da la colpa, s’arricorda con letizia.

C. IX — v. 37-51. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che lo spirito beato l’incominciò a parlare di sopra; cioè madonna Cunisa, continuasse lo suo parlare e dimostrasseli uno altro spirito che fu anco nel mondo seguitatore de la influenzia di Venere, e che li predicesse de le cose che dovevano avvenire nel paese della Marca trivigiana e di Trivigi e di Padova, dicendo così: Di questa luculenta; cioè di questa lucente: luculento viene a dire pieno di luce, e cara gioia; ecco che dimostra uno altro spirito beato, cioè Folco da Marsillia, lo quale fu innamorato in questa vita e fu dicitore in rima ne la lingua provenzale, e fu persona di grande fama, e però l’autore ne fa menzione, Del nostro Cielo: imperò che era di quelli di Venere, cioè che si rappresentava nel cielo di Venere, secondo la sua fizione, perchè aveva seguitato tale influenzia; ma sì che era salvato, e per dare ad intendere che era di quelli del terzo grado in vita eterna, che; cioè la quale gioia, più m’è propinqua; cioè a me Cunisa è più prossimana, Grande fama rimase; cioè giù nel mondo: imperò che fu persona di grande fama, cioè giù nel mondo nell’arte del dire in rima nella sua lingua, e pria; cioè e prima, che muoia; quella grande fama, Questo centesimo anno; cioè questo anno che è ultimo di cento, ancor s’incinqua; cioè tornerà ancora cinque volte: ritornerà l’anno ultimo di cento cinque volte, non può essere in meno di 500 anni. Vedi; ecco che continua lo suo conforto a Dante, che l’uomo debbia acquistare fama, se far si dè l’omo eccellente; cioè colle virtuose opere, Si ch’altra vita la prima; cioè vita, relinqua; cioè lassi che la prima: chi à fama, quando muore, lassa una altra vita dopo la prima, cioè la vita della fama dopo la vita corporale, E ciò; cioè quello che detto ò, che l’omo si dè fare eccellente colle virtù nella prima vita, sicchè rimagna l’altra vita, cioè della fama, non pensa la turba presente; cioè li omini che ora sono nel mondo ne la Marca trivigiana; e però dice, Che; cioè la qual turba, Talliamento; questo è uno fiume che termina la Marca trivigiana dall’una parte, et Adice; questo è un altro fiume che termina la detta Marca da l’altra parte, richiude; cioè [p. 299 modifica]dentro da sè li detti due fiumi, Nè per esser battuta; cioè da Dio colle tribulazioni, ancor si pente; cioè del suo mal fare. Ma tosto fia; ecco che l’autore finge che la detta anima predìca di quel che debbe venire, dicendo: Ma tosto serà, cioè tutto questo, che Padova; questa è città che confina co la Marca trivigiana c con Trivigi e con Venezia, al palude; cioè al pantano, Cangerà l’acqua; cambierà l’acqua che di bianca la farà diventare sanguinosa, perchè vi seranno morti li suo’ cittadini, che; cioè la quale acqua, Vincenzia; questa è una città di Lombardia, bagna; cioè che corre a Vincenzia, Per esser al dover le genti crude; ecco che assegna la cagione poiché, cioè perchè le genti sono dure in quella contrada al dovere, cioè a far quel che si debbe. Ecco che predice che nascerà discordia tra li Padovani e Vincentini, che li Padovani saranno sconfitti a quella palude, unde esce l’acqua che va a Vincenzia: questo fu inanzi che l’autore scrivesse questo; ma fu poi che ’l 1300 e però finge che li sia preditto quello che avea veduto. E là ve; cioè in quel luogo nel quale, Sile; questo è fiume nel trivigiano, e Cagna; questo è un altro fiume che si coniunge con Sile, s’accompagna: imperò che l’uno si coniunge coll’altro in sul trivigiano et escono del monte Appennino, Tal signoreggia; questi è messer Ricciardo 4 da Camino che signoreggiava Trivigi, lo quale fu preso da’ Padovani e perdette Trivigi; e però finge l’autore che madonna Cunisa lo dica innanti; ma l’autore l’avea veduto innanti che venisse a questo punto, e va co la testa alta: imperò che è signore, Che già per lui carpir; cioè lui pigliare, si fa la ragna; si fa rete: imperò che già s’ordinava di pigliarlo e torgli Trivigi. Queste sono istorie nostrati 5 che non si truovano scritte da autori, e però io l’ò cavate brevemente com’io ò potuto comprendere per lo testo, e com’io l’òne trovato scritte da altrui, le quali l’autore àe finto che le dica madonna Cunisa che era stata della Marca trivigiana, cioè di Romano, grande donna e vissuta nel mondo inamorata sotto la influenzia di Venus come fu detto di sopra. E così finge che ella si stendesse anco a dire delle condizioni della detta Marca trivigiana, come appare nella parte che seguita dicendo.

C. IX — v. 52-66. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che quello spirito beato àe introdutto a parlare di sopra, cioè Cunisa, seguiti ancora lo suo pronosticamento delle soprascritte parti o massimamente d’una città che si chiama Feltro; ne la quale città fu uno vescovo che ebbe nome Alessandro che commisse uno peccato molto scelerato: imperò che questo vescovo prese quelli da Fontana che erano fuggiti da Ferrara per paura dei marchesi da [p. 300 modifica]Esti, passando per lo suo territorio e feeeli mettere in prigione, e mandò a dire ai marchesi quel che volevano ch’egli facesse di quegli da Fontana ch’elli avea presi e detenuti in prigione. Et elli rispuoseno che molto l’aveano a grado, e che se voleva fare lo servigio compiuto che li mandasse loro, e così fece; e questi marchesi quando li ebbono in loro podestà, li feceno morire a grande strazio. E perchè questo fu cosa molto abominevile, però finge l’autore che Cunisa predica che Feltro porterà pena del peccato del suo vescovo, c questo addivenne, poi che in processo di tempo fu fatta guerra ai Feltrani per quelli da Fontana, e però dice: Piangerà Feltro; cioè quella città che è nella trivigiana, ancora la diffalta; cioè la colpa e lo fallo, Dell’empio; cioè dello spietato, suo pastor; cioè suo vescovo, che serà sconcia; cioè la difalta detta, Sì; cioè per sì fatto modo, che per simil; cioè difalta, non s’intrò in Malta; è a Bolsena in quella prigione chiamata Malta la quale è inremissibile, e la quale prigione è in sul lago, nel quale corre lo fiume che si chiama Malta, una torre con due solaia nella quale lo papa mette li cherici dannati senza remissione; e però è che in quella faceano mettere li papa 6 tutti li cherici che aveno commesso peccato da non ricevere mai misericordia, e quanti vi se ne mettevano mai non n’uscivano, sicchè vuol dire che mai non fu fatto slmile peccato nè sì empio da alcuno cherico perch’elli fusse messo in Malta, come fu quello di questo vescovo. E predice ora di Ferrara, dicendo, Troppo sarebbe larga la bigoncia; cioè troppo sarebbe grande lo tinello, Che; cioè lo quale, ricevesse il sangue ferrarese; cioè di quelli di Ferrara debbono essere morti assai per la cagione del detto vescovo, E stanco chi ’l pesasse; cioè lo detto sangue dei Ferraresi, ad oncia ad oncia: uncia è la dodicesima parte della libbra, Che; cioè lo qual sangue, donerà; cioè che fia cagione che si sparga e farà spargere col dono ch’elli farà ai detti marchesi, del quale fu detto di sopra 7, Per mostrarsi diparte; cioè per mostrare sè essere de la parte dei detti marchesi, e cotai doni; cioè sì fatti doni, chenti ài udito, Conformi; cioè respondenti, fieno; cioè saranno, al viver del paese; cioè al viver parzialmente e tirannescamente che si fa nella detta contrada. Su; cioè nel paradiso empireo, sono specchi; cioè angeli che si chiamano Troni, e però dice, voi; cioè uomini del mondo, dicete; cioè chiamate, Troni; cioè quelli angeli, li quali sono lo terzo ordine incominciando dai Serafini; e finge che dicesse Cunisa che questi angeli siano lucenti come uno specchio, e che in essi riluceno li [p. 301 modifica]iudici d’iddio: imperò che per questi ministri Iddio manda ad esecuzione li suoi iudici in questo modo, ch’elli ragguardano in Dio e vedeno la volontà d’Iddio e quella metteno ad esecuzione, et in essi, dice Cunisa, che ragguardando vedeno li iudici d’Iddio, Onde; cioè dai quali troni, rifulge a noi; cioè risplende a noi beati, Dio; iulicante; cioè Iddio quando iudica, Sì che; cioè per la qual cosa, questi parlar; cioè della iustizia d’Iddio, ne paion boni; cioè a noi che parliamo della iustizia d’Iddio, e però ci dilettano. Qui; cioè in questo sermone et in questa materia, si tacette; cioè lo detto spirito, e fecemi sembiante; cioè vista e cenno, Che fosse ad altro; cioè ad altra cosa, volta per la rota; cioè per la circulazione che finge che facciano per lo pianeto, cioè che non intendea più a ragguardare nei Troni li iudici d’Iddio; ma ad altra speculazione, ne la quale girava da Dio a Dio, In che; cioè nella quale rota e circulazione, si mise, com’era davante; cioè com’era prima a fare la sua circulazione. Seguita.

C. IX — 67-81. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che Folco da Marsiglia nominato di sopra, che era ancora nel pianeto di Venere, venisse a parlamento con lui dicendo così: L’altra letizia; cioè l’altro beato spirito che si mostrava lietissimo, che; cioè lo quale, m’era già nota; cioè era già manifesta a me Dante, Preclara; cioè molto chiara, cosa mi si fece; a me Dante, in vista; cioè in apparenzia, Qual; cioè chente, cioè tale quale, fin balascio; ecco che fa la similitudine che era fatto quello spirito, come uno balascio: questa è una pietra preziosa di colore bruschino, in che; cioè nel quale balascio, lo Sol percuota; che percotendovi lo Sole gitta raggi, e così gittava quello spirito. Per letizia; ecco la cagione dello splendore, cioè la letizia; e però dice, fulgor; cioè splendore, s’acquista; dell’anime beate, lassù; cioè in cielo, Sì come riso; cioè s’acquista, qui; cioè giù nel mondo; e parla ora l’autore come tornato, ma giù; cioè nel mondo, s’abbuia; cioè diventa oscura, L’ombra; cioè l’anima, di fuor; cioè all’apparenzia di fuora, come la mente trista; cioè d’entro; e così si vede nel mondo che quando la mente è lieta la faccia è allegra, e quando la mente è trista la faccia è turbata. Dio vede tutto; ecco come incominciò a parlare Dante al detto spirito dicendo: O spirito beato, Iddio vede ogni cosa, e tuo veder; cioè di te beato spirito, s’illuia; cioè entra in lui, cioè in Dio, Diss’io; cioè Dante, beato spirto; cioè a quello spirito che s’era fatto in verso me, sì che nulla Voglia; cioè voluntà nessuna delle sue creature, puot’esser fuia di sè a te; cioè per sì fatto modo lo tuo vedere entra in Dio, che niuna volontà ti può essere celata a te: imperò che tutte riluceno in Dio: imperò che Iddio vede ogni cosa, e così vedi la voluntà mia e lo desiderio [p. 302 modifica]mio, dunqua perchè nol sazi? E però dice: Dunque; cioè poi che così è, la voce tua; cioè di te spirito beato, che; cioè la qual voce. il Ciel trastulla; cioè diletta lo cielo, Sempre col canto di quei fochi pii; cioè col canto degli angeli Serafini che sono fuochi, cioè splendori et ardori di carità pietosi, Che di sei ale facen la cuculla; cioè li quali angeli fanno lo suo coprimento di sei ali: cuculla è Io vestimento dei monaci. Descrive santo Ioanni ne l’Apocalissi che vidde angeli che due ali si stendevano al capo, e due a’piedi, e dell’altre due una a ciascuna mano, Perchè non satisface; cioè perchè non sodisfa la tua voce, ai miei disii; cioè ai miei desidèri, senza aspettare ch’io dimandi: imperò che tu vedi gli miei desidèri? Già non attenderei; cioè aspetterei, io; Dante, tua dimanda; cioè di te spirito, cioè io non aspetterei che tu dimandassi, S’io; cioè se io Dante, m’intuasse; cioè intrasse a vedere lo tuo volere nel tuo cuore, come tu t’immii; cioè come tu entri dentro nel mio quore a vedere mia voluntà: imperò che tu la vedi in Dio. Illuiare, intuare, immiare sono verbi fatti e formati dall’autore da’ pronomi lui, me e te: illuiare è intrare in lui, immiare è intrare in me, intuare è intrare in te. E qui finisce la prima lezione del canto ix, et incomincia la seconda.

La maggior valle, ec. Questa è la seconda lezione del canto ix, nella quale l’autore nostro finge come Folco da Marsilia rispuose al suo desiderio. E dividesi questa lezione in cinque parti: imperò che prima per descrizione manifesta la terra onde fu, e lo nome suo: ne la seconda manifesta la condizione della vita sua, adiungendo alquanti esempli, et incominciasi quine: Che più non arse ec.; nella terza finge come li manifestò uno degli altri spiriti beati che quine erano, et incominciasi quine: Ma perchè tutte ec.; nella quarta finge che renda ragione, per che l’anima sopradetta sia in quel pianeto, e incominciasi quine: Da questo Cielo ec.; nella quinta finge l’autore che facesse disgressione e riprendesse li pastori della Chiesa, et incominciasi quine: La tua città ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co le esposizioni litterali, allegoriche e morali.

C. IX — v. 82-97. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come lo spirito beato chiamato Folco da Marsilia, pregato da lui, si nominò a lui descrivendo lo luogo per Astrologia e per Istoria, dicendo unde fu. Dice così: La maggior valle; questa è la valle per la quale va lo mare mediterraneo che si chiama lo mare del Leone, lo quale entra nella parte occidentale in una valle tra due monti, che l’uno è dalla parte d’Aftrica che si 8 chiama Abinna, e l’altro [p. 303 modifica]dalla parte d’Europa che si chiama Calpe, e va inverso l’oriente tra l’Europa e l’Africa infine che perviene a Cipri, e poi si stende in verso mano sinistra infine al mare Mauro, cioè oscuro e nero, et a la palude Meotide che sono a settentrione, ne le quali entra lo Tanai, e così divide da quella parte l’Asia dall’Europa. E però ben dice: La maggior valle: imperò che questa valle si stende infine al mezzo della nostra abitabile, e di verso mezzo di’ si stende in fine a l’Egitto dove lo Nilo entra per sette bocche in mare; lo quale Nilo divide l’Asia da la Africa; e però si vuole pigliare l’ordine delle parole così: allor; cioè allora, poichè io ebbi detto quel di sopra, Incominciaro le sue parole; cioè di Folco: La maggior valle; che è quella che è detta di sopra, in che; cioè nella quale e dentro a la quale, l’acqua si spanda; cioè l’acqua del mare Oceano si sparga, questo dice perchè lo mare Oceano, che va intorno a la terra, in più luoghi entra infra la terra; ma in nessuno luogo entra tanto, e però ben disse: La maggior valle, in che l’acqua si spanda Fuor di quel mar; cioè Oceano che si chiama così, perchè sempre scorre, che; cioè la quale, la terra inghirlanda; cioè cinge a modo d’una ghirlanda, Tra i discordanti liti; cioè tralle discordanti piagge, cioè d’Africa e d’Europa che sono discordanti in culto: imperò che l’Europa è cristiana, c l’Africa infidele; et in costumi anco sono discordanti li abitatori dell’una dagli abitatori dell’altra; et in portamenti et in molte altre cose, contra ’l Sole: imperò che va in verso l’oriente, Tanto sen va; cioè la detta acqua, che fa meridiano; cioè lo circulo che si chiama meridiano, cioè lo circulo meridiano è quello che divide l’uno emisperio e l’altro in due metà, sicchè l’uno è verso oriente e l’altro in verso occidente; e con ciò sia cosa che la lunghezza di ciascuno emisperio sia cento ottanta gradi, viene lo meridiano in ciascuno emisperio ai novanta gradi, Là, dove; cioè in quella parte, nella quale, l’orizonte pria far sole: orizonte, come già è stato detto, è circulo terminativo dei due emisperi e divisivo dell’uno dall’altro, sicchè divide tutta la ritondità in due mezzi; e però a chi è nell’occidente lo meridiano di Ierusalem è orizzonte, e però ben dice che quella acqua che era nell’occidente che avea l’orizonte di Ierusalem, tanto è ita in ver l’oriente, ch’è lo cielo meridiano di Ierusalem, sicchè è iunta infine a Ierusalem Di quella valle; cioè del detto mare mediterraneo, fu’ io; cioè Folco, litorano; cioè abitatore della piagge; ma non à ancora dichiarato di quale: imperò che quella valle àe due piaggie; l’una d’Europa e l’altra d’Africa, e però la dichiara ora, dicendo: Tra Ebro; questo è uno fiume che è tra Marsilia e Monpolieri di verso ponente, e Macra; questo è uno fiume che è nelle fini di Toscana e divide la Toscana dalla riviera di Genova, e per questi due fiumi già s’intende [p. 304 modifica]ch’elli era della piaggia d’Europa, e ch’elli era della Toscana in giù e da Mompolieri in su, e per questo non è anco dichiarato lo luogo, però adiungerà ancora, che per cammin corto; intende del fiume Macra che poco occupa di lunghezza: nasce de l’alpi d’Appennino et entra in mare a Luni, citta ora disfatta, e però dice la qual Macra per corto cammino, parte; cioè divide, Lo Genovese; cioè popolo, dal Toscano; cioè popolo: però che quello fiume è le confini et intra questi due fiumi, siede Buggea; che è una città d’Africa, e la terra und’io fui; cioè unde fui io Folco: questa è Marsilia che viene quasi incontro a Buggea, quasi Ad uno occaso; cioè ad uno coricare di Sole: imperò che ad una medesima ora s’asconde ai Buggeani et ai Marsiliesi, et ad uno orto; cioè et ad uno nascimento di Sole: imperò che ad una medesima ora si leva a gli uni et a gli altri; e dice quasi, perchè se non fusse così a punto, non vuole aver detto bugia; e perchè non s’intenda d’altra terra che di Marsilia, però adiunge: Che; cioè la qual terra, fe; cioè fece, del sangue suo già caldo ’l porto; cioè sparse lo sangue suo nel porto suo, e per lo sangue umano che è caldo si scaldò l’acqua del porto; e per questo dichiara che fu Marsilia, e tocca qui la storia che pone Lucano, libro terzo; cioè come Bruto che rimase a vincere Marsilia in luogo di Cesari, vinto da’ Marsiliesi nella battaglia fatta in terra, vinse poi in mare combattendo nel porto dove furno morti Marsiliesi assai, come dice Lucano. Folco; ecco che si nomina, mi disse; cioè disse me, quella gente, a cui; cioè a la quale, Fu noto; cioè fu manifesto, il nome mio; cioè di me Folco, e questo Cielo; cioè di Venere, Di me; cioè Folco, s’impronta; cioè si segna e suggella, com’io; cioè Folco, fei di lui; cioè mi improntai di questo cielo quando vissi nel mondo; cioè nel mondo seguitai la influenzia di questo pianeto, vivendo amoroso: ora torna la loda del mio vivere a la virtù informativa di questo pianeto. E nella seguente parte manifesta meglio la sua condizione per esempli dicendo.

C. IX — v. 97-108. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che Folco dichiarasse la sua condizione ch’elli ebbe quando visse nel mondo, dimostrando ch’elli seguitò la inclinazione della influenzia di Venere, dicendo per esempli sè molto essere stato infestato dallo amore, dicendo così: Tanto fui improntato dalla influenzia di questo pianeto, Che più non arse; cioè per amore carnale, secondo la fizione poetica; ma non secondo la verità, e questo spirito è indutto a parlare dello stato mondano sì, che ne parla come quando era nel mondo, secondo la fizione poetica, la fillia di Belo; cioè Dido reina di Cartagine la quale fu figliuola del re Belo, come dice Virgilio, la quale s’inamorò d’Enea troiano, secondo la fizione poetica: ma secondo la verità ella moritte che s’uccise per non [p. 305 modifica]rompere sua castità, si che al mio parere l’autore nostro fallitte seguitando in questo Virgilio, Noiando a Sicheo; lo quale fu lo suo marito et a la cenere sua ruppe fede che avea promesso di servare castità rompendola con Enea del quale s’innamorò, secondo la falsa fizione di Virgilio, et a Creusa; che fu moglie del detto Enea, la quale moritte in Troia. Parla questo spirito poeticamente così indutto da l’autore, perch’elli fu poeta e dicitore in rima, e però finge che l’anime passate di questa vita che sono ne lo inferno ricevano noia del male de’ loro parenti che si fa nel mondo; la qual cosa sarebbe vera, se li passati di quel male fusseno cagione, avendo dato malo esemplo di sè, come fu detto nella prima cantica. Potrebbesi anco intendere che lo male di Dido arebbe noiato a Sicheo et a Creusa nel mondo, in quanto arebbe avvilito Sicheo e Creusa, mostrando che Dido non avesse caro Sicheo, nè Enea Creusa se fusse stato vero. Se l’uomo piglia dopo la prima donna un’altra che non sia di tanto onore quanto la prima, o che non indugi a pigliarla uno pezzo o che s’inamichi con una femmina, dice lo mondo ch’elli fa poco onore a la prima e così la noia, et a questo modo forsi intende qui l’autore o vogliamo intendere. Noiando a Sicheo; cioè rompendo l’amore che avea in verso Sicheo suo primo marito, et a Creusa; cioè faccendo rompere ad Enea l’amore che avea in verso Creusa sua donna, Di me; cioè Folco: questa è la determinazione del comparativo più; quasi dica: Non arse più di amore Dido di me mentre ch’io fui giovano, e però dice, infin che si convenne al pelo; cioè d’essere innamorato: lo pelo canuto dimostra la vecchiezza, e però dimostra che si debbia lassare tale amore, Nè quella Rodopeia; questa fu Filli figliuola del re Ligurgo di Trazia 9 la quale ricevette Demofonte figliuolo del re Teseo d’Atene che tornava da la destruzione di Troia et inamorossi di lui; e stato seco uno spazio di tempo, disse che voleva andare a rivedere li suoi, e che in breve tornerebbe a lei, cioè infra spazio di uno mese; et avuta la licenzia, andato non tornò mai, unde ella per amore s’uccise, e però dice: arse più Di me; s’intende, dice Folco, quella Rodopeia; cioè Filli ch’è di Rodope che è uno monte che è in Trazia altissimo, sicchè si chiama promuntorio di Trazia, che; cioè la quale, delusa; cioè schernita, Fue da Demofonte; cioè da quel suo amante che li promisse di tornare, e non tornò mai, nè Alcide; ecco che arreca esemplo d’Ercule: Ercule fu chiamato 10 Alcide da Alceo padre d’Almena madre d’Ercule, cioè nipote d’Alceo. Questo Ercule [p. 306 modifica]andò in Oecalia, e vinse lo re Eurito re d’Oecalia et ucciselo e Glauco suo figliuolo, perchè non li volsero dare Iole figliuola del detto re la quale gli aveano promessa, e poi dopo la morte loro la prese; et innamoratosi di questa Iole figliuola del detto re e tanto fu vinto da l’amore suo ch’ella lo fece vestire a modo di femina e filare e ballare colle donne al suono del tamburo, e però s’intende: arse più Di me; dice Folco, secondo che finge l’autore, Quando Iole; cioè quella sua amante, nel cuor; cioè suo, ebbe rinchiusa: imperò che nel cuore sta l’amore. Non però; e perchè à fatto menzione dello amore suo, solve uno dubbio che si potrebbe muovere dall’autore che finge d’averlo udito parlare, e dal lettore che leggesse tale fizione, cioè tale fizione: Tu ti ricordi della tua colpa, come in paradiso si ricordano l’anime della colpa sua? Pare che no: imperò che della colpa s’à tristizia, e la beatitudine non può essere con tristizia, e però a questo risponde dicendo: Non però qui; cioè in questo luogo, cioè in cielo, si pente; cioè s’à penitenzia da quelli che ci sono che non potrebbe essere senza tristizia, e qui non può essere se non litizia; e però adiunge: ma si ride: imperò che qui è continua letizia, e dimostra di che sia questa letizia, Non de la colpa: imperò che de la colpa non si può ridere, che; cioè la qual colpa, a mente; cioè a la memoria, non torna; cioè non ritorna: imperò che per la colpa è sodisfatto 11, unde è cancellata, Ma del valor; ecco di che si ride, cioè del valor divino, cioè della potenzia d’Iddio, che ordinò e provide; cioè che ordinò per sì fatto modo la natura, che li cieli mandasseno giù nelle cose naturate, cioè negli elementi e ne le cose dementate, ne li animali bruti e ragionevili e ne l’altro cose sì le sue influenzie, che li producesseno ad essere, conservasseno a tempo e notricasseno, e nei cuori umani le influenzie che li disponessono à le virtù; e provide sì che, s’elli tali influenzie torcessono in male co le loro malizie, che 12 la torsione si purgasse e la influenzia ritornasse ne la sua nettezza, e così tutte le cose Iddio provide ab eterno che ogni cosa riuscisse a bene. E questo è quello di che si ride, cioè che Iddio àne così ordinato e proveduto. Qui; cioè in cielo, si rimira ne l’arte; cioè un’altra volta si mira nell’arte della natura informativa che è nei cieli e nei corpi celesti, ch’adorna; cioè la quale adorna, cioè fa bello et ornato, Cotanto effetto; cioè si grande affetto, cioè quello che viene nel mondo e negli uomini; e ben dice rimira, perchè altra volta l’anno veduto quando [p. 307 modifica]sono stati nel mondo, et ora meglio lo vedono, e discernesi ’ l bene; cioè e discretamente si vede e cognosce lo bene, a che intende la virtù informativa di questi cieli secondo la Providenzia Divina, Per che al modo di su; cioè che al modo del bene supremo, che è Iddio, quel dì già torna; cioè lo bene di sotto che produceno li cieli, e lo bene tutto della natura naturata: imperò che ogni bene, che è nella natura naturata, torna al modo et a la forma che dà lo bene supremo, cioè Iddio: ogni cosa torna secondo che la sua providenzia dispone e ordina, et ogni cosa torna in bene: imperò che Iddio non vuole, nè può volere altro che bene.

C. IX — v. 109-117. In questi tre ternari lo nostro autore finge come in quello cielo si rappresenti Raab, che fu quella femina che ricevette quelli del popolo d’Iddio che furno mandati da Iosue in Ierico; unde secondo che è scritto nel libro di Iosue ne la Bibbia, quando lo popolo d’israel intrò in terra di promissione, combattette la città di Ierico che non li volse ricevere. E per vedere e sapere le condizioni della città, Iosue mandò nella terra tre uomini del popolo d’Iddio scognosciuti, acciò che vedessono la città dentro, e stativi alcuni di’ furno cognosciuti e volseno essere presi; ma eglino fuggittono in casa della detta Raab, la quale era femina meretrice accesa eccessivamente d’amore, et avea la casa sua in su le mura della città, et intrati in casa sua si manifestorno a lei, et ella per l’amore d’Iddio li campò e calogli giù da le mura della città per la finestra. Unde ellino le dierno uno panno vermiglio, dicendoli che quando ellino intrassono ne la città, ella lo cavasse fuora e sarebbe sicura ella e chi fusse con lei, e così addivenne: imperò che, ruinando la città et ardendo lo fuoco, lassò la casa sua e rimase libera da lo incendio e da la ruina. E però l’autore finge che Folco, lo quale introdusse di sopra a parlare, li mostrasse questa Raab, perch’ella fu accesa d’amore et ebbe fede a le parole che coloro li disseno come persona benivola et amorosa in verso lo prossimo, e però dice: Ma perchè tutte le tue vollie; cioè 13 voluntadi di te Dante, piene; cioè sazie, Ten porti; cioè te ne porti, che; cioè le quali voluntadi, son nate; cioè sono venute a te Dante, in questa spera; cioè poi che tu fosti in questo corpo di Venere, secondo la lettera, ma secondo l’allegoria si dè intendere, poichè tu intrasti in questa materia, Proceder ancora oltra; cioè a narrarti, mi conviene; cioè a me Folco, che veggo che tu ài anco vollia di saper chi è questo spirito che è presso a me; e manifestali la sua voluntà, cioè dell’autore. E questo finge l’autore, per mostrare 14 quel che àe detto di sopra, cioè che li beati vedeno in Dio le voluntà nostre, e dice: Tu vuoi saper; cioè tu, Dante; ecco [p. 308 modifica]la tua volontà, chi è ’n questa lumera; cioè tu, Dante; ecco la tua voluntà: chi è in questa lumera, cioè in questo splendore, Che; cioè la quale lumera, qui appresso me; cioè in questo luogo presso a me Folco, così scintilla; cioè così sfavilla, Come raggio di Sole; ecco la similitudine, cioè come sfavilla lo raggio del Sole, in acqua mera; cioè in acqua pura: quando lo raggio del Sole viene in su l’acqua chiara manda splendore e scintille a la parte opposita. Or; cioè ora, sappi; cioè tu, Dante, che là entro; cioè dentro a quello splendore, si tranquilla; cioè si riposa, Raab; cioè quella meritrice, che fu chiamata Raab del popolo infidele di Ierico, et a nostro ordin; cioè a l’ordine di noi, che fummo amorosi nel mondo et ora ardiamo nello amore di Dio e del prossimo, è coniunta; cioè Raab che fu amorosa nel mondo, e per l’amore d’Iddio campò lo prossimo, e che dopo quello fu santa e buona donna sì, che ora si rappresenta in questa spera cogli altri beati spiriti che sono innamorati di Dio, E di le’; cioè e di lei, cioè Raab, il sommò grado; cioè di questa spera, si sigilla; cioè s’impronta come si impronta lo suggello ne la cera. E per questo l’autore dà ad intendere che in ogni ordine di beati siano gradi sì, che chi è stato più virtuoso in quella virtù, è in maggiore grado e più alto in verso Iddio, in vita eterna, e chi è stato meno virtuoso è in più basso grado. E per questo si debbe intendere che chi àne più meritato à maggiore premio e maggiore beatitudine, e chi meno minore, e però finge l’autore che li spiriti beati che si rappresentano ne’ corpi celesti girino per lo corpo del pianeto in giro, e quelli che sono al perno più tardo, e quelli che sono più di lungi più ratto: imperò che quelli che sono a la superficie sono più alti in verso Iddio, e quelli che sono al centro più di lungi; e così in quello mezzo sono molti gradi, e chi più ratto gira significa che abbia maggior fervore. E perchè Raab fu ardentissima in verso Iddio e lo prossimo, poi che fu ammaestrata da coloro d’Israel, e fu la prima che del populo gentile credesse, però l’autore finge ch’ella sia al supremo grado; e questo che dice di questo pianeto si debbe intendere di tutti gli altri dei quali è detto, e questo è ragionevile: imperò che in una medesima virtù sono molti gradi, e così debbono rispondere li premi sicchè, benchè siano nove ordini di beati, ciascuno ordine à gradi di premio come sono stati vari gradi di merito. Seguita.

C. IX — v. 118-126, In questi tre ternari lo nostro autore finge come Folco continuò ancora lo suo parlare de la detta Raab, dicendo: Da questo Cielo; cioè di Venere, in cui; nel quale cielo, l’ombra s’appunta; cioè l’ombra, che la terra fa, stende lo suo corno infine al cielo di Venere, e più su non passa, Che ’l vostro mondo face; cioè la quale ombra la terra in che è lo vostro mondo, cioè di [p. 309 modifica]voi uomini 15, pria; cioè innanti, ch’altra alma; cioè che altra anima, Del triunfo di Cristo; cioè della preda che Cristo tolse al dimonio quando spogliò ’l Limbo, quando menò li santi Padri con seco in vita eterna, fu assunta; cioè fu levata suso al cielo di Venere: imperò che niuna altra innanti a lei in quello cielo fue rappresentata. Ben si convenne; cioè ben fu cosa convenevile, lei; cioè Raab, lassar per palma; cioè per segno di vittoria, In alcun Cielo; cioè in alcuno dei cieli che sono nove, per li quali si danno ad intendere 9 gradi di vita eterna, de l’alta vittoria; cioè della vittoria che Cristo ebbe contra lo dimonio in su lo legno della croce, Che; cioè la qual vittoria, s’acquistò; da Cristo, coll’una e l’altra palma; cioè coll’una e l’altra mano; e ponsi la parte per lo tutto: palma è la parte dentro della mano, et in quella vittoria amendune le mani di Cristo furno chiavate in su la croce, Perch’ella favorò; cioè favoreggiò, la prima gloria Di Iosue: imperò che Iosue dopo Moise rimase duce del populo d’Israel in terra di promissione, e la prima città ch’elli combattette e vinse, poiché passò lo fiume Iordano, fu Ierico; a la quale vittoria fu favorevole Raab, che ricevette li messi di Iosue e credette loro e campogli, mettendoli fuori della città per la finestra, in su la terra santa; cioè in su la terra, che Iddio aveva promesso al popolo suo, Che; cioè da la quale, poco tocca al papa la memoria; cioè della qual terra santa poco se ne ricorda lo papa, che non se ne cura, perch’ella sia in podestà de’ Saraini 16. E così esce di questa materia et entra a riprensione de l’avarizia dei plelati 17 de la Chiesa, faccendo disgressione.

C. IX — v. 127-142. In questi cinque ternari et uno versetto lo nostro autore finge che lo spirito detto di sopra seguitò la riprensione de la avarizia dei prelati de la Chiesa, e la negligenzia dell’aquistamento della terra santa, dicendo cosi: la tua città; cioè di te Dante, cioè Fiorenza, che; cioè la qual città, di colui è pianta; cioè del Lucifero: imperò che egli l’à piantata e disposta al suo servigio, acciò ch’ella gli dia frutto de l’anime umane, le quali desidera di tirare seco a perdizione, Che; cioè la quale, pria; cioè prima, volse le spalle al suo Fattore; cioè fu disobediente a Dio e fece contra lui volger le spalle e ribellarsi e contraffare: Iddio fece lo Lucifero e tutti gli angeli, et elli colla sua setta si levò contra Iddio, [p. 310 modifica]e però fu cacciato di paradiso, E di cui; cioè e del qual Lucifero. è la invidia tutta quanta: imperò ch’elli è padre della invidia e da lui ebbe origine, e per invidia si mosse contra lo Verbo Divino, e poi a tentare li primi parenti e fargli cadere da l’obedienzia, Produce; cioè la detta tua città di Fiorenza, e spande; cioè sparge per lo mondo, il maladetto fiore; cioè lo fiorino dell’oro, nel quale è da l’uno lato formato lo giglio, e dall’altro santo Ioanni 18 Batista, Che; cioè lo qual fiorino, à disviato le pecore e gli agni; cioè li grandi e li piccoli da Dio et àlli convertiti al dimonio. Però; ecco la cagione, ch’ à fatto lupo del pastore; cioè imperò che ’l fiorino àe fatto diventare coloro che debbono essere pastori, lupi; cioè li prelati che debbono essere pastore dei sudditi e pascergli del cibo spirituale, et i poveri ancora del cibo corporale, sono diventati lupi a divorare le facultà loro, acciocchè abiano 19 de’ fiorini. Per questo; cioè per aver bene de’ fiorini, l’Evangelio e i Dottor magni; cioè la santa Scrittura et i suoi libri, Son derelitti; cioè sono abandonati dai cherici e dai prelati, e solo; cioè solamente, ai Decretali; che sono libri di ragione canonica, Si studia; cioè da loro; perchè ne guadagnano da coloro che piatiscono li benefici, sì ch’appare; cioè sicchè si vede, ai lor vivagni; cioè ai loro vestimenti e panni: vivagno è lo canto de la tela lana; e però si pone per li panni, vestimenti et adornamenti, ponendo la parte per lo tutto per lo colore intellezione. A questo; cioè a lo studio dei fiorini, intende papa e cardinali 20; li quali sono al presente, Non vanno i lor pensier; cioè del papa e de’ cardinali, a Nazzarette; la quale è una città delle città delle cittadi della terra santa, ne la quale Cristo fu annunziato a la Vergine Maria 21 e diventò gravida, Là, dove; cioè nella quale città di Nazzarette, Gabriel; cioè l’angelo Gabriel, che è de l’ordine dei Serafini, aperse l’ali: imperò che a quella città discese ad annunziare a la Vergine Maria la incarnazione di Cristo. Et ora profetizza che tosto Roma sarà liberata da sì fatti prelati, e però dice: Ma Vaticano; questo è uno luogo in Roma così chiamato, nel quale sono stati sotterrati migliaia di martiri, e l’altre parti elette Di Roma; cioè li santuari e li luoghi sacrati di Roma, che; cioè le quali, son state cimitero; cioè luogo di sepultura, A la milizia; cioè a la cavallaria dei santi martiri, che; cioè la quale milizia, Pietro seguette; cioè seguitò santo Piero apostolo, credendo a la sua fede e morendo per la confessione della fede, come moritte santo Piero, Tosto libere fien [p. 311 modifica]da l’adultero: adultero è quando lo sposo e la sposa si coniunge a chi non à dato la fede matrimoniale; e però li prelati che vanno di rieto a l’avarizia, adulterano: però che lassano la fede data a Cristo e vanno di rieto al fiorino che è esca del dimonio. Ecco profeta che tosto Roma debbe essere libera da questa avarizia o che Iddio mutrà tosto li quori loro, o che la corte si partirà quinde; e questo credo fusse la ’ntenzione de l’autore: imperò che passò a Vignone 22. E qui finisce lo canto nono, et incominciasi lo x.

Note

  1. C. M. una filliuola, cioè Clemenza, de’ quali Ludovico come primogenito succedè a lui nel regno d’Ungaria
  2. C. M. più volontà di
  3. C. M. secondo iustizia della colpa, del quale poi che purgato è iustamente, con la pena dimentica la malizia e tristizia e ricordasi de l’atto che in sè e per sè solo meritorio non è nè demeritorio, se non segondo la volontà che vi s’adiunge. Seguita l’altra parte
  4. C. M. Pizardo
  5. Nostrati; nostrali, dal latino nostras, atis. E.
  6. Papa, in amendue i numeri truovasi presso gli antichi siccome duca, patriarca e simili. E.
  7. C. M. sovra, questo prete cortese: cioè questo vescovo Alessandro, cortese in donare lo sangue di quelli di Fontana ai marchesi da Esti, Per
  8. C. M. chiamasi Alunna, e l’altro
  9. Trazia; Tracia, mutato il c in z; corno in Grezia, prenze ec. E.
  10. C. M. chiamato Alcide da alce che è a dire virtù, et idea, forma; cioè forma della virtù; o vero da Alceo
  11. C. M. sodisfatto et è cancellata sì, che non può tornare la memoria sua: l’atto, intorno a che è stata la colpa, non si dimentica, come è stato detto, Ma del valor;
  12. Qui la particella che è ripetuta per meglio fare avvertito il collegamento delle proposizioni. E.
  13. C. M. cioè tutti li desidèri di te Dante,
  14. C. M. per confermare quello
  15. C. M. omini fa: imperò che la terra gitta ombra a l’emisperio opposito a quello in che è lo sole in verso il cielo e sempre si stringe l’ombra e digrada quanto più va in su, in tanto che viene in nulla sì che passa l’ombra lo corpo della Luna et occupalo, e lo corpo di Mercurio et occupalo, benchè non tutto, che ne lassa dalle sponde per la sua grandezza e la punta viene al corpo di Venere, pria;
  16. Saraini; Saracini, levatone il c. E.
  17. Plelati; prelati, mutato l’r in l come usa talvolta il popolo pisano. E.
  18. C. M. Ioanni papa, Che;
  19. Abiano, conforme al latino habeant. E.
  20. C. M. cardinali; cioè li prelati tutti che sono nella Chiesa dal maggiore al minore, Non vanno
  21. C. M. Maria da l’angelo Gabriello, et allora fu fatta la concezione sua,
  22. Vignone; Avignone, privato dell’a come Ragona, rena per Aragona, arena. E.
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