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come tutti vanno al giudicio della loro coscienzia, e de’ giudicatori, e vanno con ordine, secondo l’ordine de’ tempi1, dicono essi medesimi di sè, et odono dire d’altrui, e poi son volti giù in dispregio, et in viltà nel cospetto de’ buoni, o di sè2 medesimo.

C. V — v. 16-20. In questo ternario e due versi dell’altro l’autore dimostra quel che Minos disse a lui, quando lo vide sgomentandolo, e dicendo così: O tu; cioè Dante, che vieni al doloroso ospicio; cioè all’albergo dello inferno, che è pieno di dolori: Disse Minos a me; cioè Dante, quando mi vide; cioè quando vide me Dante, Lasciando l’atto di cotanto officio; cioè lasciando l’esaminazione, e la giudicazione dell’anime che è l’uficio suo, come appare di sopra. Guarda com’entri; tu Dante, che tu non entri solo, e di cui tu ti fide; cioè di che guida tu ti fidi, che ti meni per questi luoghi, perchè ognuno non è sofficiente guida; anzi niuno sanza la grazia di Dio, che poi n’esca come ne vuoi uscire tu. Non t’inganni l’ampiezza dell’entrare. Quasi dica: Non guardare perchè la via sia ampia dell’entrare: chè all’uscire è molto stretta, anzi strettissima. Questo che l’autore finge che li fosse detto per Minos, è verisimile quanto alla sentenzia litterale: imperò che il demonio ogni bene vuole storpiare3 e con paura impedire; e così finge l’autore che facesse a lui, che finge essere ito per l’inferno, e spaventare sè medesimo da’ vizi per le pene che quivi sono, et appresso, in persona sua, li lettori. Ma allegoricamente di quelli del mondo intese, i quali entrati, per considerare tra li viziosi e li peccatori la vita viziosa, nella quale è grande pericolo ad entrare, grida la lor coscienzia significata per Minos, gridano li santi e buoni uomini del mondo: Guarda com’entri, e di cui tu ti fide. Quasi dica: Non entrare e non ti fidare di te stesso, nè d’altri, se non della grazia di Dio: imperò che sanz’essa chi entrasse nella vita viziosa, quantunque vi entrasse pur per considerare, vi rimarrebbe: tanto è ampia la via viziosa per li diletti mondani e falsi beni, che sono in essa e per la fragilità umana. Gridano ancora quelli medesimi viziosi, mormorando di loro come i Farisei che diceano: Cum publicanis et peccatoribus manducat magister vester.

C. V — v. 21-24. In questo verso e uno ternario lo nostro autore pone la risposta che finge che facesse Virgilio, la quale secondo la lettera è sofficiente, dicendo: E il Duca mio; cioè Virgilio, a lui; cioè Minos rispose: Perchè pur gride? Ben si può riprendere lo demonio di gridare: imperò che gridare è parlare con ira, contra

  1. C. M. de’ peccati, dicono
  2. Medesimo è qui posto indeclinabile alla guisa de’ Latini. E.
  3. C. M. stroppiare