Codice cavalleresco italiano/Appendice
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APPENDICE
SUI GIURÌ D’ONORE MILITARI
I giurì d’onore pei militari.
a) Il Regio Decreto 4 ottobre 1908
e sua applicazione.
I militari d’ogni grado dell’Esercito attivo che nel ventennio 1888-1907 affidarono la soluzione delle vertenze loro alla sorte delle armi furono 2895. Parecchi nel combattimento singolarono perdettero la vita, ch’essi con sacro impegno avevano consacrata alla difesa della Nazione.
Fatte le debite proporzioni, codesta cifra di militari duellatori con la massa dei non militari è impressionante e produce meraviglia e giustifica il dubbio ingeneratosi che l’ufficiale italiano, sempre pronto al sacrificio per la disciplina, esempio meraviglioso di rispetto verso l’altrui diritto, tollerante e paziente come un Giobbe, nasconda sotto codeste provate virtù un carattere più che battagliero, litigioso.
Dare corpo di realtà a codesto dubbio è frode alla giustizia, perchè ingiusta è codesta attribuzione ai nostri vecchi e benemeriti ufficiali, i quali non ebbero e non hanno codesta magagna.
La frequenza esagerata del duello nell’Esercito trae la sua ragione nella tradizione secolare, comune a chi professa le armi, particolare ai latini, per la quale si pretese sempre dal militare una profonda e delicata sensazione dell’onore. A ciò si aggiunga l’estimazione che in tutti i tempi nell’Esercito nostro si ebbe per qualsiasi manifestazione di arditezza e di valore personale, e ciò malgrado la dimostrazione fornita dall’esperienza, che il duello non costituisce un atto di coraggio, sibbene una coercizione illogica da parte di un pregiudizio inveterato, il quale oggi non ha più motivo di sussistere.
Preoccupato della facilità con la quale gli ufficiali scendevano sul terreno, quasi sempre per ragioni futili, il Ministero della guerra, riconosciuta la utilità pratica dello Istituto del giurì d’onore, provvide a regolare e restringere l’uso del duello con il Regio Decreto del 4 ottobre 1908.
4 ottobre 1908.
(Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno
il 3 novembre 1908, n. 257)
VITTORIO EMANUELE III
per grazia di dio e volontà della nazione
re d’italia.
Sulla proposta dei Nostri ministri segretari di Stato per la guerra e per la marina;
Abbiamo decretato e decretiamo:
Art. 1.
Quando fra due militari sorga una vertenza cavalleresca, è dovere dei loro rappresentanti di tentare ogni mezzo per comporla amichevolmente.
L’offensore e l’offeso, come chi li rappresenta, debbono attingere nel sentimento stesso dell’onore, rettamente inteso, e nei legami che avvincono gli animi della grande famiglia militare, unita nella comunanza di un altissimo scopo, la coscienza di tale dovere.
Tanto è generoso l’atto di chi, dopo aver trasceso verso un compagno d’armi in un momento in cui minore era la serenità dello spirito, manifesta, con lealtà di soldato, il rammarico dell’offesa recata, quanto quello di chi accetta, con pari lealtà, la mano che gli viene stesa. L’uno e l’altro hanno benemeritato di quei sentimenti di fratellanza e di solidarietà, che concorrono a costituire la saldezza dell’esercito e dell’armata.
Art. 2.
Qualora non riesca possibile comporre la vertenza, è obbligo dei rappresentanti di deferire questa al giudizio di un Giurì d’onore, da costituirsi nel modo indicato negli articoli seguenti.
La violazione di quest’obbligo costituisce mancanza disciplinare.
Art. 3.
I quattro rappresentanti redigono e firmano una relazione sui fatti che hanno cagionato la controversia e richiedono che il Giurì si pronunci sulla vertenza. Qualora i rispettivi rappresentanti non siano d’accordo sopra taluni particolari dei fatti, i rappresentanti di ciascuna parte redigono e firmano una relazione propria.
Se le parti, quando la vertenza sia sorta per una gravissima offesa, non intendono far noti i fatti, i rappresentanti debbono farne cenno nella relazione.
Art. 4.
La relazione o le relazioni, chiuse dai rappresentanti in un unico piego con l’indicazione all’esterno del grado e del nome delle parti e dei rappresentanti, vengono trasmesse per via gerarchica:
Per l’esercito
Per la marina
È dovere delle autorità gerarchiche di non frapporre ostacoli od indugi di sorta alla trasmissione del piego contenente la relazione o le relazioni dei rappresentanti.
Art. 5.
Le autorità, a cui è diretto il piego, senza prendere cognizione del contenuto, ordinano immediatamente la costituzione di un Giurì d’onore, composto di un presidente e di due membri che esse scelgono rispettivamente fra gli ufficiali in servizio effettivo permanente che da loro dipendono, superiori in grado od anzianità ai contendenti.
Il Giuri sarà presieduto:
Le autorità, che ordinano la costituzione del Giurì, trasmettono al presidente il piego chiuso, che contiene la relazione dei rappresentanti, e indicano il luogo dove il Giurì deve riunirsi.
Il presidente stabilisce il giorno della riunione.
Art. 6.
Il Giurì, presa cognizione dei documenti, ed intese, ove lo ritenga opportuno, le parti ed i loro rappresentanti, pronunzia il proprio verdetto. Le parti dovranno sempre essere intese quando ne facciano domanda.
Il verdetto può avere per risultato:
Il Giurì emette la dichiarazione che non v’è ragione a
contesa in quei casi, in cui i fatti non ledono l’onore di alcuno dei contendenti e perciò per tali fatti non deve sussistere cagione di rancore fra le parti.
Il Giurì redige un processo verbale di conciliazione quando, vagliati i fatti ed attribuita a ciascuna delle parti la propria responsabilità nella vertenza, possa dichiarare questa amichevolmente composta senza detrimento dell’onore dei contendenti. Il Giurì fissa pure il modo e il tempo della loro conciliazione sia chiamando innanzi a sè i contendenti e i loro rappresentanti, sia determinando che la conciliazione avvenga per iscrìtto. Le parti debbono sempre sottoscrivere il verbale stesso, del quale viene rilasciata copia a ciascuna di esse, mentre l’originale è rimesso all’autorità che ha nominato il Giurì; è però lasciata ad ognuna delle parti la facoltà di dichiarare che non si ritiene soddisfatta dalla deliberazione del Giurì, attenendosi, in tal caso, a quanto è prescritto dall’art. 7.
Il Giurì ha facoltà di pronunziare la dichiarazione di non intervento, quando la vertenza sia cagionata da fatti di natura tale da rendere evidente la convenienza che le parti siano lasciate libere di risolvere come meglio credono la vertenza stessa, rimanendo responsabili dei propri atti di fronte ai regolamenti militari ed alle leggi penali.
Art. 7.
Nei casi a) b) dell’articolo precedente, se una delle parti, o ambedue, non ravvisino nel verdetto emesso dal Giurì sufficiente riparazione all’offesa che ha cagionato la vertenza, possono, nei tre giorni successivi alla notificazione del verdetto stesso, esporne per iscritto o verbalmente le ragioni all’autorità che ha convocato il Giurì, la quale può confermare il verdetto, oppure può convocare un nuovo Giurì il cui giudizio sarà inappellabile.
Art. 8.
È obbligo di ambedue le parti di attenersi al giudizio definitivo del Giurì; e la violazione di tale obbligo costituisce una grave mancanza disciplinare.
Art. 9.
Le presenti disposizioni valgono anche per le vertenze fra militari dell’esercito e dell’armata. In tal caso il piego, di cui all’art. 4, deve essere diretto all’autorità da cui dipende il militare che ha inviato la sfida.
L’autorità stessa costituisce il Giurì, nominando il presidente ed un membro; la nomina dell’altro membro è deferita all’autorità da cui dipende lo sfidato.
Art. 10.
Per gli ufficiali in congedo, quando non sono considerati come in servizio, ricorrere al Giurì d’onore, per la risoluzione di vertenze cavalleresche, è obbligo morale.
Anche le vertenze fra militari e borghesi, qualora questi ultimi vi aderiscano, potranno essere deferite ai Giurì come sopra costituiti: e in questo caso l’accettazione del verdetto corrisponde per le parti ad un dovere d’onore.
Art. 11.
Sono abrogate tutte le disposizioni contrarie al presente decreto.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
VITTORIO EMANUELE
Registrato alla Corte dei Conti, addì 30 ottobre 1908. Reg. 46. Atti del Governo a. f. 31. — A. Armelisano.
Luogo del sigillo.
V. il guardasigilli ORLANDO Casana — C. Mirabello. |
Questo decreto, che pure rappresentava un passo gigantesco verso il progresso civile della Nazione, fu accolto con diffidenza.
Le cause di codesta freddezza devono ricercarsi nelle disposizioni che delegano alle autorità superiori la nomina dei componenti il corpo giudicante, privando le parti del diritto fondamentale del Giurì d’onore, sicchè questo assumeva (erroneamente) agli occhi degli interessati la parvenza larvata di un Consiglio di disciplina a scartamento ridotto.
Come conseguenza di codesti errati supposti, coloro che venivano designati a giudicare, credettero di sentirsi in disagio morale, e perciò quasi sempre si sottrassero alla responsabilità del giudizio con la formula prevista dal decreto di «lasciare le parti libere di risolvere a loro beneplacito la vertenza».
Codesta abitudine non solo frustò le lodevoli intenzioni e gli sforzi del Ministero; ma venne a creare altresì un non giusto privilegio pei militari duellatori, i quali chiamati a rispondere del reato di duello davanti al magistrato, presentavano il verdetto di non intervento, emanato dal Giurì, considerato da essi come un ordine di battersi, e venivano... assolti.
Malgrado le difficoltà e le mende attribuitegli, il R. Decreto 4 ottobre 1908 fu un colpo di mazza bene aggiustato alla tradizione. La persuasione che essa era illogica, contraria alla civiltà, al buon senso e alla Nazione, penetrò nell’animo dei più refrattari. Si comprese che si poteva essere ottimi e onorandi ufficiali senza battagliare per un nonnulla, e che la riparazione civile decretata da un Giurì era più efficace e più ragionevole di un duello spesso ridicolo, sempre o quasi sempre assurdo.
Vinta con tanta virtù d’intelletto, di sacrificio e di valore la immane guerra lo spirito illuminato del Generale Caviglia comprese le esigenze dei nuovi tempi, e con la circolare n. 2530 del 1° giugno 1919 ammoniva i primi e i loro rappresentanti, nonchè i componenti il Giurì d’onore, essere doveroso per tutti di trovare il modo di regolare amichevolmente le vertenze tra gli ufficiali mediante il Giurì, ricordando la «grande missione» di ordine, di disciplina e di fraternità sociale, a svolgere la quale in seno alla Nazione erano chiamati a compiere pel bene della patria i militari reduci dalla guerra o dalla prigionia, in servizio attivo e in congedo, e che a codesta missione verrebbe meno chi si dimostrasse privo di serenità di spirito, e di quel cameratismo che è sempre stato e sarà una tra le migliori forze del nostro Esercito glorioso.
Dalle notizie diffuse dalla stampa si ritenne che i concetti in ordine al duello nell’esercito non mutarono coll’assunzione del Generale Albricci al Dicastero della guerra; anzi, che gli studi per una radicale riforma conforme alla evoluzione della coscienza pubblica procedevano attivi, sebbene circospetti per la delicatezza dell’argomento, trattandosi di eliminare non solamente il ricorso alle armi per risolvere le cosidette vertenze d’onore, ma anche il seguito propriamente giudiziario di codeste vertenze, poichè la ragione di una querela pubblica verrebbe a mancare.
Dopo i Generali Caviglia ed Albricci altri Ministri sono passati a reggere successivamente le sorti del nostro Esercito, ma per la precarietà della funzione loro, nessuno ebbe tempo o modo di studiare e concretare quelle nuove disposizioni che anche dalla massa degli ufficiali vengono reclamate. Il Decreto 4 ottobre 1908 è ormai sorpassato. Non corrisponde più alla coscienza pubblica ed è.... un residuo di una evoluzione spirituale sopraffatto da un concetto più elevato e... pratico della vita nazionale, e deve perciò essere almeno rinnovato nella sostanza.
Le linee generali della riforma reclamate dai tempi dovrebbero in pari tempo salvaguardare i diritti imprescindibili della disciplina e l’interesse dei contendenti.
Di conseguenza, il Giurì d’onore militare, che dovrebbe sempre pronunziarsi sulle vertenze sottoposte al suo giudizio, necessiterebbe investirlo di funzioni disciplinari, o quanto meno incaricarlo di proporre alle autorità superiori le sanzioni per quelle colpe che risultassero a carico dei contendenti.
Nessun ufficiale potrebbe sottrarsi al giudizio del Giurì, comminando pene disciplinari di natura grave, quali la revoca dall’impiego e del grado, nei contravventori.
Il Giurì dovrebbe avere il compito di esaminare la questione e, a seconda dei casi, di provocare la conciliazione degli avversari, imporre le scuse da parte del colpevole sotto la comminatoria di sanzioni gravi; di stabilire in ogni singolo caso il torto e la ragione, dichiarando con ciò esaurita la vertenza d’onore.
I giudici in numero di tre o di cinque, dovrebbero essere designati dalle autorità chiamate a comporre il Giurì, ad eccezione di due, uno per ciascuna parte, da scegliersi nella terna proposta da ciascuno avversario. Così, mentre si concederebbe alle parti di avere nel Giurì un proprio eletto, verrebbero garentite le prerogative alle quali la disciplina militare non può rinunciare.
I giudici dovrebbero essere tutti superiori di grado ai contendenti e scegliersi tra gli ufficiali in servizio attivo permanente o in congedo, purchè veramente competenti nella materia. Speciali disposizioni dovrebbero regolare le vertenze tra militari e borghesi, i quali nella composizione del Giurì avrebbero gli stessi diritti e doveri dei militari, eccettuato, ben inteso le sanzioni disciplinari di carattere esclusivamente militare.
Le conseguenze disciplinari dei fatti, dai quali originò la vertenza, rimarrebbero di competenza del Ministro per la guerra. Queste, ripetesi, le linee generali alle quali dovrebbero corrispondere i nuovi provvedimenti in avverso all’abuso del duello nell’esercito, linee generali, invano sino ad oggi, agognate da tutti coloro che rivestono il grado di ufficiale dell’esercito.
E il Ministro, che riescisse a condurre in porto queste nuove direttive, ben meriterebbe della civiltà e della Nazione.
Note
- ↑ Occorre tener presente che il compito dei giurì militari, istituiti con questo decreto non possono, nè devono occuparsi delle questioni relative a vertenze tra militari, quale che sia la natura e il carattere di dette questioni. Le questioni procedurali e quelle di fatto che accompagnano quasi sempre lo svolgimento di una vertenza cavalleresca debbono essere risolte nei modi e nelle forme stabiliti dalle leggi d’onore.
I giurì militari non sono organi creati per aiutare i contendenti nella risoluzione delle controversie, evitando loro il dovere di provvedere personalmente alla costituzione di giurì che si rendessero necessari, e mettendo perciò a loro servizio un Comandante di Corpo, di Divisione o di Corpo d’Armata; ma hanno un solo ed esclusivo scopo: quello di controllare le vertenze tra militari per impedire che essi scendano sul terreno, quando ciò è possibile.
In base a questo unico scopo la legge ne determina il compito con formule determinate, tassative, che non si possono, nè si debbono parafrasare.
Il giurì militare può, infatti prendere una sola delle tre seguenti deliberazioni: a) dichiarare che non v’è luogo a contesa; b) fare un verbale di conciliazione; c) dichiarare il non intervento nella vertenza. Quindi non può dichiarare che v’è luogo a contesa, poichè la legge non lo consente, sebbene implicito negli altri due casi; non può dichiarare, non può deliberare di fare un verbale di conciliazione, perchè la legge non lo consente; mentre è necessaria la dichiarazione di non intervento, stando al decreto, a tutti i militari prima di scendere sul terreno; ma codesta dichiarazione non ha, nè può avere alcun diverso significato da quello che le parole esprimono. Erra quindi chi interpreta il disinteressamento del giurì militare come un ordine di battersi. Esso non ha altro effetto che di lasciare libero il corso alle leggi d’onore.
Questo principio è ribadito da una larga giurisprudenza penale. Se così non fosse i giudici militari dovrebbero rispondere di complicità in un reato.
Il legislatore, in termini poveri, ha detto ai militari: «Le leggi d’onore dànno a voi, come gentiluomini, il diritto di deferire le vostre questioni nelle vertenze cavalleresche e le vertenze stesse a giurì, che voi stessi nominate, e ne avete il diritto. Ma siccome siete anche militari, io voglio fare una eccezione alle leggi d’onore; voglio io avere il diritto di nominarvi un giurì ogni volta riteniate necessario uno scontro, per vedere se questo è veramente giustificato. Voglio sapere e controllare, sospendendo per un istante la forza delle consuetudini cavalleresche, le quali riprenderanno il loro vigore solo e se vi dirò: vi lascio liberi di fare quel che volete. Allora, e solo allora, potrete (non dovrete) scendere sul terreno, se le leggi d’onore lo richiedono».
Questa essendo la legge, è evidente che il giurì militare non possa prendere in esame nessuna questione che alla vertenza si riferisce, perchè, dato che la sua deliberazione deve essere conforme ad una delle tre stabilite dalla legge, non ha possibilità di risolverla.