Chi l'ha detto?/Parte prima/78

Parte prima - § 78. Virtù, illibatezza, modestia

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§ 78.



Virtù, illibatezza, modestia





Fu sempre nobile ufficio del poeta civile di condurre sul cammino della virtù con il suo canto: e sopra tutte le altre di simil genere, bellissime sono le parole di Dante: [p. 589 modifica]

1766.   Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti.
Ma per seguir virtute e conoscenza.

(Inferno, c. XXVI, v. 118-120).
E veramente quale scopo ha la vita? Non certo quello soltanto di appagare gli istinti materiali del corpo:

1767.   Esse oportet ut vivas, non vivere, ut edas.1

dice l’ignoto autore dei Libri Rhetorici ad Herennium (sia esso Cicerone o, come meglio si crede, Cornificio, od altri) nel lib. IV, cap. 28, § 39; o anche Quintiliano (Inst. orat., lib. IX, cap. 3, § 85): Non ut edam vivo, sed ut vivant edo. Le stesse parole dice Isidorus Hispalensis nelle Origini (II, 21, 13). ma la fonte comune di queste sentenze deve forse ricercarsi in una sentenza di Socrate conservataci da Macrobio, da Plutarco, da Diogene Laerzio (II, 34) e da altri.

E con più modesti intendimenti ammonisce Marziale che:

1768.   Non est vivere, sed valere, vita.2

(Epigr, lib. ep. 70, v. 15).

Quando si è rinunziato ad ogni alto scopo della vita, che cosa resta di essa? Così poco che non vale più la pena di vivere:

1769.   Summum crede nefas animam præferre pudori,
Et propter vitam vivendi perdere caussas.3

così nobilmente rimprovera Giovenale (Satira VIII, v. 83-84) coloro nei quali l’attaccamento alla vita arriva fino ad accettare turpi transazioni con la propria coscienza.
È la virtù che spinge l'uomo a belle e nobili azioni, giusta il verso di Lucano: [p. 590 modifica]

1770.   ....Stimulos dedit semula virtus.4

(Farsalia, lib. I, v. 120).
mirando a un grande e generoso ideale, e senza preoccuparsi della lode o del premio con cui gli altri uomini possano ricompensarlo. Infatti troppo spesso succede che le persone illustri per virtuose e grandi azioni o per dottrina ed intelligenza, dopo aver condotto una vita angustiata dall'avversità della fortuna, dalla indifferenza o anche dalla ostilità dei contemporanei, solo dopo morti ricevano il riconoscimento dei loro meriti. Tale è pur troppo l’andazzo del secolo, che

1771.   Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.

Così scrive il poeta, volgendosi alla sorella, che l’infelice famiglia all’infelice Italia con nuovi figli sta per accrescere, e le raccomanda:

                    ....A te nel petto sieda
Questa sovr’ ogni cura,
Che di fortuna amici
Non crescano i tuoi figli, e non di vile
Timor gioco o di speme: onde felici
Sarete detti nell'età futura:
Poichè (nefando stile
Di schiatta ignava e finta)
Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta.

La quale ultima sentenza è imitata dalla oraziana:

Virtutem incolumem odimus,
Suhlatam ex oculis quserimus invidi.

(Odi, lib. III, carm. 24, v. 31-32).

Non nego che qualche volta il fascino della virtù e del merito l’impone, e, attraverso le aspre vicende della lotta quotidiana per la vita, merito e virtù trovano la loro ricompensa, in modo che

1772.   Palmam qui meruit ferat.5

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che secondo l’Harbottle, Dict. of classical quotations, è tolto dai Lusus poetici del dott. Jortin (VIII, 20, Ad Ventos). Ma pur troppo questo non accade nè sempre nè spesso.

Meno male che per colui che è sicuro di sè e della rettitudine delle sue azioni rimangono altri conforti, e uno di questi può essere il pensare col grande agitatore Genovese, che

1773.   Due gioie concesse Iddio agli uomini liberi sulla terra: il plauso dei buoni, e la bestemmia dei tristi!

(Gius. Mazzini, La «Voce della Verità»,
negli Scritti editi ed inediti. Milano, 1861.
vol. I, pag. 168).

Ma per conservare spirito tanto sereno di fronte agli attacchi dei malevoli, la prima cosa necessaria è la tranquillità della coscienza, e allora l’innocenza conculcata può riconfortarsi poiché

1774.   Difesa miglior, ch’usbergo e scudo,
È la santa innocenza al petto ignudo.

(Tasso, Gerusalemme liberata, c. VIII, ott. 41).
e il Tasso così scrivendo ricordava senza dubbio il bel verso dantesco:

1775.   Sotto l’osbergo del sentirsi pura.

(Dante, Inferno, c. XXVIII, v. 117).
Dante medesimo ha quest’altra risposta non meno fiera e piena di dignità:

1776.   Io son fatta da Dio, sua mercè, tale
Che la vostra miseria non mi tange.

(Inferno, c. II, v. 91-92).
e il Metastasio nel Siroe (a. II, sc. 9):

1777.   Chi delitto non ha, rossor non sente.

come già aveva detto Ovidio nei Fasti (lib. IV. v. 311):

1778.   Conscia mens recti famæ mendacia risit.6

[p. 592 modifica]Ecco il linguaggio dell’innocenza:

1779.   D’un pensiero, d’un accento
Rea non son, nè il fui giammai

come canta Amina nella Sonnambula (parole di Felice Romani, musica di Bellini, a. I, sc. 11).

1780.   La verginella è simile alla rosa
Ch’in bel giardin su la nativa spina
Mentre sola e sicura si riposa,
Nè gregge nèpastor se le avvicina:
L’ura soave e l’alba rugiadosa,
L’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
Gioveni vaghi e donne innamorate
Amano averne e seni e tempie ornate.

(Ariosto, Orlando furioso, c. I. ott. 42).
Questa bellissima ottava dell'Ariosto, che è imitata su Catullo, ode LXII, v. 39, mi fa tornare a memoria una citazione melodrammatica:

1781.   Pura siccome un angelo.

(La Traviata, parole di F. Piave, musica di G. Verdi, a. II, sc. 5).

Ricordisi per assonanza anche il verso di Dante:

1782.   Puro e disposto a salire alle stelle.

(Purgatorio, c. XXXIII, v. 145).
la sentenza biblica:

1783.   Omnia munda mundis.7

(Lett. di S. Paolo a Tito, cap. I, v. 15).

che nei Promessi Sposi del Manzoni (cap. VIII) Fra Cristoforo cita così a proposito e con tanta efficacia allo scrupoloso Fra Fazio; e più calzantemente anche il seguente motto, che può benis[p. 593 modifica]simo essere adottato come impresa della purità e di cui la singolarissima istoria merita di essere conosciuta. Il motto è questo:

1784.   Potius mori quam fœdari.8

Giacomo di Portogallo, creato cardinal diacono del tìtolo di S. Maria in Portico nel 1456 a soli ventitrè anni d'età, nel 1459 fu mandato da papa Pio II legato pontificio in Alemagna, quando di passaggio per Firenze vi si ammalò e mori di una malattia bizzarra, difficile a spiegarsi qui, dovuta alla ostinata continenza, e che meravigliò assai i fiorentini di quel tempo, poco abituati a tanta virtù. Gli si attribuisce un motto eroico, Potius mori quam fœdari, che potrebbe essere sospettato come leggendario, se non lo confermasse l’epitaffio inciso sul bel sepolcro che Antonio Rossellino fece per lui nella cappella di S. Giacomo alla chiesa di S. Miniato al Monte presso Firenze, cappella sontuosamente decorata da Luca della Robbia. L'epitaffio dice:

Regia stirps, Jacobus nomen, Lusitana propago,
Insignis forma, summa pudicitia,
Cardineus titulus, morum nitor, optima vita.
Ista fuere mihi; mors juvenem rapuit.
Ne se pollueret maluit iste mori.
Vixit a. XXV. m. XI. d. X. obiit an. Sal. MCCCCLIX.

Vedi il Ciacconio, Vitæ et res gestæ pont. roman., to. II, col. 990. Questo motto con leggiera variante, Malo mori quam fœdari, fu di Anna di Bretagna e anche di altri, per esempio di Ferdinando I di Aragona, re di Napoli, il quale, avendo perdonato al Principe di Rossano, suo cognato, che gli si era ribellato contro e che caduto prigione gli consigliavano di far morire, «per dichiarare - come narra il Giovio (Dialogo dell’imprese militari et amorose, Vinegia, 1557, a pag. 22) - questo suo generoso pensiero di clemenza, figurò un Armellino circondato da un riparo di letame, con un motto di sopra, Malo mori quam fœdari, estendo la propria natura dell’armellino di patire prima la morte per fame e per sete che imbrattarsi, cercando di fuggire, di non passar per lo brutto, per non macchiare il candore, e la puli[p. 594 modifica]tezza della sua pretiosa pelle». E lo stesso racconto con maggiori particolari è ripetuto dal Giannone nella Istoria civile del Regno di Napoli, lib. XXVII, cap. III, aggiungendo che il re con quest’impresa istituì un nuovo ordine di cavalleria detto appunto dell’Armellino.

Ma per contrapposto, ecco, intorno all’onestà delle donne, due delle solite ciniche sentenze del Duca de La Rochefoucauld (§ CCCLXVII e CCCLXVIII):

1785.   Il y a peu d'honnêtes femmes qui ne soient lasses de leur métier.9

1786.   La plupart des honnêtes femmes sont des trésors cachés, qui ne sont en sûreté que parce qu’on ne les cherche pas.10

che in qualche antica edizione si legge così trasformata: «Une honnête femme est un trésor caché, celui qui l'a trouvé, fait fort bien de s’en pas vanter.» La frase:

1787.   Mentem peccare, non corpus; et, unde consilium abfuerit, culpam abesse. 11

(Tito Livio, Istorie, lib. I, cap. 58, 9).
fu detta a proposito di Lucrezia: e il verso:

1788.   Benignamente d'umiltà vestuta.

che si trova in un sonetto di Dante (Vita Nova, § XXVI) contiene una pittura, eccellente nella sua concisione, della modestia, virtù accessoria ma inseparabile dalla purità.

Note

  1. 1767.   Bisogna mangiare per vivere, non vivere per mangiare.
  2. 1768.   La vita non sta nel vivere, ma nell’esser validi (ossia sani).
  3. 1769.   Per turpissima cosa avrai l’anteporre la vita all’onore, e pur di salvare la vita, perdere ogni ragione di vivere.
  4. 1770.   La virtù emulatrice lo stimolò.
  5. 1772.   Porti la palma chi l’ha meritata.
  6. 1778.   La coscienza retta si ride delle bugie della fama (ossia delle mendaci ciarle del pubblico).
  7. 1783.   Tutto è puro per i puri.
  8. 1784.   Piuttosto morire che contaminarsi.
  9. 1785.   Poche sono fra le donne oneste quelle che non sono stanche del loro mestiere.
  10. 1786.   Le più fra le donne oneste sono dei tesori nascosti, che sono al sicuro soltanto perchè nessuno le cerca.
  11. 1787.   La mente pecca, non il corpo; e là dove mancò l’intenzione, non ci può essere colpa.