Chi l'ha detto?/Parte prima/79

Parte prima - § 79. Vizi

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§ 79.



Vizî





1789.   Tempi borgiani.

Questa frase notissima fu detta da Giuseppe Garibaldi nel 1869 a proposito degli scandalosi affari della Regia e dell’attentato Lobbia (16 giugno 1869). Una lettera del Generale al deputato Cristiano Lobbia, datata da Caprera il 22 giugno 1869, e che fu pubblicata, prima nella Riforma e poi da tutti i giornali italiani, contiene questo periodo: «Tempi — questi - borgiani! e come sarà altrimenti - cogli amici e protettori dei discendenti dei Borgia?» L’essere divenuta la frase proverbiale, molto si deve al noto pubblicista Yorick (Pietro Coccoluto Ferrigni), il quale prendendola in burla, se ne servì a lungo, non solo nel parlare familiare, ma anche negli scritti, e specialmente nelle appendici ch’egli scriveva regolarmente nella Nazione e che erano avidamente lette.

Ma il lamentarsi della corruttela dei tempi è antico costume, come già fu detto a pag. 129-130:

1790.   O tempora, o mores!1

(Cicerone, Oratio pro Rege Deiotaro, cap. XI, 31; Oratio I in Catilinam, cap. I, 2; In Verrem, cap. IV, 45).
così esclama in più luoghi anche Cicerone, come conferma Marco Anneo Seneca, Suasor., VI, 3: «Tuis verbis, Cicero, utendum est: o tempora! o mores!» rimpiangendo le passate virtù, deplorando la crescente marea dei vizi che saliva a corrompere anche le più elevate classi della società, o, per dirla con frase più adatta alla classicità del soggetto:

1791.   ....La Suburra
Invade il Palatino....

(P. Cossa, Messalina, a. III, sc. 4).
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È Claudio che così esclama riconoscendo alle vesti le cortigiane della Suburra (Subura, borgo della antica Roma, che si stendeva nella valle fra l’Esquilino e il Quirinale, ed era pieno di taverne e di luoghi infami) le quali vengono al palazzo a denunziargli le dissolutezze della moglie Messalina; di quella Messalina che non volle in fatto di disonestà restare da meno dell’altra regina asiatica, Semiramide, la quale, secondo la frase di Dante,

1792.   Libito fe’ licito in sua legge.

(Inferno, c. V, v. 56).
(confronta col Si libet, licet, parole di Giulia Domna, seconda moglie dell’imperatore Settimio Severo, al figliastro Caracalla, in Ael. Spartian., Caracalla, cap. 10); di quella Messalina, che ha lasciato il nome suo turpe a indicare una donna di perduti costumi, una di quelle sciagurate menzionate da Dante medesimo nel verso:

1793.   ....Qui non son femmine da conio.

(Inferno, c.XVIII, v. 66).
Un altro verso di Dante, che qui cade in acconcio, poiché parla di vizî e di gente viziosa, è il seguente:

1794.   Ruffian, baratti e simile lordura.

(Inferno, c. XI, v. 60).

Un versetto del Pentateuco minaccia lo sdegno divino ai violenti nel sangue altrui:

1795.   Vox sanguinis.... clamat ad me de terra.2

(Genesi, cap. IV, v. 10).
La stessa immagine è ripetuta pure nella Genesi, XVIII, 20 e XIX, 13, nell’Esodo, III, 7 e XXII, 23 e nella Epist. di S. Giacomo, V, 4. Ne trasse la dommatica scolastica la locuzione dei peccati che gridan vendetta al cospetto di Dio, peccata clamantia, di cui la definizione fu compresa in due rozzi versi mnemonici:

     Clamitat ad cœlum vox sanguinis et sodomorum,
     Vox oppressorum viduæ, pretium famulorum.

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La sentenza del Salmista:

1796.   Abyssus abyssum invocat.3

(Salmo XLI, vers. 7).
avverte di ritirarsi a tempo dalla sdrucciolevole china del vizio, in fondo alla quale si apre il baratro: e un’altra sentenza biblica avverte che nessuno è infallibile, che anche il giusto pecca, ma si pente, mentre l’empio precipita sempre più nel male:

1797.   Septies enim cadet justus, et resurget: impii autem corruent in malum. 4

(Proverbi di Salomone, cap. XXIV, v. 16).
e un’altra con fine umorismo ammonisce come sia facile rilevare e biasimare i vizi altrui, essendo pure indulgentissimi verso i propri:

1798.   Quid autem vides festucam in oculo fratris tui, et trabem in oculo tuo non vides?5

(Evang. di S. Matteo, cap. VII, v. 3 — S. Luca, cap. VI, v. 41).
per cui fastidiosissima cosa è secondo Giovenale il biasimare negli altri quegli stessi vizi dei quali si è macchiati:

1799.   Quis tulerit Gracchos de seditione quærentes?6

(Sat. II, v. 24).
Intendasi, chi non si muoverà a sdegno sentendo i viziosi e i colpevoli rimproverare altrui i loro stessi peccati? cioè i Gracchi accusare altri di sedizione, e, come Giovenale stesso dice più oltre, Verre portare accusa di ladroneccio, Milone di omicidio, Clodio di adulterio?
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Sul medesimo argomento abbiamo il giudizio ciceroniano:

1800.   Est (enim) proprium stultitiæ, aliorum vitia cernere, oblivisci suorum.7

(Cicerone, Tuscul. quaest., lib. III, § 30).
eppure nessuno può dirsene immune. Citammo già al n. 209 le parole di Terenzio: Homo sum, humant nihil a me alienum puto, che qui nella loro accettazione volgare cadrebbero così bene a proposito, e aggiungerò ora questi versi di Orazio:

1801.   Nam vitiis nemo sine nascitur; optimus ille est
Qui minimis urgetur.8

(Satire, lib. I, sat. 3, v. 68-69).
per cui.... chi è senza peccato, getti la prima pietra (cfr. n. 175) ma più savio sarai se ti asterrai dal giudicare troppo severamente gli altri per non essere alla tua volta giudicato:

1802.   Nolite judicare, ut non judicemini.9

(Evang. di S. Matteo, cap. VII, v. 1).
C’è pure una sentenza che ammonisce di evitare ogni esagerazione nel fuggire un vizio per non cadere nell'eccesso contrario, ed è espressa nel verso di Orazio:

1803.   Dum vitant stulti vitia, in contraria currunt.10

(Satire, lib. I, sat. 2, v. 24).

Un altro poeta classico ci mostra il vizio trionfante che grazie alla audacia e alla ipocrisia si ammanta di virtù, nel verso, troppo pessimista,

1804.   ....Prosperum ac felix scelus
     Virtus vocatur.11

(Seneca il tragico, Hercules furens, a. II, v. 251-252).
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I poeti latini, a scusare le oscenità sparse nel maggior numero dello loro produzioni, si giustificano col dire che al poeta è permesso di dire cose meno che oneste, purché onesti siano i suoi costumi; o per dirla con le parole di uno di loro:

1805.   ...Castum esse decet pium poetam
     Ipsum: versiculos nihil necesse est.12

(Catullo, od. XVI, v. 5-6).

e la stessa sottigliezza ripeteva Marziale, che tutti li vinceva in lubricità:

1806.   Lasciva est nobis pagina, vita proba est.13

(Epigrammi, lib. I, epigr. 5, v. 8).

che Gius. Giov. Belli, il quale voleva farne l'epigrafe della sua stupenda raccolta di sonetti in dialetto romanesco, benissimo tradusse cosi:

1807.   Scastagnàmo ar parlà, ma aràmo dritto.14

I notissimi versi:

1808.   La finzion del vizio
A vizio ver declina;
A can, che lecca cenere,
Non gli fidar farina.

|sono la morale della notissima favola Il fanciullo e il gatto, di Luigi Fiacchi detto il Clasio, di Scarperia (1754-1825).

Non lasceremo il discorso dei vizî senza tener brevissima parola anche di due fra essi, dei più veniali:

1809.   Gola e vanità, due passioni che crescono con gli anni.

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Ambrogio Valentini, proprietario del Forno delle Grucce a Milano (così chiamato perchè era nel luogo medesimo dove nel seicento era il prestin di Scansc, di cui il Manzoni nei Promessi Sposi, cap. XII, narra il saccheggio fatto dal popolo nella carestia del 1628, vale a dire in Piazza del Duomo, a sinistra, per entrare sul Corso Vittorio Emanuele, già Corsia de’ Servi), mandava la sera della vigilia di Natale 1870 ad Alessandro Manzoni un saggio delle sue paste con la seguente iscrizione:

Ad Alessandro Manzoni
Il celebre Forno delle Grucce
Di nuova vita ringiovanito
A grata testimonianza
Il presente saggio
Devotamente offre


Il Manzoni rispose così:

Al Forno delle Grucce
Ricco oramai di nova fama propria
E non bisognoso di fasti genealogici
Alessandro Manzoni
Solleticato voluttuosamente
Con un vario e squisito saggio
Nella gola e nella vanità
Due passioni che crescono con gli anni
Presenta i più vivi e sinceri ringraziamenti


L’autografo fu conservato a lungo esposto in un quadro nel Fornio delle Grucce finché questo non si chiuse nel 1919. Si veda un articolo del Corriere della Sera del 9 giugno 1919, riprodotto ne La Rassegna di Firenze, giugno 1919, pag. 186.

Si noti però che il Manzoni, non meno di altri milanesi, cadde in errore credendo che il nome dell’antico prestin di Scansc derivasse dalla insegna delle grucce (scansc in dialetto); invece aveva origine dal fatto che era proprietà della nobile famiglia Scansi, alla quale fino a tutto il ’700 appartenne la casa; sul quale argomento è da consultare una notizia comparsa in Città di Milano, Bollettino muniripale mensile pel mese di giugno 1919, pag. 229.

Note

  1. 1790.   O tempi, o costumi!
  2. 1795.   La voce de sangue [di tuo fratello] grida a me dalla terra.
  3. 1796.   L’abisso chiama l’abisso
  4. 1797.   Perocchè sette volte cadrà il giusto, e risorgerà: ma gli empii precipiteranno nel male.
  5. 1798.   Perchè vedi il fuscello nell’occhio del fratel tuo, e non vedi la trave nel tuo occhio.
  6. 1799.   Chi sopporterà che i Gracchi si lamentino della sedizione?
  7. 1800.   È da stolti il vedere i vizî altrui e dimenticare i propri.
  8. 1801.   Perchè nessuno nasce senza vizî, e ottimo è colui che è travagliato dai più leggeri.
  9. 1802.   Non giudicate per non essere giudicati.
  10. 1803.   Gli stolti, mentre fuggono un vizio, cadono nel contrario.
  11. 1804.   La scelleratezza prospera e felice prende il nome di virtù.
  12. 1805.   Conviene al poeta ch’egli stesso sia casto e pio, ma non occorre che tali siano i suoi versi.
  13. 1806.   Lascive sono le pagine ch’io scrissi, ma la vita è onesta.
  14. 1807.   Pecchiamo nel parlare, ma righiamo diritto.