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[1766-1769] | Virtù, illibatezza, modestia | 589 |
1766. Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti.
Ma per seguir virtute e conoscenza.
(Inferno, c. XXVI, v. 118-120).
E veramente quale scopo ha la vita? Non certo quello soltanto
di appagare gli istinti materiali del corpo:
1767. Esse oportet ut vivas, non vivere, ut edas.1
dice l’ignoto autore dei Libri Rhetorici ad Herennium (sia esso Cicerone o, come meglio si crede, Cornificio, od altri) nel lib. IV, cap. 28, § 39; o anche Quintiliano (Inst. orat., lib. IX, cap. 3, § 85): Non ut edam vivo, sed ut vivant edo. Le stesse parole dice Isidorus Hispalensis nelle Origini (II, 21, 13). ma la fonte comune di queste sentenze deve forse ricercarsi in una sentenza di Socrate conservataci da Macrobio, da Plutarco, da Diogene Laerzio (II, 34) e da altri.
E con più modesti intendimenti ammonisce Marziale che:
1768. Non est vivere, sed valere, vita.2
(Epigr, lib. ep. 70, v. 15).
Quando si è rinunziato ad ogni alto scopo della vita, che cosa resta di essa? Così poco che non vale più la pena di vivere:
1769. Summum crede nefas animam præferre pudori,
Et propter vitam vivendi perdere caussas.3
così nobilmente rimprovera Giovenale (Satira VIII, v. 83-84) coloro nei quali l’attaccamento alla vita arriva fino ad accettare turpi transazioni con la propria coscienza.
È la virtù che spinge l'uomo a belle e nobili azioni, giusta il verso di Lucano: