Catullo e Lesbia/VI. La fortuna dei carmi di Catullo
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VI.
LA FORTUNA DEI CARMI DI CATULLO.
I.
A dispetto di Orazio, che si vantava d’avere, lui per il primo, usato il giambo di Paro, e fatto passare i canti eolici nella materna lingua del Lazio, senza tener conto di Catullo, che gliene avea dato l’esempio; la lirica del Veronese ebbe lungamente in Roma e ammiratori e seguaci. Orazio stesso si burla d’un tal poetastro, scimmiotto, com’ei lo chiama, non buono ad altro che a ripetere i versi di Catullo e di Calvo.
E come no? Quei versi facili, voluttuosi, eleganti, pieni di brio, di mollezza, di acuti sarcasmi, d’ingiurie sanguinose, scapigliati, come il suo autore, rappresentavano cosi al vivo l’intima società di quel tempo, la vita spensierata, oziosa, materiale dei giovani contemporanei di Cesare, che ebbero, senza dubbio, ad essere accolti festevolmente, ripetuti di bocca in bocca da tutti quei giovanotti molli e ignoranti, che senza essere in grado di ammirarli, vi scorgevano il ritratto della propria vita, trovavano il destro di belarli all’orecchio delle loro belle, o fulminarli sul volto dei loro fortunati rivali. Gli amori, le scapataggini, le avventure, il carattere mobile e bizzarro, le persecuzioni implacabili dei creditori, la vita scioperata e la morte prematura dell’Autore, che tutti aveano conosciuto, amato, invidiato ed abborrito, secondo i casi, tutte queste cose davano come il passaporto a quei versi; erano l’aureola dell’uomo, rendevano più interessante il poeta. È un fatto: in qualunque tempo e in qualsiasi società quelli che ammirano l’ingegno per l’ingegno son sempre i pochi. Presso gli sciocchi, che sono i più, non va quasi mai creduto all’ingegno che non si accompagna d’una buona dose di stravaganza; per credere ad una cosa bisogna ch’essa abbia un punto di contatto con noi, e siccome gl’ignoranti sono per lo più scapati, così, per essere apprezzali da loro, c’è bisogno prima di tutto di esser capi scarichi: è come l’addentellato. Provatevi a fare una vita ritirata, solitaria, modesta; tenetevi puro dei vizi di moda; non fate mai cosa che dia da ridire sul conto della vostra condotta sociale o domestica; dedicatevi esclusivamente ai vostri studii prediletti: facciate pur dei miracoli, i vostri ammiratori si conteranno a dito. I più non crederanno al vostro ingegno: o come si fa ad avere ingegno quando si mena una vita da istrice? Parecchi vi guarderanno in aria da tu mi stufi; tutto il resto del gregge si terrà sinceramente superiore a voi per l’importante ragione che non vi conosce, che non vi ha veduto mai fra’ suoi crocchi, che non ha sentito la vostra voce. Il tenore della vostra vita ha dischiuso un abisso fra voi e i più, e la vostra riputazione potrà essere col tempo subita da loro, riconosciuta giammai: voi non sarete mai popolare.
Catullo avea fatto al contrario; s’era mescolato con loro, avea fatto vita comune con ogni classe di gente: giovani patrizi e vecchi bertoni, usurai, forensi, prostitute, parassiti sfacciati e cinedi di mestiere; l’ingegno potente lo teneva su, lo distingueva da tutti, l’abito della vita lo riteneva nel fango, l’insudiciava come tutti gli altri, lo metteva al livello dei suoi compagni. La popolarità non gli poteva mancare. Il contegno stesso e la grave circospezione con cui Cornelio Nepote, Cicerone1 e più tardi Svetonio2 e Plinio3 si degnano far menzione di Catullo, mi prova, che se essi, in qualità di persone serie, non potevano approvare le sue scurrilità, erano ciononostante costretti a tenere in conto un poeta, il cui nome e i cui versi andavano per le bocche di tutti.
Tibullo, Properzio e soprattutto Ovidio4 e Marziale5 sono più generosi di lode e più giusti.
II.
La poesia latina era subito venuta a maturità. Si ammira che in tre secoli soli, da Solone ad Alessandro Magno, la Grecia abbia potuto percorrere tutta la luminosa carriera dell’arte. In tre secoli, e nel corso di tre grandi avvenimenti, la coltura letteraria ed artistica dei Greci nacque, fiori, si diffuse e decadde con un progresso e una rapidità straordinaria. La guerra persiana, nella quale tutta la Grecia si levò come un uomo solo contro l’irruzione asiatica, e conservò a forza di miracoli nazionali l’indipendenza e la libertà della patria; la guerra peloponnesiaca fra le popolazioni doriche ed ellene, che durò ventisette anni e rovinò la potenza e la libertà di tutti; le guerre del grande Alessandro, che portarono in gran parte dell’Asia il sapere e l’ingegno dei Greci, generarono una nuova cultura, legarono all’Asia l’Europa, riunirono i due primi focolari dell’incivilimento umano. E questa è una prova di più di quella verità non abbastanza ripetuta, che le Arti non fioriscono soltanto nella pace, ma si alimentano meglio di contrasti e di lotte; traggono vita e vigore dalle grandi agitazioni sociali, e là soltanto mettono gagliarda e durevole radice, dove è luce di vita politica e sorriso di libertà. E tutto il movimento, la vita, la gloria del pensiero ellenico si deve principalmente, esclusivamente forse, all’indipendenza e alla libertà. Sotto qualunque dominio e reggimento, in seno anche alla tenebrosa servitù, il popolo greco sarebbe stato senza dubbio un popolo ingegnoso e civile; ma quella versatilità d’intelletto, quella mobilità dì fantasia, l’aura serena e feconda delle sue ispirazioni, la facilità portentosa a render sensibile, vivente, leggiadro ogni obietto che veniva a cadere sotto il dominio del suo pensiero, non possono non esser frutto della libertà delle sue istituzioni, della emancipazione della scuola dal sacerdozio e dallo Stato, di quella vita agitata sempre e battuta come le onde del suo mare, e di quella varia e mirabile unità, che sapea dare a tutti la forza senza togliere a nessuno la libertà.
Le condizioni e le circostanze dell’arte latina furono assai diverse e più svantaggiose. Quando essa nacque, la libertà agonizzava: non potea durare che poco; e poco durò.
Giunse al suo massimo splendore con una celerità senza pari: la servitù l’incalzava al sepolcro. E il suo massimo splendore è tutto apparente; quando la forma toccava la perfezione, il suo spirito cominciava a morire: restava come una maschera vuota. Si può vedere in lei ciò che si osserva nella vita di certe donne. Ancora bambina comincia a perdere il pudore per opera di Catullo; doventa splendida cortigiana con Orazio; sfacciata con Tibullo e Properzio; mezzana con Ovidio, che insegna le seduzioni; si ricrede per poco quando è decrepita, e grida con Giovenale alla morale perduta, giusto come quelle vecchie, che, dopo d’averne fatte quante Carlo in Francia, e non avendo più che dare al mondo, alla carne e al demonio, s’aggrappano fedelmente alla corona del santo rosario, si fanno scrupolo perfino d’un doppio senso, e credono che il Signore Iddio sia tanto baggeo da contentarsi dei loro quattro ossi spolpati.
III.
Quando il pensiero cristiano ebbe la feroce soddisfazione di dar l’ultimo colpo alla civiltà pagana, all’arte latina non andò naturalmente pensato: non si odiava soltanto il passato, si voleva perfin cancellare. E quei santi frati del Medio Evo, che taluni, assai più frati di loro, non si fanno a’dì nostri uno scrupolo di chiamar benemeriti, avevano una cura e un’abilità speciale a cancellare quanti codici antichi lor cascassero fra mani, per iscrivacchiare su di essi i loro isterici sermoni e le loro barbare laudi spirituali: ellere parassite e stupidi rami di zucca, che s’abbarbicavano attorno alla statua di Giove, e ne ascondevano la bella e viril nudità. Nè questo era certamente il maggior male. Quando non sostituivano, disperdevano, cacciavano in fondo a’ sotterranei, seppellivano quei grandi morti dell’antichità, che avrebbero richiamato il pensiero umano alla terra, quando era più mestieri che si rivolgesse al cielo, dimenticasse la vita, aspettasse con rassegnazione l’imminente giudizio di Dio. Le grandi ombre di Omero, d’Erodoto, di Cicerone, di Pindaro e di Catullo gemevano in fondo all’oscura torre del monastero di San Gallo, o agl’immondi sotterranei di Monte Cassino; e quando la voce del nostro Aurispa e del Bracciolini le richiamarono alla luce del mondo, allora si seppe, a che segno e in che maniera quei frati fanatici ed ignoranti amassero i libri e il sapore.
IV.
Fra gli antichi libri che rimasero per lungo tempo negletti e dimenticati, e in cui, nonostante le pazienti e coscenziose cure dei dotti, si trovano ancora assai luoghi depravati ed oscuri, i carmi del nostro Catullo non sono stati certamente i più fortunati. Il suo libro rivide la luce in tale stato di disordine e di confusione, che Partenio ebbe a dire, che se il povero poeta potesse ritornar di sotterra, non l’avrebbe senza dubbio riconosciuto.6 Da una nota di Matteo Palmerio scritta al margine d’un codice tutto di sua mano, e del quale s’era servito Andrea Scotto,7 risulta che il libro di Catullo fu scoperto nell’anno 1425.
C’è anche un epigramma d’un tal veronese attribuito da Apostolo Zeno8 a Guarino padre, e dal Burmanno a Guarino figlio, dal quale si rileva che i carmi di Catullo, manoscritti da un Francesco qualunque, furono trovati a Verona. E Scipione Maffei asserisce che in uno degl’inediti sermoni del vescovo Raterio è detto che questi lesse Catullo la prima volta in Verona, e che Guglielmo Pastrengo, amico del Petrarca, l’avea avuto fra le mani nel secolo XIV, e ne cita qua e là qualche verso.9
Quanto a tutti gli altri codici manoscritti possiamo col consenso dei dotti affermare, che sono posteriori al Quattrocento e che gli errori, le lacune, il disordine e le varianti di essi sono in gran parte da attribuire alla lascivia dei frati e all’ignoranza degli amanuensi.10
Il primo ad aver cura di Catullo fu Giovanni Calpurnio. L’edizione che ne fece in Vicenza nel 1481, quantunque modellata su quelle di Venezia, riuscì, con l’aiuto di buoni codici, assai più corretta; ed egli se ne tiene a buon dritto.11 Ma prima di Niccolò Partenio la critica catulliana non era nata. Non solamente egli curò con amore l’edizione Brissiense del 1486, la quale, benchè fatta in furia, fu pur corretta con diligenza; egli la corredò ancora di così dotti commenti, suggerì o restituì tante buone lezioni, che si rese veramente benemerito del nostro poeta.
Nè poca lode merita Palladio Fusco, il cui comentario impresse il Tamino in Venezia nel 1500. Si servì di dieci codici all’emendazione del testo, ed esibì delle lezioni, che, se non sono talvolta probabili, sono sempre ragionevoli ed ingegnose.
Del cemento di Geronimo Avanzio non è da far molto conto. Audace e leggiero, benchè discepolo del Partenio, tranne pochissime correzioni di testa sua e parecchie congetture, parte inutili, parte assurde, egli cavò tutto dai comentarii del Fusco e degli altri. Ebbe il piacere di vedere accolto il suo comento nella prima edizione Aldina che è servita di fonte a parecchi interpreti moderni, ma la sana critica non gli può concedere nessuna autorità.
Quelli che veramente si distinsero dopo il Partenio, furono Antonio Mureto ed Achille Stazio. Il comemtario del primo, impresso da Paolo Manuzio in Venezia nel 1554, è assai notevole per l’acume critico e per la dottrina. Achille Stazio si valse della seconda Aldina, non senza far tesoro delle correzioni del Mureto, che non cita mai, e arricchendola delle varianti di dieci codici e di erudite annotazioni e comenti. Il suo Catullo fu pubblicato prima dal Manuzio nel 1566; ristampato tre anni dopo in Basilea a cura del Toscanella. Ma se la prima edizione riuscì molto pregevole ed è molto rara, la seconda, imborrata com’è d’un indice di tutte le parole, come quella del Passerazio, e di tutta la rettorica che l’editore aveva nel sacco, non è niente di bello e di buono.
Dopo tutti costoro scende in campo Giuseppe Scaligero armato di molto ingegno, di molta dottrina e di molta arroganza. Sprezzando, non senza un certo livore, le correzioni del Mureto e la seconda edizione Aldina, ritornò all’Aldina prima, da cui ebbe a scavitolare una farragine di lezioni inutili e viziose delle quali parte corresse a modo suo, parte lasciò così com’erano. Ad ogni modo egli non dubita di confessare e giurar per gli Dei, che in comentar Catullo, Tibullo e Properzio ei non pose più d’un mesetto, e noi gli crediamo sulla parola.
Il male fu che quella prosuntuosa abborracciatura, in grazia forse di quel tale spolvero che hanno tutte le cose dello Scaligero, levò subito molto grido, ed ebbe l’onore di ben trentasette edizioni in poco più d’un secolo dall’edizione di Parigi del 1577 a quella del 1680, nella quale furono raccolti in un corpo i comenti del Grevio, del Mureto, dell’Avanzio, d’Achille Stazio, di Giuseppe Scaligero e del povero Giano Dousa, che curò diligentemente ed illustrò con molta novità d’erudizione l’edizione lionese del 1592, tratta in massima parte su quella del 1569, e correttissima di tutte come Heinsio12 la chiama.
Notevole dopo questa è l’edizione di Londra del 1684 con eruditissimo comento di Isacco Vossio. Oltre a parecchi altri codici si valse questi del Mediolanense, antichissimo e correttissimo sovra tutti gli altri; ma egli mostra nell’emendare e nel sostituire cotale disinvolto ardimento, che sa molto d’arbitrario e presuntuoso; ed esce spesso in sì fatte congetture, che se hanno talvolta il merito dell’acume, hanno tal’altra una così maligna stranezza da rendere il povero Catullo un poeta oscenamente vulgare, e d’indole molto simile a chi lo comenta.
Del copiosissimo comento del Volpi ripetiamo ciò che il Foscolo ne scrisse: «Non ha lezione nuova, nè arcana dottrina che non sia tutta del Vossio; nè le virtù sole, ma i vizi adottò del precettore. Lussureggia la mole del suo comento di citazioni importune che prendono occasione non dalle viscere del soggetto, ma da nude parole.»13
L’edizione di Venezia del 1738, annunziata col fastoso titolo di: Catullus in integrum restitutus ex ms. nuper Romæ reperto, et ex gallicano, patavino, Mediolanense, romano, Zanchi, Maffei, Scaligeri, Achillis, Vossii et aliorum; critice Joh. Franc. Corradini de Allio in interpretes veteres, recentioresq. grammaticos, chronologos, etymologos, lexicographos, cum vita poetæ nondum edita, non poteva essere altro che una ciarlatanerìa: basta leggere il titolo.
Il comento del Doering, stampato a Lipsia nel 1788, non fece nè caldo nè freddo; fu come la nebbia, che lascia il tempo che trova.
V.
La critica di Catullo non s’era occupata fin lì che di due cose: restituire alla vera lezione il testo; e dichiararlo a via di raffronti e di note. Era tutta la critica? Certo, avuto riguardo alla pessima condizione, a cui i frati benemeriti e gli amanuensi ignoranti aveano ridotto il libro del nostro poeta, codesti due studii erano indispensabili; non erano la critica, nel senso estetico della parola, ma le venivano preparando il terreno; erano i preliminari della vera critica. I Tedeschi, che secondo il Foscolo hanno il torto di far commercio dei classici, si sono accinti all’opera con quella pertinace insistenza che li distingue. Gutta cavat lapidem. Ma basta in tali casi la forte volontà e la dottrina profonda? Handio dice di no, ed ha ragione. A intender Catullo, egli scrive, bisogna esser dotati d’ingegno piacevole e d’animo venusto.14 E a dir vero, se noi abbiamo di che vergognarci, pensando ai tanti lavori intorno a Catullo, che si sono pubblicati in Germania in quest’ultimo ventennio, non possiamo poi restar paghi del tutto di una critica, che ha la pretensione di dir l’ultima parola su tutto, e che si riduce alla fine ad un mondo d’ipotesi più meno ingegnose, lardellate di molta erudizione, e imborracciate di cifre e d’abbreviature.
Senza parlare delle edizioni curate dal Lachmann,15 dell’Uschner,16 del Berk17 del Klotz,18 e dello stesso Weise,19 del Pohl,20 del Rossbach21 e d’altri parecchi, che su per giù non si occupano d’altro che delle varianti, disposte sovente in maniera da far perdere gli occhi e la pazienza di chi legge; saltando a piè pari sul libro del Lehmann22 sugli aggettivi composti, che occorrono in Catullo e in altri poeti, non che su quello del Ranke intorno all’artificiosa composizione dei carmi del nostro poeta,23 tutta robetta da scuola; io non posso non intrattenermi con ogni riguardo dell’opera dello Schwab,24 la quale, non foss’altro, ha il merito di raccogliere e discutere con molto acume e moltissima dottrina le quistioni tutte, che riguardano la vita e i carmi di Catullo. Accettando in massima parte i risultati delle sue pazienti disamine intorno al nome, alla patria, agli amori e agli amici del poeta, io credo non si possa far molto a fidanza con la sua cronologia, edificio innalzato a forza di stenti sopra la poco solida base d’una data, e che serve a provare la sottigliezza del critico più presto che la certezza dei fatti. A parer mio, il difetto della critica dello Schwab sta principalmente in questo, che studiando troppo gli accessorii più minuti e le quistioni meno importanti, trascura la sostanza e l’insieme. Chi è Catullo? com’era l’anima sua? che cosa ci esprime il suo carme? Chiuso il libro dello Schwab, non se ne sa più che tanto. Sapremo, per esempio, che il nome del poeta non era Quinto, ma Caio, anzi Gaio; ch’egli nacque a Verona e non a Sirmione; che Lesbia era Clodia e non una cortigiana volgare; sapremo queste e tant’altre cose, che forse sapevamo digià e non valeva la pena di rimettere in discussione; ma il campo della critica è così ristretto? Una critica che si circoscrive nello studio delle date e dei nomi è la critica vera? o, per lo meno, è tutta quanta la critica? Con buona pace dell’illustre dottore, io rispetto troppo la critica per tenerla in si poco conto. Una critica che si ferma a codeste quistioni somiglia a un coltello anatomico, che non taglia più giù della pelle; un critico che la prende troppo sul serio non è dissimile da Don Chisciotte, che prendeva i mulini a vento per accampamenti nemici. Far la critica d’un poeta non vuol dire soltanto stabilire il giorno e il paese in cui nacque, gli amici che ebbe, i viaggi che intraprese, le poesie che scrisse; ma studiare i suoi tempi, le sue opinioni, i suoi sentimenti, i suoi vizii, le sue virtù, studiare il poeta nell’uomo, e l’uomo nel poeta; non solamente intenderlo, ma sentirlo. La critica, come io l’intendo, è più quistione d’anime che di parole.
- ↑ De off.,, lib. I.
- ↑ Iul. Cesar.,' 3, 73.
- ↑ Hist. Nat., lib. XXXVIII.
- ↑ Trist.,, lib. II, eleg. ult.
- ↑ Ad Macrum., lib. XIV, 195.
- ↑ Handii, Observ. critic. in Catul. Carm. specim.
- ↑ Observ., libr. II, c 16.
- ↑ Ephemerid. lit. ital., vol. XII, pag. 11.
- ↑ Ver. illustr., vol. II, pag. 7.
- ↑ Ferd. Handii, ibidem.
- ↑ Iohan. Calph., Prefat. ad Herm.
- ↑ Ad Virg. Aenead., VII, 110.
- ↑ Chiom. di Beren., I, 3, 5.
- ↑ Ferd. Handii, ibidem.
- ↑ Cat. Val. liber ex recens. Car. Lachmanni: Berlino, 1864.
- ↑ Cat. C. V. edidit. Car., Uschner: Berlino, 1867.
- ↑ Emend. carmin. Catull.: Hal, 1863.
- ↑ Emendat. Catull.: Leipzig, 1859.
- ↑ Cat. Tib. et Prop. carm. ad prest. libr. lect. acc. recensuit, C. H. Weise: Leipzig, 1868.
- ↑ Lect. Catull. specim.: Sigmaringen, 1866.
- ↑ Lect. codd. Catull.: Breslan, 1860.
- ↑ Regimonti Pr., 1867.
- ↑ Berlino, 1866.
- ↑ Quæst. Catull. lib.: Giessen, 1862.