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LA FORTUNA DEI CARMI DI CATULLO.


I.


A dispetto di Orazio, che si vantava d’avere, lui per il primo, usato il giambo di Paro, e fatto passare i canti eolici nella materna lingua del Lazio, senza tener conto di Catullo, che gliene avea dato l’esempio; la lirica del Veronese ebbe lungamente in Roma e ammiratori e seguaci. Orazio stesso si burla d’un tal poetastro, scimmiotto, com’ei lo chiama, non buono ad altro che a ripetere i versi di Catullo e di Calvo.

E come no? Quei versi facili, voluttuosi, eleganti, pieni di brio, di mollezza, di acuti sarcasmi, d’ingiurie sanguinose, scapigliati, come il suo autore, rappresentavano cosi al vivo l’intima società di quel tempo, la vita spensierata, oziosa, materiale dei giovani contemporanei di Cesare, che ebbero, senza dubbio, ad essere accolti festevolmente, ripetuti di bocca in bocca da tutti quei giovanotti molli e ignoranti, che senza essere in grado di ammirarli, vi scorgevano il ritratto della propria vita, trovavano il destro di belarli all’orecchio delle loro belle, o fulminarli sul volto dei loro fortunati rivali. Gli amori, le scapataggini, le avventure, ilcarat-