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la fortuna dei carmi di catullo | 127 |
V.
La critica di Catullo non s’era occupata fin lì che di due cose: restituire alla vera lezione il testo; e dichiararlo a via di raffronti e di note. Era tutta la critica? Certo, avuto riguardo alla pessima condizione, a cui i frati benemeriti e gli amanuensi ignoranti aveano ridotto il libro del nostro poeta, codesti due studii erano indispensabili; non erano la critica, nel senso estetico della parola, ma le venivano preparando il terreno; erano i preliminari della vera critica. I Tedeschi, che secondo il Foscolo hanno il torto di far commercio dei classici, si sono accinti all’opera con quella pertinace insistenza che li distingue. Gutta cavat lapidem. Ma basta in tali casi la forte volontà e la dottrina profonda? Handio dice di no, ed ha ragione. A intender Catullo, egli scrive, bisogna esser dotati d’ingegno piacevole e d’animo venusto.1 E a dir vero, se noi abbiamo di che vergognarci, pensando ai tanti lavori intorno a Catullo, che si sono pubblicati in Germania in quest’ultimo ventennio, non possiamo poi restar paghi del tutto di una critica, che ha la pretensione di dir l’ultima parola su tutto, e che si riduce alla fine ad un mondo d’ipotesi più meno ingegnose, lardellate di molta erudizione, e imborracciate di cifre e d’abbreviature.