Catullo e Lesbia/V. Questioni/V. Amici e rivali
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V.
Amici e rivali.
Non posso chiudere questo capitolo delle questioni senza far cenno di quelli amici e rivali del poeta, dei quali si fa parola qua e là in questi ventisette carmi, che ho il piacere di presentare illustrati e tradotti.
Il primo e migliore e più costante amico di Catullo fu senza dubbio Manlio Torquato, il cui nome leggiamo nei versi 16 e 222 del carme nuziale, e il cognome nel 216 dello stesso. Disceso da antica e nobilissima famiglia, come risulta dalla strofe 45 del medesimo carme, dalla famiglia dei Manlii, una delle duemila, che, negli ultimi anni della repubblica, componevano tutta la lista dei possidenti romani, egli fu tenuto in gran conto non solamente per gl’illustri natali e per le cariche importanti, a cui fu chiamato, ma e per la liberalità dell’animo, di cui s’ebbe a lodare più volte il nostro Valerio,1 e per la coltura dell’ingegno accoppiato a una memoria miracolosa e ad una grave ed elegante facilità di parola, che lo rese degno dell’ammirazione di Marco Tullio.2 Sposò verso il 60 una tal Giulia, o Giunia, o Vinia Aurunculeia, o vero Ercoleia, o che fosse figlia adottiva di un Aurunculeio, come tiene il Krebsio, o dì un Giunio o Vinio qualunque, secondo il Silligio e lo Schwab; o pure figlia di quel Lucio Erculeio che fu questore nella guerra di Sertorio, ed ucciso in una al proconsole Metello, dopo d’aver vinto insieme a M. Antonio e a L. Manlio. Comunque sia, oltre a queste insulse e sterili questioni di nomi, di cui vanno zeppe le pagine dei critici e le tasche dei lettori, non si hanno altre notizie intorno alla povera sposa di Manlio, se non che ella mori poco tempo dopo le nozze, lasciando nella desolazione il marito.
Amicissimo di Catullo fu anche da prima l’oratore M. Celio Rufo, a cui son diretti i carmi LVIII, LIX, LXIX, LXXIII e LXXVII. Nacque il giorno stesso di C. Licinio Calvo, poeta ed oratore anche lui,3 fu bello e avvenente della persona, d’animo fervido ed impetuoso, d’ingegno potente, di maniere gentili.4 Passò l’adolescenza in casa di Cicerone, si diè di buon’ora al bel tempo, parteggiò per il consolato di Catilina, venne in familiarità con la Clodia, di cui era pigionale; ferendo così nel profondo del cuore il povero Catullo. La tresca finì con la più vergognosa pubblicità. Sciupone com’egli era, e trovandosi un bel giorno con una gran trucia, prese da quella donna, non so che oggetti d’oro e che quattrini in prestanza. Passa oggi, passa domani; egli mostrava la buona intenzione di non restituirli. La Clodia, che gli regalava le sue carezze, non era disposta per nulla a regalargli quell’oro. Rufo allora la pianta; non senza sospetto d’aver tentato di levarsela di torno con una presina di veleno. La vedovella fa lega con Erennio, con Balbo, con Lucio Atratino, che accusano Celio e lo chiamano in giudizio. Cicerone e Marco Crasso assumono la difesa dell’accusato; denudano crudelmente l’anima turpissima e i sozzi costumi e i delitti di quella femmina, e l’espongono al vitupero del popolo romano e della storia. Celio fu assolto; ma parte della vergogna ricadde anche su lui. Cicerone stesso non può nascondere la vita poco esemplare del suo cliente, che in fatto d’adulterii, di stupri e d’altri simili passatempi godeva, perfin nelle province, una tal quale celebrità.5
Non è a credere però che Catullo si lasciasse accecar troppo dall’ira, quando gli fulmina quell’epigramma che incomincia:
perchè un uomo, che fu pure accusato di quelle tali violenze, per cui va famoso oggidì il nome del padre Ceresa, poteva benissimo meritare il titolo di caprone e di peggio. Gli eruditi però non si acquetano così di leggieri su questo punto. Come mai Celio Rufo, che a testimonianza di Marco Tullio era un bel giovane, poteva poi, come dice il poeta, portare valle sub alarum, crudelem nasorum pestem? Io, che non ho voglia di portar la mia critica fin sotto all’inguine delle persone, mi turo il naso, e passo via di corsa ad Alfeno.
Crede il Partenio, e dietro a lui il Mureto, il Vossio, il Volpi, il Doering ed altri, che questo Alfeno sia quel medesimo, che, lasciato a Cremona il trincetto e il lisciapiante, andò a Roma a studiar giurisprudenza; e fu tanta la bravura ch’egli ebbe in lisciar la pelle e tagliar la borsa ai clienti, che acquistò credito e celebrità siffatta da meritar pubblici funerali alla morte. Si piccò pure di poesia, e forse per questo il salumaio di Venosa non gli risparmiò i suoi sali nella satira terza del primo libro; fu doppio e fallace quanto basta a esercitare l’avvocatura, e dopo d’aver persuaso il nostro Valerio a mettere il piè nella rete d’amore, promettendogli tutto il suo aiuto, gli voltò faccia alla prima e lo lasciò fra’ guai. Per cui il poeta, rimproverandolo, di tanta perfidia, e non sapendo più a chi si rivolgere, a chi prestar fede, esclama sconsolato:
Heu! quid faciant dehinc homines, quoive habeant fidem?6 |
Di Quinzio e di Ravido, al primo dei quali è rivolto il carme LXXXII, al secondo il XL, non abbiamo notizia di sorta. Pensa lo Schwab, che il primo di questi due carmi riguardi piuttosto l’amore di Catullo con la veronese Aufilena, contrastata da Quinzio al sempre sventurato poeta; e in verità pare che il carme centesimo gli dia ragione; ma siccome è dubbio, se nell’un carme s’abbia a legger Quintum e nell’altro Quinctium, e in tal caso potrebbero esser benissimo diretti a due persone diverse, io, per abbondar di cautela, ho voluto mettere l’LXXXII fra quelli per Lesbia, non senza ricordarmi di quello, che, domandato se volesse prender cioccolata o caffè, rispose: prenderò l’una e l’altro, tanto per non isbagliare.
Ma se c è buio fitto intorno a Quinto o Quinzio, intorno al misero Ravido o Raudo c’è buio e puzzo di cacio. Il poeta ce lo dipinge come un omiciattolo oscuro e presuntuoso, che per la sciocca manìa di mettersi in mostra e far parlare un po’ di sè per le piazze, ebbe l’ardire di attaccarsi ai panni di Lesbia (che da quella brava spugna salata ch’ella era, si succiò, com’è da credere, anche lui) senza darsi pensiero che i giambi di Valerio gli avrebbero fatto costar caro quel po’ di ben di Dio, e forse provocandoli a bella posta, perchè il suo nome potesse correr di bocca in bocca fra quel canagliume di oziosi, ingombro e peste d’ogni tempo e d’ogni società, che si pascono di pettegolezzi, di scandali e di maldicenze, e tanto hanno grande la bocca, quanto piccolo e vuoto il cervello.
L’unica notizia, ch’abbia potuto raccogliere intorno a quel Capone o Coponio, a cui, secondo il Vossio, sarebbe diretto il carme CIV, è quella che si legge negli annali dei pontefici, riferita dallo stesso critico a pagina 333 delle sue osservazioni: Q. Stertinio Prætori jus dicenti nuntius allatus est de morte filii, fictus ab amicis Copanii rei veneficio, ut concilio dimitteret ille perturbatus domum recipiebat, sed re comperta perseveravit in inquirendo. C. Actius Coponium veneficii postulavit. Divinatio inter Actium et Cæpasium minorem de accusando. Actius obtinuit quod Cæpasii uxor soror esset nurus Coponii.
Passando ora a Furio ed Aurelio, amici e poi rivali del poeta nell’amore di Giovenzio, devo molto lodarmi della critica dello Schwab, che ha la modestia di confessare, che gli sono ignoti: homines nobis ignotos. Quanto a Furio, il Partenio e il Vossio tengon per fermo che sia quel tal Furio Bibaculo, della cui voracità parla Orazio, e che è da Quintiliano annoverato fra gli scrittori di giambi. Achille Stazio fra questo Furio Bibaculo e quel P. Furio accusato da Catone resta indeciso, come l’asino di Buridano. La critica moderna, che non accetta nè l’uno nè l’altro, si contenta di ciò che ne dice Catullo: e sfido io a non contentarsi! I grandi poeti scolpiscono le anime, non già i nomi. La sordida miseria e l’affamata mendicità di Furio vien descritta in pochi versi dal nostro poeta:
Furi, cui neque servus est, neque arca, |
E che Aurelio non fosse meno famelico del suo compagno risulta dal carme XXI:
Aureli, pater esuritionum, |
Ciononostante questi due bei cesti furono preferiti da Giovenzio al nostro disgraziato Catullo; ed essi, che gli aveano poco prima beccati non so quanti desinari, si lodano in pubblico del bel tiro che han fatto all’amico, mettono in canzonatura i suoi morbidi versi e la sua poco sicura virilità. Della qual cosa indispettito Valerio, e preso subito fuoco, tanto per mutare, li assalta tutti e due di fronte col carme XVI, minacciandoli di tutt’altro assalto che di versi per farli una volta certi del suo potere. Non valea proprio la pena di prendersela con quella robaccia. Bisogna pur convenire, ad onor di Catullo, che questi non avea mai presa sul serio la loro amicizia, e li avea tenuti sempre in quel conto che meritavano. Quando essi difatti si dichiaravano pronti a seguirlo fino in capo al mondo, il poeta, mettendo in caricatura la loro pelosa abnegazione, si giova di loro come di mezzani, e manda a dire alla Lesbia l’estrema ed amarissima parola dell’amor suo.