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110 | questioni. |
tar la mia critica fin sotto all’inguine delle persone, mi turo il naso, e passo via di corsa ad Alfeno.
Crede il Partenio, e dietro a lui il Mureto, il Vossio, il Volpi, il Doering ed altri, che questo Alfeno sia quel medesimo, che, lasciato a Cremona il trincetto e il lisciapiante, andò a Roma a studiar giurisprudenza; e fu tanta la bravura ch’egli ebbe in lisciar la pelle e tagliar la borsa ai clienti, che acquistò credito e celebrità siffatta da meritar pubblici funerali alla morte. Si piccò pure di poesia, e forse per questo il salumaio di Venosa non gli risparmiò i suoi sali nella satira terza del primo libro; fu doppio e fallace quanto basta a esercitare l’avvocatura, e dopo d’aver persuaso il nostro Valerio a mettere il piè nella rete d’amore, promettendogli tutto il suo aiuto, gli voltò faccia alla prima e lo lasciò fra’ guai. Per cui il poeta, rimproverandolo, di tanta perfidia, e non sapendo più a chi si rivolgere, a chi prestar fede, esclama sconsolato:
Heu! quid faciant dehinc homines, quoive habeant fidem?1 |
Di Quinzio e di Ravido, al primo dei quali è rivolto il carme LXXXII, al secondo il XL, non abbiamo notizia di sorta. Pensa lo Schwab, che il primo di questi due carmi riguardi piuttosto l’amore di Catullo con la veronese Aufilena, contrastata da Quinzio al sempre sventurato poeta; e in verità pare che il carme centesimo gli dia ragione; ma siccome è dubbio, se nell’un carme s’abbia a legger Quintum e nell’altro Quinctium, e in tal caso potrebbero esser benissimo diretti a due persone diverse, io, per abbondar di cautela, ho voluto