C'era una volta... Fiabe/Tì, tìriti, tì
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TÌ, TÌRITI, TÌ
C’era una volta un contadino che aveva un campicello tutto sassi, e largo quanto la palma della mano. Vi era rizzato un pagliaio e viveva lì, da un anno all’altro zappando, seminando, sarchiando, insomma facendo tutti i lavori campestri.
Nelle ore di riposo cavava di tasca un zufolo e, tì, tìriti, tì, si divertiva a fare una sonatina, sempre la stessa; poi riprendeva il lavoro.
Intanto quel campicello sassoso gli fruttava più di un podere. Se i vicini raccoglievano venti, e lui raccoglieva cento, per lo meno.
I vicini si rodevano. Una volta quel campicello non lo avrebbero accettato neanche in regalo: da che lo aveva lui, non sapevan che cosa fare per strapparglielo di mano.
— Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C’è chi li pagherebbe tre volte più della stima.
— Questi sassi son per me: Non li cederei neppure al Re. |
— Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C’è chi li pagherebbe dieci volte più della stima.
— Questi sassi son per me: Non li cederei neppure al Re. — |
Una volta, per caso, passò di lì anche il Re, accompagnato dai ministri. Vedendo quel campicello, che pareva un giardino, coi seminati verdi e vegeti, mentre quelli dei campi attorno somigliavano a setole di spazzola, gialli, stenti, si fermò, colpito dalla meraviglia, e disse ai ministri:
— È proprio una bellezza! Lo comprerei volentieri.
— Maestà, non si vende. Il padrone di esso è un uomo strano. Risponde a tutti:
— Questi sassi son per me: Non li cederei neppure al Re. |
— Oh! Voglio vederla. —
E fece chiamare il contadino.
— È vero che questo campicello tu non lo cederesti neppure al Re?
— Sua Maestà ha tanti poderi! Che se ne farebbe dei miei sassi?
— Ma se lui li volesse?
— Se lui li volesse?
— Questi sassi son per me: Non li cederei neppure al Re. — |
Il Re fece finta di non aversela avuta a male, e la notte dopo mandò cento guardie a scalpicciare, zitte zitte, quel seminato, da non lasciar ritto neanche un filo d’erba.
La mattina, il contadino esce fuor del pagliaio, e che vede? Uno spettacolo! E tutti i vicini che stavano a guardare, con gusto, quantunque si mostrassero addolorati.
— Ah, compare, compare! Se voi aveste venduto quei quattro sassi, ora questa disgrazia non vi sarebbe accaduta. —
Ma quegli zitto, dinoccolato, come se non dicessero a lui.
Quando i vicini furono andati pei fatti loro, cavò di tasca lo zufolo, e tì, tìriti, tì, il seminato cominciava a rizzarsi; tì, tìriti, tì, il seminato si rizzava come se nulla fosse stato.
Il Re, sicuro del fatto suo, lo aveva mandato a chiamare:
— C’è qualcuno che ti vuol male. So che la notte scorsa ti han mezzo distrutto il seminato. Vendi a me quei quattro sassi. La gente, quando saprà che son miei, li guarderà da lontano.
— Maestà, non è vero nulla. Il mio seminato è più bello di prima. —
Il Re si morse il labbro:
— Dunque i suoi ordini non erano stati eseguiti!
E se la prese coi ministri. Ma appena questi gli riferirono che le povere guardie, dal gran scalpicciare di quella nottata, non si poteano neppur muovere, il Re rimase!
— Quest’altra notte, ad ora tarda, si mandi lì tutto l’armento. —
La mattina, il contadino esce fuori dal pagliaio, e che vede? Uno spettacolo: il terreno brucato raso!
I vicini:
— Ah, compare, compare! Se voi aveste venduto quei quattro sassi, questa nuova disgrazia non vi sarebbe accaduta. —
E quegli zitto, dinoccolato, come se non dicessero a lui.
Quando i vicini furono andati via, pei fatti loro, cavava di tasca lo zufolo, e tì, tìriti, tì, il seminato ripullulava; e tì, tìriti, tì, il seminato era bell’e cresciuto, come se nulla fosse stato.
Il Re, questa volta, era sicuro di aver buono in mano. Volea vederlo, quell’uomo! Chi sa che grugno!
E appena l’ebbe alla sua presenza:
— C’è qualcuno che ti vuol male. So che la notte scorsa ti hanno, a dirittura, distrutto ogni cosa. Vendi a me quei quattro sassi. La gente, quando saprà che sono miei, li guarderà da lontano.
— Maestà, non è vero nulla. Il mio seminato è più bello di prima. —
Il Re si morse il labbro:
— Dunque i suoi ordini non erano stati eseguiti! —
E se la prese coi ministri. Ma quando questi gli riferirono che tutto l’armento, dal gran mangime di quella nottata, avean le pance che gli scoppiavano e che metà eran già morti di ripienezza, il Re rimase!
— Qui c’è un mistero! Bisogna scoprirlo. Vi do tempo tre giorni. —
Col Re non si scherzava. I ministri cominciarono dal grattarsi il capo, e, pensa e ripensa, uno di essi propose di andare, la notte, ad appostarsi dietro il pagliaio di quel maledetto contadino e star lì fino all’alba. Chi sa?
Qualcosa avrebbero visto.
— Benone! —
Andarono; e siccome nel pagliaio c’erano parecchie fessure, si misero a spiare attraverso a queste.
Il Re non avea potuto chiuder occhio pensando all’accaduto: e la mattina, di buon’ora, fece chiamare i ministri.
— Maestà, oh! Che abbiamo visto! Che abbiamo visto!
— Che cosa avete mai visto?
— Quel contadino ha uno zufolo, e appena si mette a sonarlo, tì, tìriti, tì, il suo pagliaio, di botto, diventa una reggia.
— E poi?
— E poi vien fuori una ragazza più bella della luna e del sole, e lui, tì, tìriti, tì, la fa ballare con quella sonata; e dopo le dice:
Bella figliuola, se il Re ti vuole, Dee star sette anni alla pioggia e al sole. E se sette anni alla pioggia e al sole non sta, Bella figliuola, il Re non ti avrà. |
— E poi?
— E poi smette di sonare, e quella reggia, di botto, ridiventa pagliaio.
— Glieli darò io la pioggia e il sole! — disse il Re, toccato sul vivo. — Ma prima vediamo codesto miracolo di bellezza! —
E andò la notte dopo, accompagnato dai ministri.
Ed ecco il contadino cava di tasca il suo zufolo, e tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventa una reggia; e tì, tìriti, tì, compare la ragazza e si mette a ballare.
A quella vista il Re ammattì:
— Oh, che bellezza! Dovrà esser mia! Dovrà esser mia! —
E, senza metter tempo in mezzo, picchia all’uscio a più riprese.
Il contadino cessò di sonare; di botto la reggia ridivenne pagliaio, ma di aprire non se ne parlò neppure: e il Re, che bruciava dall’impazienza, dovette tornarsene a palazzo. Prima che albeggiasse, spedì un corriere a spron battuto:
— Lo voleva il Re, subito subito. —
Il contadino andò a presentarsi:
— Sua Maestà che cosa comandava?
— Comando e voglio la tua figliuola per sposa. Lei diventerà Regina e tu ministro di palazzo reale.
— Maestà, c’è una condizione:
Chi vuole la mia figliuola Dee star sette anni alla pioggia e al sole; E se sette anni alla pioggia e al sole non sta, Fosse chi fosse, non l’otterrà. — |
Il Re avrebbe voluto darglieli lui la pioggia e il sole! Ma c’era di mezzo la ragazza. Si strinse nelle spalle e rispose:
— Starò sette anni alla pioggia e al sole. —
Lasciò il governo ai ministri, per tutto il tempo che sarebbe stato assente, e andò ad abitare col contadino, scottandosi la pelle al solleone e restando sotto la pioggia anche quando veniva giù a catinelle.
Dopo poco tempo, povero Re, non si riconosceva più; parea fatto di terra cotta, colla pelle bruciata a quel modo. Ma avea un compenso. Di tanto in tanto, la notte, il contadino cavava di tasca lo zufolo, e prima di sonare, gli diceva:
— Maestà, rammentatevi bene:
Chi tocca stronca, Chi parla falla! — |
E tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventava una reggia; e tì, tìriti, tì, compariva la ragazza più bella della luna e del sole.
Il Re se la divorava cogli occhi, mentre quella ballava. Dovea fare proprio un grande sforzo per non slanciarsi ad abbracciarla e non dirle: Sarai Regina!. La passione lo conteneva.
Eran passati sei anni, sei mesi e sei giorni. Il Re, dalla contentezza, si fregava le mani.
Fra poco quella ragazza più bella della luna e del sole sarebbe stata sua sposa! E lui se ne tornerebbe al palazzo reale, Re come prima e più beato di prima!
Ma la sua disgrazia volle che una notte il contadino cavasse di tasca lo zufolo, e si mettesse a sonare senza ripetergli:
— Maestà, rammentatevi: chi tocca stronca, chi parla falla. —
Quando, tì, tìriti, tì... apparve la ragazza più bella della luna e del sole, e si messe a ballare, il Re non seppe più frenarsi, le corse incontro e l’abbracciò, gridando:
— Sarai Regina! Sarai Regina! —
Fu un lampo. E, invece della ragazza, che cosa si trovò fra le braccia? Un ceppo bitorzoluto!
— Maestà, ve l’avevo pur detto io:
Chi tocca stronca, Chi parla falla! — |
Il Re pareva di sasso:
— Bisognava ricominciare?
— Bisognava ricominciare! —
E ricominciò.
Si abbrustoliva al sole:
— Sole, bel sole Patisco per amore! — |
Si lasciava conciare dalla pioggia.
— Pioggia, pioggia bella, Patisco per la donzella! — |
E quando il contadino cavava di tasca lo zufolo e, tì, tìriti, tì, la ragazza ricompariva e si metteva a ballare, lui se la divorava cogli occhi, da un cantuccio, zitto e cheto come l’olio. Non se la sentiva di ricominciare.
Eran passati novamente sei anni, sei mesi e sei giorni, e il Re, dalla contentezza, già si fregava le mani.
Ma la sua disgrazia volle che una notte il contadino cavasse di tasca lo zufolo e, tì, tìriti, tì, comparisse la ragazza e si mettesse a ballare come non aveva ballato mai, con una grazia, con una sveltezza! Il povero Re non potè più frenarsi e le corse incontro e l’abbracciò:
— Sarai Regina! Sarai Regina! —
E che cosa si trovò fra le braccia? Un ceppo bitorzoluto.
— Ah, Maestà, Maestà!
Chi tocca stronca, Chi parla falla! |
Il Re pareva di sasso:
— Bisognava ricominciare?
— Bisognava ricominciare! —
E ricominciò:
— Sole, bel sole, Patisco per amore; Pioggia, pioggia bella, Patisco per la donzella! — |
Questa volta però stette bene in guardia, e ai sette anni fissati ebbe finalmente la ragazza, più bella della luna e del sole. Non gli parea neppur vero! Intanto che cosa era accaduto? Era accaduto che i suoi ministri e il popolo ritenendolo per matto, si erano dimenticati di lui e avevan dato, da parecchi anni, la corona reale a un suo parente.
Il Re, infatti, si presenta al palazzo reale colla sposa sotto braccio e i soldati di sentinella:
— Non si passa! Non si passa!
— Sono il Re! Chiamate i miei ministri! —
Che ministri? I vecchi eran morti e quelli del nuovo Re lo lasciavano cantare.
Si rivolge al popolo:
— Come? Non riconoscete il vostro Re? —
Il popolo gli ride in faccia e non gli dà retta.
Disperato, ritorna al campicello, dal contadino. Dov’era il pagliaio, vede, con sorpresa, un palazzo che pareva una reggia. Monta le scale, e invece del contadino, gli viene incontro un bel vecchio con tanto di barba bianca: era il gran mago Sabino.
— Non ti scoraggiare! — gli disse questi.
E lo prese per mano, e lo condusse in una magnifica stanza, dove c’era un catino pieno di acqua.
Il Gran Mago afferra quel catino e glielo riversa sulla testa, e il Re, da un po’ invecchiato che già era, rinverdisce, a un tratto, di vent’anni.
Allora il vecchio:
— Affàcciati a quella finestra, suona questo zufolo e vedrai. —
Il Re si affaccia, si mette a sonare, tì, tìriti, tì, ed ecco un esercito armato di tutto punto, fitto come la nebbia, su pei colli e per la pianura.
Intimata la guerra, mentre i soldati combattevano, lui, in cima a un poggio, sonava tì, tìriti, tì, senza cessare finchè la battaglia non fu vinta.
Tornò a palazzo reale vittorioso e trionfante, perdonò a tutti, e all’occasione dei suoi sponsali diè un mese di feste per tutto il regno.
E presto ebbe un erede;
E noi scalzi d’un piede.