Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo XIV

Capo XIV.

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CAPO DECIMOQUARTO.


Il cristianesimo, a chi lo assaggia nelle genuine sue fonti, è opera mirabile per la sua semplicità: perchè essendo stato dato da Dio a tutti gli uomini, buono per tutti i climi, incorruttibile nella interminabile successione de’ secoli, uopo era che i suoi dogmi fossero il concetto eterno della ragione, e fondassero su principii facili a concepirsi, e per così dire congeniti colla indole umana. Laonde non a torto gli antichi Padri della Chiesa gli davano il nome di religion naturale cui i più sani filosofi conobbero e seguitarono. V’ha nondimeno una differenza a vantaggio del primo, ed è che ciò che in questa non era che ipotetico, l’Evangelio coll’argomento della fede ha dedotto a certezza. Dio, immortalità dell’uomo, premio o pena in una vita avvenire, sono dogmi connaturali alla ragione e conosciuti dalla specie umana fin dalla infanzia del mondo, i quali niuno può negare senza violentare la coscienza.

A questi il cristianesimo ne aggiunse altri due, i quali, a chi attentamente li considera, sembrano conseguenze dei primi: e sono la umanità di un Verbo o parola di Dio e la risurrezione de’ corpi; i quali se non si apprendono dal lume naturale sono pure di data assai rimota, e se ne trovano sparse visibili tracce nella teologia de’ popoli vetusti. La [p. 285 modifica]credenza nella risurrezione, quando sia profondamente inculcata e sentita, produce un effetto meraviglioso sulla moralità delle azioni e può giovare del paro alla virtù e alla politica; e la dottrina del Verbo apparve così necessaria agli antichi pensatori che accomunarono la filosofia colla religione, che non la conoscendo per rivelazione la inventarono per ipotesi ingegnosa col fine di spiegare certi fenomeni del mondo morale, e l’origine della materia e dei mondi, e il dualismo ossia il sistema teologico fondato sui due principii, il buono ed il malo; che il cristianesimo depurò dalle molte contradizioni che si riscontrano nei sistemi religiosi degli Orientali.

I narrati dogmi furono da Cristo e dagli Apostoli insegnati con semplicità, nè punto curarono di addentrarsi nelle astruse specialità del loro essere. Premisero la fede, per la quale si dovevano credere; e questa fede è niente altro che la convinzione di una verità morale che non adduce prova di sè, ma necessaria per le dimostrazioni e i corollari che ne derivano: e purchè quella si creda, lasciarono libero al pensiero di filosofare sulla natura di quei dogmi, e sulle loro qualità, forme e modi. Il perno del cristianesimo essendo la carità che consiste in una sconfinata benevolenza verso tutte le creature, i primi dottori non dannarono eretico chi seguisse piuttosto una che un’altra opinione secondaria e indipendente dall’oggetto principale; ma chi mancava di questa divina virtù, dalla quale, come da ampia scaturigine, tutte le altre provengono. Imperciò, quantunque i gnostici cominciassero a corrompere [p. 286 modifica]il cristianesimo con allegorismi inintelligibili e con un fanatico misticismo, tenendosi essi tuttavia in termini ipotetici non sono condannati da San Paolo, sì solamente biasimati, chiamando la loro scienza vana e le interminabili loro genealogie di enti allegorici, origine di dispute.

E fu per questa libertà acconsentita al pensiero che il cristianesimo progredì rapidamente e potè contare nel suo seno i più celebri filosofi, e che fu chiamato dai dottori cristiani una nuova filosofia: molti di quei dottori portarono opinioni intorno alla teologia naturale o mistica, che se le avessero esternate più secoli dopo, invece che sono santi, sarebbero eretici.

Ma volle fatalità che la religione più liberale dovesse diventare la più tirannica. Imperocchè alcuni uomini presontuosi e inquieti cominciarono a fabbricar sistemi e a pretendere di soggettarvi anco gli altri; quindi nacquero le sêtte e dalle sêtte le discordie; ed abbandonato il criterio della ragione che solo poteva conciliare le differenze, gli fu sostituito il mal vezzo di ricorrere alle autorità, ciò che contribuì ad eternare le dispute, perchè le autorità portate dagli uni non erano credute dagli altri che chiamavano altre autorità in loro favore: e alla ostinazione delle parti arrogendosi le ambizioni e le invidie, i cristiani si perseguitavano fra di loro e si calunniavano reciprocamente d’infamia e di eresia; mentre la lite consisteva troppo spesso in ambiguità e sofisticherie da grammatici. La lite dell’Arianismo, famosa e piena di scandali, si riduceva ad un vocabolo cui gli uni volevano che fosse [p. 287 modifica]Omousios e gli altri Omiusios. A sentire i teologi vi era un gran momento in quell’I sostituto ad un O; ma gli storici contemporanei ci accertano che fu una guerra di parole; e quand’anco non fosse, non v’ha dubbio che i mali grandissimi cagionati da quella infelice contesa soperchiarono di gran lunga il male che poteva produrre una opinione accademica di un prete o di un vescovo. Lo stesso può dirsi delle altre contese teologiche de’ Nestoriani, e Monofisiti, e Monoteliti, e Patripassiani ed altri, nelle quali le arguzie di un ingegno cavillatore erano combattute o difese con incredibile caparbietà: si disputava se Cristo doveva dirsi simile od uguale al padre, se aveva due nature od una sola, se aveva una o due volontà, se la madre di Cristo era anco madre di Dio, se invece di dire Cristo ha patito in croce, si poteva dire uno della Trinità ha patito in croce; nelle quali sottigliezze furono così assidui i Greci, che appena sopita una lite ne suscitavano un’altra, e quando i Turchi presero Costantinopoli, invece di difendere la patria, disputavano se la luce apparsa sul monte Tabor era creata o increata.

Il partito che vinceva riduceva i suoi punti di dottrina ad assiomi teologici, ed obbligava gli altri a crederli tali sotto pena di eresia; e fra tanto la teologia divenne incerta, vacillante, sofistica, e divenne eretico non solo chi negava una verità fondamentale, ma chi si opponeva alle opinioni di una scuola. Per trovare sillogismi da confondere gli avversi fu studiato Aristotele, e da qui comincia quella capziosa teologia scolastica che intenebrò la semplicità dell’Evangelio di tante suttilità metafisiche a cui gli apostoli non avrebbono sognato mai. [p. 288 modifica]

È vulgarissima l’accusa che la filosofia e i filosofi sono i nemici della religione; eppure tutte le eresie e tutti gli scismi che si contano a centinaia, tutte le superstizioni che sono innumerevoli, gli scandali, le sedizioni, le discordie infinite della Chiesa furono esclusivamente causate dai teologi; gli scolastici corruppero le più pure fonti della religione, i canonisti turbarono ogni ordine sociale, e la morale pubblica non fu mai tanto contaminata quanto dai casuisti, i quali, diceva il profondo Gravina, hanno fatto essi soli più danno alla Chiesa che non tutti gli eretici insieme. La storia ecclesiastica contiene il corpo del delitto e gl’irrefragabili testimoni di quanto io qui asserisco: è una narrazione non mai interrotta di gare fra’ preti, dove pochi esempi di vera e soda virtù vanno smarriti in una voragine di vizi e di errori, e di prove sfrenate dell’avarizia, dell’ambizione e dell’umano orgoglio: il che fece dire al Persiano di Montesquieu: Ho letto la storia ecclesiastica per edificarmi e fui scandalizzato.

Nell’Occidente le disputazioni teologiche nei primi otto secoli non furono quasi che una ripercussione o una conseguenza di quelle combattute fra gli Orientali. Ma se là il cristianesimo lo corrompevano i teologi, qui lo era da particolari condizioni della società; imperocchè quantunque fosse diventato religione comune, nei regni barbari non aveva dell’Evangelio fuorchè la corteccia; nella sostanza i missionari tollerarono od ammisero tutte le superstizioni vecchie: non migliorarono i costumi, mutarono i nomi pagani in cristiani, e lasciarono del paganesimo le idolatrie e le male abitudini. [p. 289 modifica]Dal maritaggio de’ due culti e dalla moltiplicata ignoranza degli uomini si raffazzonò poco a poco una religione detta romana, perchè il pontefice romano ne fu la divinità ed il dogma principale, il vero oggetto della adorazione, la fonte unica di tutte le verità, la luce del mondo. Il papa, dicono i glossatori del diritto canonico, è superiore ad ogni legge e forma eccezione ad ogni diritto naturale o positivo che sia; egli può dispensare dai precetti dell’Evangelio e dell’apostolo; egli può fare che ciò che è ingiustizia diventi giustizia. Cornelio Musso arcivescovo di Bitonto, predicando innanzi al concilio tridentino, sostituì il papa a Gesù Cristo e fu applaudito: Quis erit tam injustus rerum æstimator, qui non dicat: Papæ lux venit in mundum, sed dilexerunt homines magis tenebras quam lucem? «Qual sia mai tanto ingiusto estimatore delle cose che non dica: la luce del papa è venuta al mondo, ma gli uomini amarono più le tenebre che la luce»?

Malgrado gli sforzi della ragione contro un sistema che, come i palagi incantati, doveva la sua esistenza al prestigio, Roma aveva sempre vinto perchè sempre le era riuscito di stampare nelle menti delle moltitudini che i suoi avversari fossero eretici. Questa parola, a cui i frati attaccarono una significazione non pure odiosa, ma atroce, fu il talismano formidabile onde i papi provocarono le ingiurie contro a’ loro nemici, e li mandarono oppressi sotto il peso della maledizione di Cam. Che cosa mai era un eretico appo il volgo (e tutto è volgo nei regni della superstizione) se non se un nemico pubblico dannato dalle leggi umane e divine, [p. 290 modifica]riprovato da Dio e vittima vivente dell’inferno? Giovava alla causa romana d’involvere in tale ignominia la Repubblica di Venezia e scinderla dalla Chiesa come aveva fatto co’ protestanti; ma l’opinione tiranna del mondo, ed anco dei despoti, fece paventare a Roma l’abbandono di tutto il cattolicismo. E perciò l’accomodamento colla Repubblica fu con discapito immenso della sua autorità; ed a rifarsene voltò tutto il suo odio contra il consultore di lei, e per discreditarlo e spacciarlo eretico non omise arti od insidie, per quanto inique fossero ed esecrabili. Persino le sue virtù diventarono vizi; Vittorio Siri ripetendo ciò che udiva in Francia dal nunzio pontificio e da altri curiali dice: «È vero che ove arriva e penetra l’occhio e il giudicio umano rilucevano in Frà Paolo tutte quelle virtù morali, cristiane ed ecclesiastiche per le quali sogliono venerarsi, chi le possiede, per persone d’integrità, probità ed innocenza». Ma queste palesi virtù che mai potevano essere se non se, come aggiunge il Siri, fina ipocrisia per ingannare i più oculati? I Romanisti, erettisi a giudici delle più recondite intenzioni di cui Dio solo ha la chiave, usarono ogni sforzo per far credere al mondo che il Sarpi, rigido cattolico in apparenza, fosse calvinista in cuore: andò più oltre il cardinal Pallavicino accusandolo affermatamente uomo senza religione e vero ateo. Scaligero fece la stessa accusa al cardinal Bellarmino.

Ma tutte le calunnie de’ Curiali tornarono impotenti a sviare le conseguenze dell’interdetto, più funeste alla monarchia de’ papi delle innovazioni di [p. 291 modifica]Lutero. Queste scalvarono alcuni rami della vecchia pianta, così che parve rinvigorire il tronco; ma Frà Paolo vibrò un colpo di scure che mortificò le radici, e cagionò quella lenta consunzione per la quale ha intristito e si va ora morendo il papato. L’interdetto produsse in quel secolo una sensazione difficile a descriversi, e distrusse il pregiudizio che non si potesse resistere alle leggi di Roma senza essere eretico: cattolici e protestanti furono egualmente sorpresi del nuovo modo di controversia che senza toccare le questioni speculative sa circoscrivere la disputa a’ fatti positivi, ed esaminarli con profondità e con calma. Tali materie essendo per lo più trattate in latino, il popolo, massime in Italia, ne era affatto digiuno o non ne aveva altra informazione tranne quella che davano i frati; ma il Sarpi usando la lingua volgare e uno stile piano, rese le sue dottrine universali, e i suoi libri furono nelle mani di tutti: luce nuova per una generazione giaciuta fin allora nelle più profonde tenebre. Era un pessimo uso originato da profondi sdegni che le controversie religiose non si potessero trattare senza ingiurie; quindi le più importanti questioni erano deturpate da uno stile impetuoso e fanatico, più idoneo a concitare le passioni che a convincere la ragione; ma gli scritti di Frà Paolo robusti, spassionati, pieni di dignità, stretti al puro argomento in causa, abbelliti dalla stessa loro semplicità e da una facondia naturale e tranquilla, sostenuti da una critica affatto nuova e da osservazioni e scoperte impensate, segnarono una epoca nuova in quel ramo del sapere umano. Gli oggetti discussati da lui [p. 292 modifica]appartenevano tra quelli che più interessavano la vita sociale, essendo continue le prepotenze de’ cherici, le querele dei laici, e le liti tra il secolare e l’ecclesiastico intorno a privilegi ed esenzioni delle persone di Chiesa; quindi l’applicazione de’ principii del Sarpi doveva produrre conseguenze infinite e col tempo mutar faccia, come fece, alla costituzione degli Stati cattolici. Infatti smossa da lui la immensa materia del jus pubblico-ecclesiastico s’incominciò ad indagare con profondità l’origine di tante prerogative di cui ciascuno sentiva l’ingiustizia e che pure erano fatte credere di diritto divino e calate dal cielo. Frà Paolo dovendo ribattere i suoi avversari, si trovò nella necessità di esaminare diligentemente molti punti di storia e di giurisprudenza, donde ebbe agio di notare la falsità delle vecchie decretali, molte manomissioni fatte dai Curiali nei libri degli antichi, molti errori sparsi nel corpo del diritto canonico, le esagerazioni de’ suoi glossatori, e la insussistenza di alcuni fatti su cui facevano grande appuntamento i suoi avversari. I quali fortunati tentativi spianarono la via ad altri critici e giureconsulti, quali furono il Casaubono, il Vossio, il Grozio, e quindi i Blondel e i Pagi e i Demarca e i Tommasini e i Bossuet e i Van Espen.

Per converso l’autorità de’ pontefici cominciò a declinare: per la prima volta furono obbligati a confessare che non erano infallibili, e a rivelare l’arcano fatale che non erano invulnerabili. Quindi svanì la magia che già da secoli abbagliava il mondo; e nello scorcio di pochi anni tutti gli Stati cattolici quale sopra un soggetto e quale sopra un altro [p. 293 modifica]vollero imitare l’esempio de’ Veneziani, e riuscirono: di modochè al fine del secolo XVII la potestà ponteficale non era più temuta neppure dai piccioli governi. La repubblichetta di Lucca che nel 1605 dovette piegare alla volontà superba di Paolo V, trentacinque anni dopo si oppose vigorosamente alla volontà non meno superba di Urbano VIII. La corte di Torino che pure aveva ceduto nel 1605, si contenne assai diversamente nel 1613; imperocchè il nunzio del papa avendo scomunicato il presidente Galeani per violazione di alcuni feudi ecclesiastici, il consiglio ducale dichiarò nulla la scomunica quand’anco venisse dal papa.

Ma più fece la corte di Spagna, che pure vedemmo sottomettersi debolmente alle imperiose domande di Paolo V. Nel 1610 il Consiglio di Castiglia mise al bando gli Annali del Baronio, il quale aveva maltrattata la corte di Spagna e cercato di distruggere i privilegi del così detto Tribunale della Monarchia di Sicilia. Quest’atto di autorità, nuovo a quei tempi, e contro un’opera carissima alla Curia e da lei spacciata l’Evangelio della storia, e presa sotto l’immediata protezione della Congregazione del Sant’Ufficio la quale aveva scritto a tutti gli uffici inquisitoriali d’Italia che invigilassero acciocchè nulla si dicesse o si stampasse contro quegli Annali di Baronio: quest’atto, dico, riuscì mortificantissimo alla Corte romana che invocò le raccomandazioni di quella di Francia, ma indarno.

Morto nel 1611 l’arcivescovo di Saragoza, il papa ne pretese le spoglie; e opponendosi le corti di Aragona, il decano di Saragoza promulgò, a nome del [p. 294 modifica]pontefice, un interdetto sulla diocesi. Le Corti, determinate a sostenere i loro diritti, se ne richiamarono con forza al Consiglio di Spagna, il quale bandì il decano, sequestrò le sue rendite, e sequestrò 40,000 scudi che giacevano per conto della Camera romana, rimise l’amministrazione delle spoglie al magistrato secolare acciocchè pagasse i debiti del defunto, e disponesse il rimanente secondo le leggi di Aragona; e infine comandò ai nunzio pontificio a Madrid che levasse l’interdetto, il quale ubbidì: ma il suo auditore che volle fare opposizione, fu scacciato dal regno.

Quel Consiglio andò più innanzi. Per le leggi di Spagna nissun forastiero poteva ottenere beneficio o pensione ecclesiastica nello Stato; ma la corte di Roma, feconda di artifizi, a deludere la legge soleva conferir le pensioni sopra una prebenda della Spagna a qualche Spagnuolo che risedesse in Roma coll’obbligo di passarla in mano ad altro favorito, solitamente italiano. Il Consiglio di Madrid fece intendere al papa che non voleva più pensioni in capo di Spagnuoli ed a profitto d’Italiani; e aggiunse che fosse abolito l’uso delle spoglie, alle quali sarebbesi sostituito un annuo compenso; che il re dovesse nominar egli a tutti gli episcopati de’ suoi regni, anco in Italia; e infine che tutte le cause ecclesiastiche, eziandio in seconda istanza, fossero giudicate non più a Roma, ma in Spagna. Tali domande riuscivano indigeste alla Curia, che in loro scorgeva un tarlo funesto; pertanto cercò di cansarle, inventò sotterfugi, tirò in lungo, ma infine dovette comporsi con discapito suo. [p. 295 modifica]

A tenere in apprensione la corte di Roma, a cui fanno paura i grandi prelati perchè non può dominarli, il re di Spagna aveva fatto prete il suo terzogenito e conferitagli un’abazìa nel Portogallo che rendeva 100,000 scudi o più. Ciò piaceva a Frà Paolo perchè costui, diceva, «assorbirà col tempo non solo una gran parte delle entrate ecclesiastiche, ma ancora l’autorità; e come sarà nella casa regia, poco dipenderà da Roma».

Correva già voce che questo regio infante sarebbe stato aggregato all’ordine cardinalizio: il che sentendo Savary de Breves ambasciatore di Francia a Roma, disse che in tal caso lo stesso onore sarebbe fatto ad un fratello del suo re. E qui pure Frà Paolo aggiungeva: Questo sarrebbe ottimo, perchè sarebbono tre papi; ed è concetto da fomentare.

Vent’anni dopo la sua morte, incominciò la sêtta famosa de’ giansenisti, di cui il Sarpi fu il vero precursore: i quali partendo da’ principii contrari ai gesuiti, quanto questi erano condiscendenti a tutte le bruttezze umane, altrettanto e’ furono di rigida morale; e quanto i gesuiti adulavano i papi, altrettanto i giansenisti ne limitavano gli eccessi e cercavano di restaurare le antiche leggi della Chiesa turbate o corrotte dal curialismo romano. La lotta fra queste due sêtte durò più di un secolo e finì coi precipizi del gesuitismo, e conseguentemente con danno gravissimo della Curia.

Nel 1682 il Clero Gallicano ridusse a quattro proposizioni le massime della sua Chiesa, che furono difese dal celebre Bossuet; il quale riprodusse con più largo disegno e con singolare erudizione tutte [p. 296 modifica]le dottrine del frate veneziano. Abbenchè Luigi XIV rinunciasse in seguito a quelle proposizioni, elle rinverdirono un secolo dopo, e la corte di Roma fu poi obbligata a riconoscerle e a sanzionarle nel concordato francese del 1801. E però con molto senno diceva papa Benedetto XIV: Abbiamo fatto tanto schiamazzo per le quattro proposizioni del Clero Gallicano; ma oramai dovremo chiamarci felici, se i principi vorranno contentarsi di quelle.

Infatti dopo la guerra per la successione della casa d’Austria surse un gran moto nella vita sociale de’ popoli, e tutti i principi gareggiarono a riformare i guasti ordini de’ loro Stati: furono tarpate le ali al Sant’Offizio; furono ristretti, poi aboliti i diritti di asilo, fu meglio regolata la materia beneficiaria; furono limitati gli acquisti alle mani morte; furono soppressi o limitati i privilegi de’ cherici, alle scomuniche fu data risposta colle armi, e le bolle di Roma non ebbero più alcun valore.

Fino dal 1676 il cardinale Noris scriveva: Poche bolle passano verso l’Adriatico per le massime lasciate nel testamento di Frà Paolo; ma verso il 1760 le ceneri del grand’uomo parvero rianimarsi, e parve che il suo spirito invadesse tutta Venezia e quindi si propagasse nella Italia ed oltre i monti: le riforme introdotte dalla Repubblica furono tra le più ardite che si tentassero a quei tempi: e toccavano i beni delle chiese, i privilegi e le immunità dei cherici, il diritto di asilo, la Inquisizione del Santo Offizio, i conventi, le feste e l’eccesso delle messe e delle indulgenze, e i guadagni delle Bolle, ed altri oggetti preziosi alla grandezza romana. Quasi in [p. 297 modifica]quel torno i gesuiti furono scacciati dal Portogallo, dalla Spagna e dalla Francia, e pochi anni dopo fu soppressa la loro società. Verso il 1780 incominciarono le radicali riforme di Leopoldo gran duca di Toscana e di Scipione Ricci vescovo di Pistoia e Prato, il quale non fece che ridurre in pratica i precetti del famoso Servita. Confrontando colle opere di questo le Memorie del celebre e virtuoso prelato, vi si riscontra la massima conformità d’idee, e non di rado il vescovo di Pistoia non fa che ripetere i pensieri del Sarpi, colle sue parole istesse, od ampliandole.

Ora il papato si trova alle ultime agonie: in 40 anni pericolò cinque volte la sua esistenza. Nel 98 fu atterrato dalla rivoluzione di Francia; nel 1800 i re confederati passeggiavano sulle sue rovine e nutrivano il pensiero di renderle irreparabili, e ne furono distolti dalle vittorie de’ Francesi: il papato risurto nel 1801 fu nuovamente abattuto nel 1809; nel 1814 deve a Napoleone la sua esistenza, perchè se continuava più a lungo la prigionia di Pio VII, è dubbio grave se la Santa Alleanza fosse per restituitali tutti i suoi Stati. Nel 1817 due potenti principi d’Italia pattovirono lo spartimento de’ dominii ponteficii, e fallì la trama pei rivolgimenti ulteriori di quella provincia e pel bisogno risurto nei re di conciliarsi il sacerdozio; e ciò nulla ostante il papato, in balia dei sempre crescenti suoi errori, continua ad essere minacciato dal secolo retrogrado e dal progressivo.

In mezzo a tai pericoli, e nella abiezione in cui è tenuta da quelli che pur fingono di accarezzarla, [p. 298 modifica]Roma continua a nutrirsi d’illusioni e di orgoglio; parla e scrive della potestà dei papi e della loro autorità sul temporale dei principi come avrebbe parlato e scritto a’ tempi d’Innocenzo III; e sogna trionfi, e medita conquiste, e si applaude ad ogni isolata conversione di qualche individuo, intanto che disertano da lei le moltitudini: la Spagna e il Portogallo già così devoti, ora scuotono il giogo; nel Belgio fermenta di nuovo il giansenismo, ma più tollerante e più socievole; si agita la Svizzera, le sfugge la Germania, e l’Italia inquieta desidera un essere nuovo. Centro al gran vortice delle opinioni è la Francia: quella Francia ora senza religione e senza morale, e che pertanto anela all’una e all’altra onde riempiere i vacui dello spirito e i bisogni più affettuosi del cuore: ma all’età pensosa più non basta un culto che non ha prestigi tranne per gli occhi e già le vecchie non intese liturgie diventano ridicole, il vizioso celibato dei preti è uno scandalo, gli ordini monastici sono un anacronismo sociale, la gerarchia è in contraddizione con tutti gli attuali sistemi politici, liberi od assoluti, il gesuitismo è rinato per darsi il vanto di morire una seconda volta, e la società vivente aspira a veder risolvere nella primitiva splendida sua bellezza il cristianesimo disordinato dalle passioni e dalla avarizia degli uomini.

Il papato ingrandì finchè fu popolare, finchè fu grandezza d’Italia, e cadde quando si associò coi re e perdette le persuasioni de’ popoli, quelle persuasioni che erano la sua forza: quindi invano egli delira il ritorno del medio evo, tempi di libertà e di vita [p. 299 modifica]che non potranno più riprodursi favorevoli a lui se non colle medesime circostanze. Il papato è decrepito, ed ogni rivolgimento sociale è un canto funebre che lo accompagna alla tomba. Ma potrebbe ringiovanire? Sarebbe un fenomeno straordinario, ma non impossibile; e potrebbe fare questo miracolo un pontefice che conoscendo il suo secolo e la sua posizione retrocedesse di un salto il cammino erroneo che già lungo tempo percorsero i suoi antecessori, e raccogliesse intorno a sè la grande famiglia cristiana, sperperata e divisa, e si facesse l’interprete de’ pensieri de’ popoli. Dico cosa nuova ma vera: i liberali, continuazione del partito guelfo tanto utile a’ papi, ed ora al papato nemici, sarebbero i primi a schierarsi sotto le sue insegne; e quelli che ora discreditano la bolla e gli anatemi di Pio VII contro i Carbonari, diventerebbero i campioni della bolla e degli anatemi di Giovanni XXII contro gli occupatori della Italia.

Le accennate considerazioni non hanno, a dir vero, una relazione immediata colla vita di Frà Paolo; ma le portai come illustrazioni o conseguenze dei grandi principii da lui stabiliti. Io penso che la vita degli ingegni straordinari debba essere considerata sotto il doppio aspetto dei vecchi errori che dovettero vincere e delle future verità che pronosticarono, a fronte di che sono poca cosa le azioni loro misurate dal tempo e causate dalle vicissitudini umane. Mangiare, bere, dormire, riprodursi, moversi o riposare sono comuni a tutti gli animali; avventure più o meno bizzarre sono accidenti della fortuna, e la vita che più ne abbonda non è che il romanzo [p. 300 modifica]di un uomo, se gli effetti che ne risultano sono meramente individuali. Ma pensare è proprietà celeste, ed è nel pensiero e ne’ suoi effetti che consiste la immortalità del genio. Perchè sarebbe immortale se non fossero immortali le sue creazioni? La vita fisica di Galileo, di Newton, di Vico, non importa più a sapersi, e forse importa meno di quella di un contadino; sarebbe umiliante od anco odiosa quella di altri; e la gretta istoria personale di Dante non ci presenterebbe che un trastullo volgare delle fazioni; ma l’uomo portentoso che crea una letteratura, che raccoglie in sè i pensieri di tutto un secolo e gli trasfonde nei secoli avvenire, è un raggio luminoso di un gran sole, è un anello della catena scientifica che annoda gli esseri umani al senno di Giove. Ed è perciò che in questi miei racconti mi sono più volte dilungato in episodi che a taluni parranno superflui, ma che io stimo bene coordinarsi coll’assunta materia. Se m’ingannai, avrò aggiunto un noioso libro di più ai già tanti che abbondano, e il torto sarà tutto mio.