Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo XIII

Capo XIII.

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CAPO DECIMOTERZO.


(1606-1607). A un fatto così nuovo restò prima sospesa l’Europa, poi vi prese una parte così viva come di causa comune; e nella moltitudine degli scritti in favore della Repubblica dettati da uomini egregi per fama e sapere, e fra l’eco delle opinioni avverse alla Curia, andavano smarrite le voci contrarie di preti e frati oscuri, gli scritti de’ quali, come lo attestano i Curiali medesimi, erano nemmanco letti avvegnachè distribuiti gratuitamente; per converso anco negli Stati Pontificii, malgrado il timore dell’Inquisizione, erano cercati a gran prezzo e letti avidamente quelli de’ Veneziani o de’ loro fautori, e con più particolare amore accolti gli scritti di Frà Paolo, i quali anco volavano oltre l’Alpi tradotti in latino, in francese o in tedesco ad uso di quelli che l’italiana favella non conoscevano. Non si ha forse esempio di tanto entusiasmo per un uomo; ma da quell’uomo dipendevano le sorti del Sacerdozio e dell’Impero. Intanto i frati a Mantova, a Ferrara, a Milano, a Napoli, si sbracciavano a predicare dai pulpiti contro il Senato, e il Sarpi additavano alla plebe come immagine o precursore dell’Anticristo. I gesuiti più astuti a turbare le coscienze e a sommovere i popoli, carteggiavano cogli aderenti loro nello Stato Veneto, vi mandavano fattorini; entravano essi ancora sotto mentite spoglie, tentavano, [p. 262 modifica]corrompevano. Il gesuita Possevino si vantava egli solo di tenere a’ suoi ordini più di 300 giovanetti delle primarie famiglie pronti a rubellarsi ai genitori e al governo: iattanza al certo, ma prova che questa sêtta non ha mai abborrito i mezzi odiosi. Nè le loro macchinazioni si ristrinsero sugli orli del dominio veneto o nell’Italia, ma in Spagna ancora, in Francia, in Boemia, in Polonia, e fino in Inghilterra in onta alle spesse mortificazioni incontrate. E così continuando dapertutto a diffamare il Senato, a suscitar disturbi a’ suoi ambasciatori, a fingere lettere per metterlo in discordia con sè o in guerra con altri Stati, a spargere libelli incendiari fra’ suoi popoli, a incitargli la guerra civile in casa, tanto affaticò la pazienza di quel corpo che a’ 14 giugno 1606 gli bandì in perpetuo dalla Repubblica con decreto così severo e accompagnato da tali formalità, che il rivocarlo diventava quasi impossibile. Dieci anni innanzi erano stati banditi dalla Francia come regicidi, corruttori della gioventù e promovitori di ribellione. A ciò si mosse il Senato non pure pel narrato cumulo di oltraggi, ma per essersi scoperto che tenevano registro delle confessioni delle quali abusavano per conoscere i più occulti interessi delle famiglie e dello Stato. Nei precipizi della loro fuga, fra le carte che non ebbero il tempo di dare al fuoco lasciarono alcuni registri di esse confessioni, e residui di carteggi criminosi, e copie a penna di Alcune regole segrete da osservarsi per stare attaccati alla Chiesa ortodossa; in latino: la terza prescrive di credere alla Chiesa, jerarchica quando ancora dica che è nero quello che [p. 263 modifica]par bianco; e la decimasettima comanda a’ predicatori di non predicare od inculcar troppo la grazia di Dio. Cose simili, benchè più coperte, si hanno nelle loro regole stampate a Roma.

L’espulsione di questa sêtta fu una prova luminosa della concordia che regnava nel Senato, dove 180 essendo i voti, e molti dei senatori già penitenti o amici agli Ignaziani, benchè tratti a scrutinio secreto neppur uno sortì favorevole.

Il qual nuovo colpo fece sentire al pontefice con che genti avesse a fare. Nè gli venivano migliori consolazioni da altre parti. In Polonia alcuni Veneziani erano stati scacciati da una chiesa, ma il governo obbligò i preti a scuse ed ammende; a Vienna il nunzio ebbe la mortificazione di non dover comparire alla festa del Corpus Domini perchè la Corte non volle escluderne l’oratore veneto; il re d’Inghilterra si offriva per la Repubblica; quello di Francia si adoperava con leal fede per la concordia, ma in caso di guerra dava manifesti indizi che voltava le armi contro la Curia; l’imperatore applaudiva ai fatti della Repubblica, e quand’anco avesse voluto aiutare il papa, non poteva, travagliato dalla guerra coi Turchi. Solo da Spagna gli veniva qualche conforto, perchè il conte di Fuentes governatore di Milano armava e minacciava i confini, ma non aveva danari per pagare l’esercito; e il marchese Santa Croce, ammiraglio spagnuolo, partito da Napoli con un’armata entrò nel Golfo, sorprese e saccheggiò Durazzo di Albania sul territorio ottomano onde compromettere la Repubblica colla Turchia. Ma il Sultano a cui erano grati suoni [p. 264 modifica]le discordie de’ cristiani, comandò preghiere e digiuni acciò che continuassero, ringraziando il cielo che aveva mandato un papa che favoriva con tanto zelo la causa de’ Maomettani, e comandò ancora ai suoi pascià che in ogni cosa fossero prontissimi a servire Venezia: il Gran Visir chiamato a sè il Bailo dei Veneziani, dissegli essere omai tempo di finirla con que’ Spagnuoli e preti loro nemici comuni; la Repubblica si unisse colla Sublime Porta, e intanto che l’una assalterebbe papa e Spagna da un lato, l’altra assalterebbeli dall’altro: ad ogni modo Venezia contasse sugli aiuti del Gran Signore. Il quale a mantenere la parola fece uscire un’armata di 55 galee con ordine al capudan-pascià di mettersi in pieno accordo coi Veneti e di ubbidire a loro.

Ma l’arroganza di Paolo V non era ancora umiliata sì che non dicesse, credersi tanto forte da citare il doge al Sant’Offizio e processarlo come eretico. E per farne qualche dimostrazione, chiese soccorsi alla Spagna; instituì una congregazione di guerra composta (nuovo ridicolo) di 15 cardinali; e per accattar pecunia creò fuori dei tempi soliti altri otto cardinali, creò nuove gabelle, aggravò le vecchie, mise all’incanto gli uffici della Curia, e spogliò degli argenti e de’ voti appesi la Santa Casa di Loreto. Indi munì le fortezze, bandì i forestieri, richiamò i sudditi assenti, levò soldati; intanto che frati fanatici predicavano la crociata e ricordavano le pie stragi degli Albigesi, e le recenti della Francia e del Belgio, e i gloriosi trionfi della Chiesa conseguiti collo sterminio degli eretici. Ed essendo carestia grande nei suoi dominii, il Santo Padre [p. 265 modifica]a far tacere la fame pubblicò un giubileo: il pretesto, per privare i Veneziani de’ cibi spirituali che compartiva con mano benefica su tutto il popolo cattolico; la verità, per raccoglier denari e per confermare nella fede i suoi aderenti ed acquistarne, per sommovere le coscienze colle confessioni e devozioni, e per carpire quanti più libri e scritture di que’ che non piacevano alla Curia.

Per ciò che riguarda l’esercito papale, era composto quasi solo di raunaticci che facevano le fazioni un giorno e disertavano il giorno appresso. Le genti di ordinanza sommavano circa a 2400 fanti e 350 cavalli, in penuria fino del necessario, e si aggiungevano compagnie di archibugieri a cavallo, ma che camminavano a piedi e senz’armi.

Dal canto suo Venezia armava anch’essa, risoluta a respingere la forza colla forza. Richiamò le navi e le milizie dalle sue colonie di Levante, allestì un’armata di 80 galee, fece prendere tutti i navili papalini che navigavano l’Adriatico, staggì le rendite dei preti che stanziavano a Roma; proibì l’uscita del danaro e impedì il commercio delle vettovaglie per lo Stato Pontificio, lo affamò, ne intraprese i traffichi; chiamò le cernide o milizie paesane, mise in piedi un fiorito esercito di ordinanza, assoldò capitani, mandò provveditori, e alle città di Padova, Verona, Brescia, Crema, mandò 100,000 scudi ciascuna perchè provvedessero alle difese; e teneva in riserva una levata di Turchi che l’arcivescovo greco di Filadelfia offriva di stipendiare per conto della Repubblica. Chiese ed ebbe gente da’ Grigioni e Svizzeri; principi e generali francesi [p. 266 modifica]offrivano le persone loro e compagnie di soldati; altri soldati offriva la repubblica di Olanda. La guerra pareva vicina a prorompere, il papa voleva intimarla.

Ma quando fa al sodo, la corte di Madrid che meglio del Fuentes conosceva la propria debolezza, e i pericoli a cui sarebbe andata incontro se brandiva l’armi contro una causa cui anzi favoriva perchè giovevole al principato, e per cui si sarebbe tirata addosso la mole degli Stati più potenti dell’Europa e fattole perdere i suoi dominii d’Italia e di Fiandra, si ristrinse a buone parole e a speranze.

Già da un anno durava l’Interdetto, e i Veneziani non che se ne curassero, ne avevano fatto argomento di diatribe popolari. Oltre ai libri dettati per una classe più elevata, correvano fra la plebe innumerevoli scritture in fogli volanti, quali a penna, quali a stampa, di stile famigliare, e molte anco nel volgar dialetto. Le censure ecclesiastiche, diventate soggetto di canzoni vernacole, erano cantate dal barcaiuolo movendo la sua gondola, e l’indole gaia de’ Veneziani si divertiva a spese del Santo Padre. Questi autori di prose o poesie tra le facezie non avevano dimenticato il sodo, ponendo ogni cura nel far risaltare la pietà dei Veneziani, i debiti verso loro della Santa Sede, e specialmente la vittoria del doge Sebastiano Ziani sull’armata di Federico Barbarossa, e la tiara restituita da quel doge a papa Alessandro III, tradizioni istoriche note al volgo.

Il clero poi continuava quietamente i divini uffizi, le chiese stavano aperte giorno e notte, e per una [p. 267 modifica]singolare contradizione dello spirito umano, quelli stessi che vi andavano di rado, ora le frequentavano. La processione del Corpus Domini non fu mai più magnifica, e pareva che Venezia scomunicata fosse diventata più cattolica di prima.

Ciò sconcertava sommamente il papa che sperando di vedere insorgere nella Repubblica la discordia, vedeva invece i popoli devoti, pronti alla guerra, e la più quieta armonia regnare in tutti gli ordini dello Stato. Il Senato non dava segno di voler calare a penitenza; i severi provvedimenti presi contro ai gesuiti, cari al pontefice, indicavano una volontà irremovibile; e alle calde istanze che gli facevano i principi, e più di tutto Francia e Spagna, rispondeva sempre: l’autore degli scandali è il papa, è egli che ha sbagliato, che ci ha fatto ingiuria, lui bisogna consigliare al pentimento e all’emenda: revochi le sue censure e tutto è finito; non è in nostro arbitrio di medicare i falli altrui. In molte angustie versava Paolo V: nissuno lodava il fatto; i principi di accordo lo tacciavano d’imprudenza e di pazzia; il biasimo era universale, fin nella sua corte; i cardinali anzichè consolarlo, lo riprendevano; i cortegiani stavano muti, avviliti; il più prezioso arcano del papato era scoperto e deriso: più l’interdetto durava, e più l’autorità pontificia era in discapito; conciosiachè restasse aperto il campo a discussioni pericolose, dove risalendo all’origine di quella autorità, se ne scopriva sempre più il mandato illegittimo, o l’abuso. Domare i Veneziani colla forza, non si poteva fare se il papa non si rendeva servo alla Spagna, cosa aborrita [p. 268 modifica]sommamente da Paolo V; e vi era anco la certezza che le altre potenze si sarebbono chiarite a favore della Repubblica, e la guerra sarebbe diventata generale e pericolosa, e a vece di sottomettere colle armi Venezia, una allagazione di eretici avrebbe potuto far perdere alla Santa Sede tutta l’Italia, e precipitarla. Stantechè, oltre che gli Italiani erano stanchi del giogo degli Spagnuoli, lo spirito di rivolta cominciava a introdursi clandestinamente anco nello Stato Pontificio ed in Roma. I Curiali a forza di gridare che Venezia voleva diventare una Ginevra, e che Frà Paolo meditava farsi capo a nuova sêtta e accreditarsi come Lutero in Germania e Calvino in Francia, erano riusciti a persuaderlo; e fra i molti buoni che lo desideravano in secreto come un avviamento a libertà politica e religiosa, lo desideravano apertamente, per motivi men nobili, e preti e frati in buon numero o ambiziosi, o ribaldi, di deluse speranze, o noiati del chiostro; e se non fosse stata la paura del Sant’Offizio, lo spionaggio dei gesuiti, e la incertezza dei casi, molti, nutrendone già ferma fiducia, avrebbono disertate le insegne.

Fomentava questi umori la scontentezza generata nei frati mendicanti, de’ quali essendone partiti alcune migliaia dallo Stato Veneto dove grassamente vivevano, tornavano a discomodo de’ conventi di Milano, Mantova, Ferrara e Bologna dove ricoverati si erano, sì che non bastando le limosine a sostentare tanta nuova gente, molti, massime tra i cappuccini, perirono d’inedia; altri stentavano i giorni; e tutti insieme si querelavano che il papa a farli [p. 269 modifica]vivere non mandasse che indulgenze. E si aggiungevano le querele dei popoli di Romagna e della Marca a cui l’interdetto fruttava interrompimento dei traffichi, carezza di viveri, miseria in ogni cosa, laddove nello Stato Veneto regnava la più grande abbondanza. Onde il volgo che non è teologo e che giudica le cause dagli effetti stimava la causa de’ Veneziani giusta, ingiusta e sfavorita da Dio quella del papa, e desiderava che il Santo Padre mettesse fine a un dissidio che giovava niente a lui e affamava i suoi popoli.

Altri, benchè opinassero egualmente che il Sarpi intendesse a separare la Repubblica dalla corte di Roma, misuravano più da lungi la vastità del pericolo. Imperocchè veggendolo persistere immobile nei dogmi cattolici, e puntare solo sulle ragioni di fatto che instituivano la controversia; e la concordia fra il governo e i sudditi; e il piacere con cui osservava quella contesa il mondo: temevano che la separazione di Venezia potesse partorire conseguenze più fatali che non quella della Germania ed Inghilterra. Imperocchè se Venezia conservando le redate fedi circoscriveva l’autorità papale a quel solo primato d’ordine e di associazione noto agli antichi, o la riduceva alle sole cose spirituali, era finita per Roma. Tutti gli altri regni avrebbono voluto imitarne l’esempio: funesto, perchè gradiva ai metropolitani che riacquistavano l’antica indipendenza, ai vescovi perchè ripigliavano la perduta autorità, al minor clero e ai popoli perchè non più angariati dalla ingordigia curiale con spogli, dispense, decime ed altri aggravi, e infine a’ governi perchè diventavano più liberi e signori. [p. 270 modifica]

A Paolo V non potevano cancellarsi dalla mente le parole dette dal doge al suo nunzio nel licenziarlo: «Nissun uomo di sano intelletto può approvare il pontefice, venuto ad una risoluzione così ingiusta e così precipitata senza prima sapere come si governi il mondo. Certo non poteva far cosa più a proposito per chiamare a sindacato la corte di Roma. Pensi se la Repubblica si appartasse da lei, pensi qual danno!» Le ultime parole parevano acchiudere un’oscura minaccia, e rabbrividiva al solo pensiero che potesse effettuarsi.

Fra queste incertitudini cominciò a tastare l’ambasciatore di Francia conte di Alincourt e dire, non essere alieno dalla concordia coi Veneziani sempre che gli dessero qualche soddisfazione. Enrico IV re di Francia fin dal principio della controversia aveva dimostrato un animo benevolo e imparziale, e adoperato ogni mezzo acciocchè il papa non precipitasse in qualche disacconcio. E quantunque disgustato di lui che con mal garbo e soverchia presonzione aveva rigettato il suo interponimento, mandò a’ suoi ambasciatori Dufresne Canaye a Venezia, Alincourt a Roma e ai cardinali francesi che non omettessero pratica alcuna, nè si stancassero per ripulse onde trovare qualche filo alla conciliazione. Ma l’imbroglio era di sapere come indurre a dar soddisfazione un governo il quale non che darne pretendeva quasi di riceverne. Nulla ostante l’Alincourt accordatosi coi cardinali francesi fece proporre al Senato per mezzo di Dufresne i seguenti preliminari: 1.° che il papa fosse pregato dal re a nome della Repubblica, acciò levasse le censure, e intanto [p. 271 modifica]l’interdetto durasse ancora quattro o sei giorni; 2.° i prigioni fossero dati al papa in gratificazione del re; 3.° fosse rivocato il protesto; 4.° si annullassero le scritture a favore della Repubblica, 5.° i frati partiti per cagione dell’interdetto, ritornassero; 6.° infine fosse mandato un ambasciatore a ringraziare il papa, e pregarlo che levasse le censure, per il che si sarebbe stabilito il giorno; intanto le leggi in controversia fossero sospese, finchè le differenze si aggiustassero all’amichevole, come tra principe e principe.

Il progetto era bello ma non piacque. Il Collegio, udito come al solito il consultore teologo, discusse le proposte dell’ambasciatore, e le riferì al Senato, il quale accettò metà della prima domanda, ricusò l’altra metà; vien a dire: consentì che fosse pregato il papa a levar le censure, ma non a nome della repubblica la quale le aveva sempre giudicate nulle, e che non che riconoscerle per una settimana, non le avrebbe tollerate neppure per un’ora. Modificò la seconda domanda, dicendo che i prigioni gli avrebbe dati non al papa ma al re, in semplice dono e gratificazione dei disturbi che si prendeva a favore della Repubblica, e senza pregiudizio del diritto che ha il principe di giudicare anco gli ecclesiastici. La terza domanda la trovò inutile, dicendo che levate le censure restava nullo per conseguenza il protesto, e quindi superfluo era il parlarne. Delle scritture rispose che avrebbe fatto ciò che il papa faceva delle sue. Quanto ai frati, essere un negozio da trattarsi a parte. E in ultimo, che manderebbe, a controversia finita, ambasciatore ordinario, come era [p. 272 modifica]il costume; e a patto che il papa promettesse anticipatamente che sarebbe ricevuto ed onorato come al solito. In quanto alle leggi non era da parlarne; il papa non aveva diritto alcuno di mischiarsi nel governo economico degli altri Stati: erano fatte, e dovevano stare.

Intanto che queste cose si trattavano, il pontefice fluttuando fra mille incertezze, e tirato da questi e da quelli, dava orecchio ora ai ministri di Spagna, ora al gran-duca di Toscana, ora ad altri inframettitori, tutti desiderosi di figurare i primi nella composizione di così arduo negozio. I cardinali istessi erano divisi, chi lo incalzava da un lato, chi dall’altro. Pentito delle proposte si ritrattava, tergiversava, all’uso romano cavillava sui termini, aveva sempre qualche nuova pretesa. Filippo III re di Spagna aveva in quel mezzo mandato a Venezia ambasciatore straordinario don Francesco de Castro: il papa sperava che gli otterrebbe condizioni assai più vantaggiose che non i Francesi; ma fu deluso, perocchè il Senato lo accolse e trattò con singolare onorificenza e gli concedette niente. Enrico IV sapute le oscitanze del papa e la sua diffidenza, se ne dolse gravemente col nunzio cardinal Barberini, e mandò al pontefice dicendo, che, poichè non si fidava di lui, egli lo avrebbe abbandonato. Paolo V si trovava in novello imbarazzo; già cominciava ad accorgersi che la Spagna lo tirava di traverso per dominarlo e cavargli decime sul clero; il gran-duca non godeva la confidenza della Repubblica; e gli altri principi d’Italia non erano abbastanza riputati per mescolarsi in que’ maneggi. Altronde avendo [p. 273 modifica]saputo che il Senato aveva promesso di non trattare per altro mezzo che per quello di Francia, conobbe che la miglior via di uscire da quel difficile intrico era di ricorrere al mediatore più disinteressato, e in cui la parte contraria più fidava; e fatte le sue scuse al re Enrico si commise tutto nelle mani di lui.

In pari tempo Frà Paolo che era l’anima di tutte le deliberazioni veneziane, ben conoscendo che il maggiore ostacolo ad un decoroso accomodamento erano gli artificiosi maneggi de’ ministri di Spagna che sempre tenevano il papa sospeso con offerte di aiuti, pensò modo di farli recedere e di disingannare il pontefice sul conto loro. Nelle consulte che frequenti si tenevano o nel Collegio, o in casa del doge, in circoli privati, o fin anco nella sua cella, l’astuto frate consigliò che bisognava far risolvere il re di Francia a qual partito si appiglierebbe, dato il caso di una guerra. Ma Enrico IV, temendo che una dichiarazione formale fosse per guastare tutti i suoi buoni uffici per la pace, rispose convenir meglio pensare alle vie di conciliazione anzichè alla guerra, ma pure si fece abbastanza intendere che in questo caso non avrebbe abbandonato la Repubblica.

In questo medesimo tempo Giacomo I re d’Inghilterra aveva disgusti gravi colla corte di Roma per le cagioni che dirò in altro luogo, e aveva già offerto ogni qualità di sussidio alla Repubblica. Frà Paolo confidentissimo amico del cavaliere Enrico Wotton ambasciatore di quel re a Venezia, lo persuase ad indurre il suo principe ad una più decisa [p. 274 modifica]dimostrazione, e indusse anco il Senato a fare lo stesso ufficio col mezzo del suo ambasciatore a Londra. Infatti il re Giacomo rinovò le fatte proferte, le accrebbe e dichiarò in termini espliciti che, data la guerra, ei sarebbe tutto per la Repubblica. Era lo stesso che tirarvi la Francia. Questi raggiri diplomatici bastarono a fare avvisata la corte di Madrid che non era più tempo di lusingare il pontefice con vane promesse, al quale fece prima intendere che non desse retta alle ciancie del conte di Fuentes; il Milanese essere esausto, anzi rovinato dalle soldatesche, nè forse potersi così facilmente imprendere una guerra: il più sicuro essere la via degli accordi. Poi il marchese Aiton andato ambasciatore a Roma si palesò più schietto, dicendo che il re Cattolico non voleva guerra in Italia, e che era un abbassare la dignità apostolica volendo con mezzi umani sostentare un’autorità divina: scherno amaro giunto alle mancate promesse. Il papa allora veduta infruttuosa la missione del Castro e consigliato anco da varii cardinali, tra cui il Baronio mortificato che il suo spirito profetico non fosse rinscito a bene, si decise a cercare sinceramente la concordia.

(1607). Lungo sarebbe dire tutto il successo di questa trattazione: basti sapere che nissun altro negozio in quel secolo apparve di uguale importanza. Occupò l’attività di dieci o dodici ambasciatori. Enrico IV, il re di Spagna, il re d’Inghilterra, l’imperatore, i duchi di Savoia, di Mantova, di Toscana, il marchese di Castiglione s’intromisero: si maneggiarono il conte d’Alincourt, il cardinale du [p. 275 modifica]Perron, Dufresne Canaye per parte di Francia, don Francesco de Castro, don Inigo de Cardenas e il marchese Aiton per parte di Spagna; ma la maggior gloria fu del cardiale Gioiosa mandato espressamente dal re di Francia. Per quanti assalti facessero tanti principi e tanti abili diplomatici, e per quanto tenui le soddisfazioni chieste dal papa, il Senato non volle cedere di un punto. «Pochi esempi si hanno nella storia, dice l’autore delle Annotazioni alla Difesa Gallicana di Bossuet, di controversia difesa sino alla fine con tanta fermezza, come questa». La ragione è facile: la corte romana ha troppi mezzi di seduzione, e una mitra, un cappello, un pallio, sono lenocini a cui mal resiste la cupidità o l’ambizione. Ma Frà Paolo, da’ cui consigli pendevano le risoluzioni veneziane, restò inflessibile a lusinghe o promesse o minacce; e quantunque desiderasse la concordia e che l’accomodamento fosse quasi tutto opera sua, ei nondimeno lo volle dignitoso per la Repubblica; e volle usare l’occasione onde scemare a’ pontefici l’infausta possanza di rinovare simili disordini. Ma a Roma dove si tiene che ciascuno è disobbligato dal serbar fede al suo principe e alla sua patria quando giovi favorire gli interessi dei papi, al Consultore fu fatta una accusa, perchè conoscendo la necessità irrevocabile nel pontefice o di accomodarsi a qual patto si fosse, o di perdersi, egli ne profittasse per consigliare al Senato i severi propositi in cui si fermò, e per i quali esso pontefice dovette abbassarsi a condizioni umilianti. Invece avrebbero voluto che Frà Paolo abusasse del suo ufficio e della confidenza in lui [p. 276 modifica]deposta dal pubblico, e occultasse la giustizia, e tradisse l’onore e i diritti della sua patria onde conservare in credito la corte di Roma, e rispamiarle una mortificazione a cui l’imprudenza del papa e de’ suoi adulatori l’avevano tirata per forza.

Quando Enrico IV si avvide che le trattazioni dei suoi ambasciatori prendevano consistenza di qualche probabile riuscita, mandò in Italia il cardinale di Gioiosa, di regio sangue, acciocchè in suo nome rappresentasse la parte di mediatore fra i due governi. Il cardinale fu accolto a Venezia con grande onore, si abboccò col Collegio e co’ primari senatori, e cercò di stabilire alcuni preliminari su cui appuntare i suoi negoziati; ma gli trovò inflessibili, e appena potè ottenere la licenza di pregare il pontefice in suo nome proprio, a voler levare le censure. Dico in nome proprio del cardinale, perchè il Collegio dichiarò positivamente che non avrebbe mai permesso di pregarlo in nome della Repubblica. Indi il negoziatore s’incamminò a Roma, dove trovò il pontefice assai diminuito di orgoglio, ed umile e rassegnato al suo destino; pure avrebbe voluto che le censure fossero levate colle solite pompose solennità, ma Gioiosa gli disse che ne deponesse il pensiero, altrimenti era un tornare da capo. Avrebbe ancora voluto che i prigioni fossero consegnati senza previa protesta, ma non fu possibile di ottenerlo. Infine dopo ambasciatori corsi di qua e di là, corrieri spediti e ricevuti, progetti fatti e disfatti, disperando di mai più ottenere cosa alcuna dal Senato, tra il papa e il Gioiosa accordarono: i Veneziani rivocassero la protesta, ammettessero i frati [p. 277 modifica]espulsi, ricevessero l’assoluzione dal cardinale, il quale a nome del papa leverebbe l’interdetto.

Quanto ai frati mendicanti Gioiosa confidava che non sarebbevi difficoltà; ma de’ gesuiti, il Senato si era positivamente dichiarato che a patto niuno gli voleva ricevere. Gl’Ignaziani intrigavano in corte di Spagna, di Francia, e a Roma per non soggiacere alla vergogna della esclusione; il papa istesso vi metteva molto interessamento, parendogli sommo suo disonore se dopo tanto strepito per soli due preti, dovesse uscirne col bel guadagno che per cagion sua fosse bandito con bando atroce un intiero ordine di frati, così cospicuo e il più fedele alla Corte; ma essendo impossibile di spuntare le difficoltà, il cardinale du Perron e gli ambasciatori di Spagna lo persuasero a recedere anco su questo punto. Nondimeno cercò di ottenere per grazia quello che non poteva conseguire per patti, e commise al Gioiosa che facesse i più caldi uffici: i gesuiti medesimi si contentavano ritornarvi eziandio a condizioni umilianti, sì solo che ritornare potessero.

Tornato il Gioiosa a Venezia con facoltà larghissime, si avvide che bisognava tuttavia ampliarle. Il Senato, dei gesuiti non volle sentirne parlare: prieghi, promesse, carezze, lusinghe, tutto fu indarno; degli altri frati, disse che erano partiti da loro soli, e che potevano ritornare semprechè rispettassero le leggi della Repubblica e riconoscessero i diritti di lei. Di assoluzione non volle saperne, e neppure di rivocare egli primo la protesta; non volle capitolazioni scritte, dicendo che per annullare una nullità non è bisogno di scrittura; non volle [p. 278 modifica]riconoscere intervenimento di commissari o notai pontificii nelle consegne de’ prigionieri; e a maggior prova che l’interdetto è un atto nullo, vollero che fossero compresi nell’accomodamento tutti gli ecclesiastici che vi avevano scritto o predicato contro. Il cardinale desiderava che il Senato ritrattasse le lettere scritte ai Rettori delle province, e particolarmente una girata per varie mani e che il Senato riconosceva apocrifa, e inoltre che mandasse due ambasciatori a Roma, dicendo che il papa lo meritava per la grazia singolare che faceva alla Repubblica: ma il Senato si ostinò a non voler mandarne che un solo rispondendo che in altre occasioni ne avrebbe mandato anco dieci trattandosi di far onore al pontefice, ma non in questa. Quanto alle lettere disse, che erano secrete; e nissun principe essere in debito di render ragione ad un altro di ciò che scrive a’ suoi ministri; e per quella che era falsa, come d’altre simili, non essere dignità di principe l’occuparsene. Bastasse che il governo le aveva già fatte ritirare, e cercatine gli autori.

La redazione del manifesto in cui il Senato annunziava che l’interdetto era levato, fu oggetto di lunghe discussioni. Il cardinale avrebbe voluto che si dicesse: Avendo noi rivocato il protesto, Sua Santità si è degnata di levar le censure, ma il Collegio non volle mai ammettere una tal formola e non fu se non dopo un lungo scrivere e cancellare che accettò la frase: Essendo state levate le censure resta parimenti rivocato il protesto.

Così convenuti, a’ 21 di aprile del 1607 il segretario del Senato Ottobuono accompagnato da due [p. 279 modifica]notai della cancelleria e da altri testimoni condusse i prigioni al palazzo di Francia dove stavano l’ambasciatore e il cardinale. Questi si ritirò, e presente molto popolo accorso allo spettacolo il segretario rivolto a Dufresne Canaye disse: «Sua Serenità mi ha commesso di consegnare a Vostra Signoria l’abate Brandolino e il canonico Saraceno qui prigioni: il che Sua Serenità fa in gratificazione di S.M. Cristianissima, protestando che ciò sia e si intenda senza pregiudizio del suo diritto di giudicare ecclesiastici». Nelle quali parole fu scaltramente evitata ogni allusione relativa alle censure trattando questa consegnazione come un affare privato tra Francia e la repubblica. L’ambasciatore rispose: E in questa forma io gli ricevo; indi condusse i prigioni al cardinale e questi gli diede ad un prete romano venuto privatamente, e che pregò le guardie a custodirli.

Fatto questo il cardinale coll’ambasciatore si recò al Collegio. Tutti stettero seduti e col capo coperto. Gioiosa annunciò che le censure erano levate, e pregò che fosse mandato ambasciatore a Roma dicendo che pregherebbe anco il pontefice perchè mandasse nunzio a Venezia. Il doge gli consegnò la rivocazione del protesto, e il cardinale uscito andò a celebrare una messa a cui nissun senatore intervenne.

Benchè questo disastroso accomodamento fosse il men peggio che si potesse aspettare la corte di Roma da un passo fatto con tanta inconsideratezza, dai Curiali fu sentito con vivo rammarico, massime dopo che apparve la rivocazione della protesta [p. 280 modifica]intorno a cui furono fatte molte parole e commenti. Anco il papa ebbe a dire: Almeno que’ signori l’avessero tenuta fra loro e non mandarla qui. Per consolarsi, fu fatta correr voce che il cardinale entrando in Collegio aveva dato l’assoluzione di nascosto, tenendo la mano sotto la mozzetta. Ciò poco importava ai Veneziani e fece ridere Frà Paolo. Tornarono i frati (non però i gesuiti) quietamente e senza pompa; e il governo, sempre a sè uguale, proibì ogni festa pel terminato dissidio. Non così nello Stato Romano che travagliato dalla penuria ne desiderava il fine onde si aprissero i passi, e si rianimassero i commerci, abbondassero i viveri; e però l’ambasciatore veneto passando a Roma fu accolto dai popoli con festa; il nunzio andato a Venezia, con indifferenza.

Come finissero i due delinquenti non è noto. Il canonico debbe essere stato liberato, ma intorno all’abate trovo in una lettera del Sarpi, 11 ottobre 1611, queste parole: «Nuovamente il nunzio ha richiesto di torturare l’abate, che fu dato al re e per suo mezzo al papa (perchè il giudicio dura ancora), ed è stato negato». Sembra dunque che il governo non considerandolo più di sua appartenenza dopo averlo regalato al re di Francia, non se ne sia mischiato se non in quello che era di sua competenza nella formazione dei processi del Sant’Offizio, e che abbia languito in carcere fino che morte venne a liberarlo.

È una contradizione singolare, ma non rara nello spirito umano che Bossuet, nella Difesa della dichiarazione del Clero Gallicano, parli dell’interdetto e [p. 281 modifica]approvi tutto ciò che fu fatto dai Veneziani, e infine prorompa a dire che Frà Paolo sotto la cocolla nascondeva un cuore da calvinista. Sicuramente quel prelato ignorava, la medesima accusa essere stata fatta a lui. Io non voglio crederla, perchè questo fabbricar congetture su ciò che v’ha di più occulto ai giudizi umani, è malignità enorme. Bene voglio dire che se Frà Paolo avesse scritto del papa ciò che scrisse Bossuet nella citata Difesa, i Curiali lo avrebbono fatto eretico cento volte più di quello che è; e Bossuet nel catalogo dei nemici della Santa Romana Chiesa avrebbe tenuto il posto del Sarpi, se quello avesse vissuto primo e questo dopo e scambiatisi a vicenda patria ed ufficio. Che se poi vogliamo fare un parallelo dei due personaggi, son certo che il vescovo francese non ne rimane in capitale. Bossuet prelato più dotto che buono, adulatore di Luigi XIV, cortegiano delle sue meretrici, invidioso, superbo ebbe querela coi più dotti uomini del suo tempo, de’ quali fu il persecutore; e a sua onta rimane tuttavia memoria della rabbia onde inveì contro il rispettabile Fenelon solo perchè la presenza di quel virtuoso era il vivo contrapposto di una corte dissoluta di cui Bossuet ambiva i suffragi e le carezze; e resta tuttavia memoria de’ scandalosi suoi intrighi onde farlo condannare a Roma, e della maligna sua gioia quando nella bolla condannatoria lesse una frase cui egli diceva equivalente ad hæreticus. Per orgoglio e per acquistarsi onori e ricchezze combattè i protestanti non colla modestia di apostolo, ma col calore di un controversista che vuole far pompa del suo sapere; il quale apparisce invero [p. 282 modifica]eminente, ma non sempre compagno colla buona fede e ingenuità di sincero scrittore: combattè poi i diritti o le pretese della Corte romana, non per un generoso motivo come Frà Paolo, ma per andare a versi della corte di Francia e per non perdere i suoi stipendi. Dicono che siasi ritrattato, il che se è vero fa ancora più torto al suo carattere, stantechè in onta a quella ritrattazione, negli ultimi anni di sua vita rifece la Difesa che ho sopra citata, dando una nuova disposizione ai libri e alle materie, e pensava di stamparla quando morì: il che poi fece suo nipote altro Jacopo Benigno Bossuet vescovo di Troyes. Per quella Difesa accusato dai Romanisti di poco sincera ortodossia, a purgarsene, e a togliere lo scandalo che dava il fasto dei prelati francesi a fronte del modesto contegno dei ministri protestanti, il culto dei quali non era di alcun dispendio allo Stato o di aggravio ai popoli, consigliò uno spergiuro, qual era la rivocazione dell’editto di Nantes e le stragi degli eretici.

Invece Frà Paolo dotto nelle scienze ecclesiastiche come Bossuet, e di lui più dotto e più filosofo in altri rami di sapere, nella lunga sua vita non ebbe mai contese con nissuno; amò tutti i buoni, odiò tutti i perversi senza distinguere a qual corpo si appartenessero; uomo di Stato, consigliò la tolleranza di tutte le opinioni, quando non turbino la società; teologo profondo, ma non fanatico, vide sempre con dispiacere le controversie su punti oscuri di dogma che nulla importano alla sostanza della carità cristiana, primo dogma stabilito nell’Evangelio; per [p. 283 modifica]sentimento di giustizia, non per speranza di lucri o di onori (chè la Repubblica non avea come Luigi XIV vescovati da conferire), difese le ragioni della sua patria e ricusò gli emolumenti che la pubblica gratitudine volle assegnargli; perseguitato da una Corte nemica, oltraggiato nella fama, insidiato col ferro e col veleno, ne prese la più nobile vendetta, il silenzio. E se è per questo che Bossuet lo chiama un eretico in cocolla, bisogna ben compiangere quel prelato che non sia stato eretico anch’egli.