Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo XV

Capo XV.

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CAPO DECIMOQUINTO.


(1607). I gusti di un popolo sono una conseguenza immediata del clima e delle sensazioni continue prodotte in lui dagli oggetti che abitualmente lo circondano, e la educazione civile o la barbarie li modificano in meglio o in peggio, ma non distruggono il tipo originale stabilito dalle leggi istesse della natura che sono immutabili: quindi come tutte le instituzioni così anco la religione deve piegare le sue forme esterne a seconda de’ varii gusti nazionali.

La natura in Italia è ricchissima, ma non così generosa che non convenga forzarla a dare le sue ricchezze; è splendida, ma non tanto romanzesca che solletichi la fantasia ad animarla colle sue creazioni. Perciò l’Italiano avendo contratta l’abitudine di tutto assoggettare a calcolo materiale, non vorrebbe patire il tedio di cercare fuori del mondo una divinità misteriosa quando può agevolmente procacciarsene una palpabile e più domestica, alla quale attribuendo una parte delle sue passioni, gli pare che possa meglio indurla ne’ suoi desiderii usando i mezzi che più commovono i potenti, preghiere e doni.

Il cristianesimo propriamente parlando non è che il deismo dichiarato dalla rivelazione; tra l’Ente Supremo, unico oggetto di adorazione, e l’uomo, [p. 302 modifica]non ammette divinità intermedia: ma questo culto così semplice esige per essere concepito una profonda applicazione della mente, da cui aborrono le moltitudini, le quali giudicando il governo del mondo invisibile da quello che vedesi nel mondo materiale, divisero la terra fra varii Iddii come è divisa fra varie nazioni, e supposero negli Dei varietà di occupazioni, e gerarchie e gradi infimi o supremi come nel mondo. La mitologia del moderno politeismo, figlia di freddi pensamenti monastici, cede a gran pezza alle antiche ingegnose finzioni onde poeti e filosofi velarono con belle allegorie reconditi arcani della natura o misteri di religione; perchè il gusto de’ popoli nelle età di mezzo non era un gusto vergine come in quelli della antichità, i quali dallo stato di natura erano coi sussidi della religione e della poesia avviati verso la civiltà; ma grossolano per stupidità di genio e depravato da reliquie multiformi di tradizioni quali potevano essere in una società scomposta e inselvatichita da violenti vicende, e in cui a misura che impallidivano le cognizioni e dileguavano le lettere di una generazione civile, subentravano disordinate e confuse le memorie e i costumi di cento generazioni barbare. Ivi dunque vivendo gli uomini nella povertà e nello stento e in uno stato di guerra continuo, senza agricoltura, senza arti, senza i comodi della vita e i diletti della libertà, circondati ovunque da solitudini, prostrati dalle pestilenze e dalle fami, atterriti dai portenti della natura di cui ignoravano le cause, mancò ogni calore alla immaginazione, ingelidì il pensiero, e, incapace di seguire le sublimi [p. 303 modifica]inspirazioni del cristianesimo, si abbassò ad una servile imitazione del vecchio politeismo. Furono quindi mutati i nomi alle divinità, ma restarono i loro attributi; così in Roma la Bona Dea fu convertita in Santa Maria Aventina, Venere vittoriosa in Santa Maria alla fossa dipinta, Iside in Santa Maria in Equirio, Vesta in Santa Maria delle grazie, Minerva in Santa Maria sopra Minerva; Apollo fu mutato in Sant’Apollinare, Marzia in Santa Martina, e furono canonizzati San Bacco, San Quirino, Santa Romola e Redempta, Santa Concordia, Santa Ninfa, così detta la ninfa Egeria, San Mercurio; il Panteon, tempio dedicato a tutti gli Dei, fu dedicato a tutti i santi; a Minerva Dea degli scienziati fu sostituita Santa Caterina, a Lucina Sant’Anna, a Vulcano Sant’Elgio, a Diana Sant’Uberto, ai Dioscuri Sant’Ermo, a Pane San Vendelino, a Marte San Giorgio, ad Esculapio San Luca; non parlo degli Iddii che presiedono alle malattie; non degli Dei particolari ad ogni popolo cristiano, dei patroni di ogni città o villaggio, dei Lari a cui ogni casa ed ogni individuo presta una privilegiata devozione. Siccome il diritto di canonizzare i santi apparteneva al volgo, è ben da credere che abbia canonizzato dei santi piuttosto ridicoli: per esempio il monte Socrate, presso a Roma, già consecrato ad Apollo, fu mutato egli stesso in un S. Oracte che poi diventò S. Oreste; e di una foggia di tabarro di Sant’Albano detta amfibolo, fu fatto un Sant’Amfibolo vescovo e martire.

Questi piccioli disordini indussero da prima i vescovi, poscia i papi ad arrogarsi esclusivamente il [p. 304 modifica]diritto di patentare i santi, e di assegnar loro il grado di santità e di venerazione che si meritano, ossia di creare divinità popolari. Nel 993 Giovanni XV fu il primo papa che esercitasse questo diritto nella canonizzazione di Sant’Uldarico vescovo di Augusta; poi nel 1179 papa Alessandro III decretò che nissuno debba essere tenuto e venerato per santo, quand’anco faccia miracoli, senza l’autorità del romano pontefice.

Oltre a questa divisione degli attributi divini rimessi ad uomini innalzati agli onori della apoteosi, la religione romana, consigliata da un gusto più raffinato, accettò dal paganesimo gli abiti sacerdotali, i riti, le solennità, le pompe tutte che riguardano il culto esterno: tutto ciò che possono fornire le arti del disegno o della musica, tutto ciò che può dilettare la squisitezza de’ sensi ed esilarare lo spirito, fu associato al cattolicismo, a tal che culto cattolico e culto delle belle arti sono quasi sinonimi.

Gl’Italiani si sono come identificati a questa maniera di religione: gli uomini colti vi trovano quello che è vero, e le moltitudini quello che piace; ma gli uni e gli altri l’approvano conforme al gusto nazionale: e qualunque possa essere il sistema religioso che governerà i nostri discendenti da qui a venti secoli, io oso dire che le sue forme esterne saranno a un dipresso le medesime di quelle di adesso e di quelle che già furono venti secoli innanzi.

Poste in non cale queste considerazioni, i protestanti, massime i riformati di Ginevra, giudicarono [p. 305 modifica]che l’interdetto fosse principio ad una rivoluzione religiosa in Italia, e un varco aperto alle conquiste della loro sêtta. Senza disputare coi teologi se il papa o Calvino abbia ragione, io penso, per le ragioni sopraddette, che il culto del secondo, arido e metafisico, non potrebbe mai prosperare in Italia; e meno di tutto lo poteva a Venezia, dove la religione alla Vergine e ai Santi, e le consolazioni del purgatorio, e le solennità dei riti erano condizionati al modo di vivere di quel popolo; e quand’anco la Repubblica si fosse separata dal papa, il suo sistema religioso sarebbe pur sempre restato il medesimo.

Con tutto ciò i calvinisti immaginavano che Venezia diventerebbe il contro-altare del papato in Italia, e già pareva a loro di vedere arsi o spezzati i simulacri e calpestate le reliquie, e che Frà Paolo sarebbe il profeta di nuovo culto, e suoi discepoli i senatori, e il popolo tutto odio contra i preti e frati. Fra loro si congratulavano, si scrivevano lettere, facevano pronostici; e la smania di far proseliti essendo una febbre di tutte le religioni nuove, massime quando lo spirito di propaganda, è concitato dal pensiero di nuocere a sêtta rivale, vi furono zelanti uomini i quali corsero da Ginevra a Venezia sfidando i pericoli del Sant’Offizio che poteva coglierli in flagranti nei paesi per cui passavano; e senza lasciarsi disingannare dallo stato diverso delle cose si pascevano tuttavia di bizzarrie, ed ogni facezia che udivano contro il papa, ogni motteggio contro la sua Corte erano raccolti da loro [p. 306 modifica]con entusiasmo e considerati come infallibili segni di cadente cattolicismo. Il celebre Giovanni Diodati ministro di Ginevra n’era così persuaso, che in quell’anno 1607 pubblicò a bella posta una nuova edizione della sua Bibbia elegantemente tradotta in lingua italiana, sperando d’introdurla in Venezia a profitto della sua comunione.

Queste cose si sapevano a Roma e tenevano molto agitata la Corte. Le lodi de’ protestanti a Frà Paolo erano pei Curiali altrettante prove che egli inclinava all’eresia, e che intendeva seriamente a introdurla in Venezia. Ad impedire il qual danno ricorsero ai consueti artifizi. Pensavano che uscito vincitore di lotta cotanto difficile, il suo amor proprio da quel lato potesse essere pago; e che continuando essi nel loro sistema di seduzione, sarebbono riusciti a carrucolarlo a Roma, dove o il Sarpi si ritrattava, e la Corte otteneva un pieno trionfo; o persisteva, ed ella ne traeva una luminosa vendetta. Speravano eziandio che a forza di avvilupparlo in pratiche secrete, avrebbono raggiunti i mezzi di renderlo sospetto al governo, e di difficoltare la sua posizione in modo che da qualunque lato si volgesse, fosse egualmente perduto.

Le qualità personali e la parte onorevole che aveva rappresentato il cardinale di Gioiosa ci lasciano credere ch’e’ fosse ignaro di codesti tortuosi intrighi, ed operasse di piena buona fede e per amore della concordia quando prima di abbandonar Venezia fece intendere al Sarpi, per mezzo dell’ambasciatore Dufresne, che nutriva desiderio di parlargli avendo [p. 307 modifica]alcune cose a dirgli in particolare; ma il frate che era penetrativo e indovinava presso a poco intorno a che si aggirerebbe il colloquio e le conseguenze che poteva produrre, ne informò subito il Collegio, il quale rimise alla sua prudenza il risolvere. Ed e’ fece considerare che essendo egli un semplice frate e trovandosi a fronte un cardinale di così gran nome, ad un abboccamento in quattr’occhi, qualunque fossero i ragionamenti, non essendovi testimoni, era in arbitrio altrui di ampliarli o ristringerli o commentarli a talento; per esempio si sarebbe potuto spacciare ch’e’ si fosse scusato dicendo di avere scritto per forza e contro il suo parere, che avesse biasimata la durezza del Senato, o che si fosse ritrattato, od altro poco conveniente al suo ed al decoro pubblico. Il Collegio decise, non vi andasse.

E i Curiali facendo sparger voce che a Roma volevano scomunicarlo, se non andava a giustificarsi, Frà Paolo fece una scrittura in cui raccolse gran numero di eresie formali e dottrine perniciose insegnate nei loro libri dagli scrittori pontificii, vi appose a riscontro le sentenze della Scrittura, dei concilii, dei Padri della Chiesa e degli stessi pontefici: aggiungendo che quanto a lui non era alieno dal comparire, a condizione che, lasciate a parte le espressioni vaghe di proposizioni eretiche, erronee, scandalose, offensive delle orecchie pie, le quali buttate così in globo significano niente; nella citatoria dichiarassero le proposizioni dannevoli estraendole singolarmente da’ suoi libri al modo ch’egli [p. 308 modifica]aveva fatto di quelle degli altri; e che gli fosse assegnato luogo in paese cattolico dove fosse accertata l’imparzialità del giudicio e impedita a’ giudici la violenza. Del resto poco gl’importando con chi disputar dovesse, da chiunque gli fosse mostrato il suo errore, egli si protestava prontissimo a ritrattarsene.

Questa scrittura consegnò a Francesco Contarini, che fu poi doge e che andava ambasciatore a Roma. Il Contarini la fece vedere confidenzialmente ora all’uno ora all’altro, finchè per questa via indiretta giunse anco a cognizione del pontefice, il quale non avendo voglia di mescolarsi in una nuova discussione di principii che poteva inferire a confronti svantaggiosi, e sollevare una controversia forse più pericolosa della antecedente, volle che per quel momento non se ne parlasse altro; e soltanto fu fatta correr voce che la scomunica era stata fulminata in secreto.

In questo mezzo andava nunzio del papa a Venezia Berlinghiero Gessi, vescovo di Rimini, poi cardinale ed uno dei sette sapienti che condannarono venticinque anni dopo il Galileo per la famosa eresia del moto della terra e immobilità del sole. A lui il papa aveva dato istruzioni prudentissime: «A me pare, gli diceva, di poterle ricordare che convenga procedere con lenità, e che quel gran corpo voglia essere curato con mano paterna». Ma pure gli premeva assaissimo di avere in mano il terribile frate, e gli raccomandò caldamente di fare in modo che lui e Giovanni Marsiglio e gli [p. 309 modifica]altri seduttori fossero consegnati al Sant’Offizio o almeno abbandonati dalla Repubblica e privati dello stipendio. Ma il nunzio trovò così spinoso il negozio che volle neppure tentarlo.

Saggiò altra via. Chiese al Collegio un abboccacamento con Frà Paolo, dicendo essere così convenuto coll’ambasciatore Contarini. Il Collegio volle prima udire il Sarpi, il quale mostrò essere non minori inconvenienti in questo caso che in quello del Gioiosa. Ciò nondimeno volendosi compiacere il nunzio, trattarono i Savii la formola del colloquio, le cose da evitarsi, quelle a cui si poteva rispondere; ma sursero tante difficoltà perchè non potevano indovinare ciò che passasse per la testa a monsignor Gessi, che finirono a concluder niente.

Non perciò la Corte si scoraggiva; ma ogni qualvolta dovessero andare o passare per Venezia prelati di qualità, a tutti dava commissione di cogliere qualche pretesto onde vedere il Sarpi, e tastarlo, e tentare di fargli abbandonare il servizio della Repubblica sempre mettendogli innanzi la clemenza del papa, gli onori che poteva dar Roma, il pericolo de’ suoi fulmini, la volubilità dei governi, e la vanità del patrocinio accordatogli che poteva mancare coi tempi e cogli interessi. I più dovettero visitarlo nella sua cella; pure alcuni andò egli a trovare, invitato, a casa loro quando estimò che non correva alcun rischio; ma a tutti apparve sempre dello stesso parere. Anco il cardinale Pinelli inquisitore generale a Roma gli fece scrivere dal procuratore dei Serviti, esortandolo che colà andasse dove sarebbe bene [p. 310 modifica]accarezzato e terminerebbe la sua causa con soddisfazione propria e della Repubblica. Ma il frate che conosceva le arti, non si lasciò prendere.

Intanto lo zelo, il disinteresse e la prudenza con cui si era comportato ne’ passati negozi gli meritarono la più ampia confidenza del governo. Il quale volendo da prima rimunerare quelli che più fedelmente lo avevano servito, aggiunse 100 ducati ai 100 cui già godeva Frà Fulgenzio, e al Sarpi furono pure aumentati gli stipendi; ma di quanto, lo ignoro: se non che all’uffizio di teologo essendogli aggiunto quello di cosultore in jure, si può supporre che altri 200 ducati almeno gli fossero assegnati. E fugli aperto l’adito ai secreti archivi, materia gelosissima a Venezia, dove non mettevano i piedi se non i cancellieri e segretari di Stato vincolati al secreto da severi giuramenti. Gli archivi di Venezia erano a quei tempi, e sono ancora adesso le preziose reliquie che ne rimangono, un vasto emporio di cognizioni storiche e il più dovizioso che ancora si conoscesse. Là giacevano depositate come in occulto santuario, oltre agli atti del governo interiore e le sue relazioni e transazioni cogli esteri, le osservazioni fatte sui luoghi dagli ambasciatori, residenti e consoli che la Repubblica spediva in varie parti, e memorie di viaggiatori, e storie arcane, e lettere di diplomatici; tal che affidata al Sarpi quella immensa suppellettile di documenti statuali, si messe con ardore a studiarli e a farne indici e sunti che disposti in ordinate rubriche secondo l’ordine de’ tempi e delle materie gli servirono a [p. 311 modifica]rispondere con ammirabile celerità e precisione di fatti e circostanze a tutti i quesiti di vario genere che gli furono proposti da poi.

Ma di lì a non molto fu distratto da quei lavori, perocchè la Curia non potendo averlo vivo, si provò di averlo morto.