Arrigo il Savio/III
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III.
Il nuovo venuto era un signore smilzo, dalla faccia scarna e dalla pelle risecchita, che pareva di cartapecora; ma aveva i capelli e i baffi neri morati, veramente degni del suo cognome. Gli occhi erano grigi, e non dovevano vederci molto, perchè il conte, abbassando la testa con un atto che pareva di consuetudine, e che lo aiutava a nascondere nella cravatta le grinze del collo, si piantava, entrando nello studio di Arrigo Valenti, una lente cerchiata d’oro nella cavità dell’occhiaia destra.
Era vestito all’ultima moda, d’un soprabito nero con le rivolte di seta, la cravatta di colore, permessa soltanto di mattina ai moderni cavalieri, i calzoni grigi, di stoffa e disegno autenticamente inglesi, e finalmente un pastrano corto di panno chiaro, tra il verde oliva e il lionato.
Arrigo gli era andato incontro con molta premura.
— Conte, — diss’egli, — che fortuna è questa per me!
— Caro Valenti, — rispose quell’altro, con una vocina di chioccia infreddata e smozzicando l’erre, — dite il piacere di venire a vedervi. Ci trascurate un pochino, sapete? Speravo di vedervi a cavallo, quest’oggi, ma voi vi siete rintanato in casa, mio bel tenebroso! Perciò sono venuto a scovarvi, e devo a questa amichevole risoluzione la vista di un piedino meraviglioso. Finora, in parola d’onore, di piedini così belli non ne avevo veduto che in casa mia.
— Che dite mai, conte? — esclamò Arrigo, sconcertato dal paragone.
— Sì, proprio; — continuò il Ganimede; — se non avessi veduto che il piedino, avrei giurato che fosse quello di mia moglie. Ma la dama che ho veduta qui presso, in via Sallustiana, era vestita di color marrone. Ora la contessa odia i marroni; non può soffrire neanche il colore. —
Cesare Gonzaga osservò che suo nipote era sulle spine. Via Sallustiana, la scala di là, il colloquio d’affari, gli si affacciarono alla mente collegati per un filo arcano alla dama del piedino maraviglioso.
— Conte, — diceva frattanto Arrigo, per rompere quel discorso così poco piacevole, — permettete che vi presenti mio zio, giunto a Roma stamane.
— Ah, l’aspettato, il desiderato marchese Gonzaga? Fortunatissimo di conoscerla! — disse il conte Morati.
— Sì, conte; — rispose il vecchio inchinandosi. — Cesare Gonzaga, per obbedirla, ma senza il titolo che la sua bontà mi attribuisce.
— Zio, ci hai diritto; — entrò a dire Arrigo, che non poteva mandar giù quella rinunzia alla corona marchionale. — Sei l’ultimo dei Gonzaga di Luzzara, e questi sono sempre stati marchesi. In casa tua c’era anche lalbero genealogico.
— Ah, l’albero! — rispose il vecchio ridendo. — Sì, c’era, in casa; ma il giorno che non diede più frutto, mano alla scure, e ziffe! Ho bruciato l’albero, signor conte, e mi son rifatto modestamente dal ceppo.
— Ella è molto ricco, da quanto mi ha detto Arrigo; — notò il conte Morati. — È un’altra bella cosa. Io, per dirle la verità, vado allegramente in rovina. —
E sedette, il vecchio Ganimede, facendosi una spagnoletta.
— Diamine! — pensò Cesare Gonzaga. — Debbo io tirar fuori il portafogli, o tenerlo ben chiuso in tasca?
— Ma intendiamoci, — proseguiva il conte, scherzando con le parole come le sua dita scherzavano con la carta velina, — adagino, senza fretta. Non ho figli, nè conto di averne per ora. E mi verrà forse il desiderio, più tardi? Io già non li amo, i ragazzi. Quando sarò più avanti con gli anni, chi lo sa? Basta, mio caro Valenti, — soggiunse il conte, accostando la spagnoletta alla fiamma della candela, che Arrigo gli aveva premurosamente accesa, — ho veduto, venendo da voi, il più bel piede d’Italia. E poco dopo, davanti al vostro portone, i due più bei cavalli d’Inghilterra. Vengono, nientedimeno, dalle scuderie del duca di Blackborne. Li possiede il Meissner, che se ne va da Roma e vuol venderli. Che stupendi animali! Il piedino mi è sfuggito, perchè entrava allora in un brumme, che andò via di galoppo; ma i cavalli, perbacco, non dovrebbero sfuggirmi. Appena uscito da voi, passo dal mio ministro delle finanze, e se ha danari in cassa, mi slancio a conquistar la pariglia.
— Conte, — disse Arrigo, che aveva frattanto ricuperata la sua calma, — se il vostro ministro delle finanze tenesse fermo sulle economie, ricordate che la mia cassa è ai vostri comandi.
— Grazie, Valenti, grazie infinite.
— Accettate, dunque?
— Accetterei, dato il caso; ma il caso non si darà. Il mio ministro è un brav’uomo; mi rizza un po’ il muso, quando mi vede dare certi strappi; ma poi si rimette, e quando non ne ha più, è segno che ne ha ancora. È un ministro prezioso, in fede mia! Venite a pranzo da noi, quest’oggi? La cosa spiacerà un pochino a mia moglie, che non vi ha tra le sue simpatie; ma non importa, rideremo. —
Cesare Gonzaga stava ascoltando a bocca aperta quello strano personaggio, che sfringuellava con tanta leggerezza i fatti suoi. Ma quando il signor conte venne a parlare delle antipatie della moglie, non seppe più trattenere una piccola osservazione.
— Arrigo, ti fai dunque odiare a questo modo?
— Non badi; — rispose il conte. — Si tratta di capricci, di ubbìe femminili. La contessa stima molto il mio amico Valenti, ma le pare troppo serio, troppo asciutto, e che so io. Del resto, mio caro Arrigo, penso anch’io che Giovanna abbia un po’ di ragione. Siete troppo grave, troppo asciutto, troppo savio, per la vostra età. Si direbbe che non siate mai stato giovane.
— Proverò a diventarlo poi; — rispose Arrigo, sorridendo pacatamente, come un dio dell’Olimpo.
— Ah, meno male! Venite dunque?
— Conte, quest’oggi è impossibile. Mio zio è arrivato stamane.
— È vero, non ci avevo pensato; bisogna star con lo zio. Ma più tardi, almeno, per il tè? Presentiamo lo zio alla contessa, e son certo che le piacerà più del nipote. Accetta, signor Gonzaga?
— La bandiera ha dunque da coprire la merce? — disse lo zio Cesare. — Bandiera vecchia, ahimè! —
Il conte fece una spallucciata, a quelle parole del Gonzaga.
— Vecchia? Eh via! — esclamò. — C’è egli dei vecchi tra noi, se escludiamo suo nipote? Badi, dunque, annunzio la sua visita. Ella troverà molta gente, quel che ci vuole per esser più liberi. Avremo parecchie tra le celebrità femminili di Roma, che, in punto di donne, ha sempre l’impero del mondo; per esempio la Savelli, bellezza stagionata, se vogliamo, ma solida; la Carini, che è sempre tanto carina; la Manfredi, che è un fiore appena sbocciato.... —
Arrigo a quel punto interruppe la rassegna, che poteva diventar lunga come quella delle navi, in Omero.
— Verranno i Manfredi? — diss’egli. — Senti, zio? Ecco una buona occasione per te. —
Lo zio Cesare, che quel lieve accenno ad un fiore appena sbocciato aveva già fatto fremere, sollevò lentamente il petto, come per chiuder la via ad un sospiro; poi crollando la testa, rispose:
— Ti pare? Non ho ancora veduto Andrea.
— Conosce il senatore Manfredi? — gridò il conte Morati di Castelbianco. — Un uomo d’oro, al proprio e al figurato!
— Se lo conosco! — rispose Cesare Gonzaga, mettendo quella volta liberamente il sospiro che aveva trattenuto da prima. — Andrea Manfredi fu il mio amico di gioventù, il mio compagno di studi, il mio fratello d’armi. Abbiamo combattuto insieme, in questa Roma divina! Che direbbe ella dei fatti miei, signor conte, se io, amico suo da tanti anni e ritornato finalmente nella città dov’ella abita, la dovessi combinare in casa d’altri, senza esser venuto direttamente, prontamente, a cercarla?
— Eh via, zio! — entrò a dir Arrigo. — Ci vai dopo colazione, e il colpo è fatto.
— Arrigo consiglia bene, come sempre; — notò il conte. — È veramente Arrigo il savio; lo ascolti. Siamo dunque intesi; a rivederla questa sera, e lietissimo della fortunata occasione. Addio, Arrigo! Vado dal ministro delle finanze, per quella pariglia che mi sta sul cuore.... come quel piedino di fata.
— Sempre? — disse Arrigo, ridendo per quella volta liberamente.
— Che ci volete fare? Sono un povero peccatore che il diavolo ha sempre pigliato dai piedi. —
E se ne andò, ridendo della sua frase, che gli era parsa argutissima.
Rimasto solo con Arrigo, il vecchio Gonzaga si piantò davanti al nipote e gli ficcò addosso gli occhi scrutatori.
— Dimmi, Arrigo.... il piedino di via Sallustiana....
— Non mi chieder nulla, zio; — rispose quell’altro. — Il Castelbianco mi aveva fatto da principio una gran paura. E adesso, poi, adesso che son vicino a ricogliere il fiato!... Se tu non fossi venuto quest’oggi, direi che è un giorno nefasto.
— Ma lui.... il conte....
— Corteggia le ballerine, le mime, le cavallerizze. Ha sessant’anni e tinge disperatamente. È una caricatura.
— Eh, l’ho veduto. E facendo ridere, il che è già brutto, va anche in rovina?
— Non lo credere; — rispose Arrigo. — È un suo vezzo di parlare così, un ticchio di gran signore. Ne ha spesi molti, in gioventù, ma ancora oggi può valere un paio di milioni. Ed è conte.
— Che cosa vuol dire?
— Vuol dire moltissimo, zio. Anzi, vedi, ti prego di non incocciarti nella tua democrazia, che fa a pugni col tuo casato. Qui il disprezzo dei titoli non è di moda. Chi ne ha uno lo inalbera; chi non l’ha lo inventa. I titoli nobiliari son tutto, perfino negli affari, ove non dovrebbero aver valore che quelli di banca. Non si fa un consiglio d’amministrazione di miniere, di strade ferrate, di vapori e via discorrendo, che non ci mettano una mezza dozzina di corone. Non fanno nulla; ne ho sentiti io che dicevano cose... dell’altro mondo; ma non importa, ci stanno bene, decorano. Ed anche nelle livree, senti, una corona non guasta.
— Che follìe! — esclamò il Gonzaga.
— Follìe! — Lo dici tu, che ritorni dall’India. Ma il nostro mondo occidentale è fatto così; prendiamolo com’è. —
Il vecchio Gonzaga stette alquanto sopra di sè; poi disse, con accento malinconico:
— Arrigo, Arrigo, sei tu che parli così? La nobiltà del sentire e dell’operare, quella è la vera. Anch’io amo i bei nomi.... quando sono portati bene da non degeneri nipoti. Ma poi, vedi, la penso come Isocrate. Ti parrà strano che io venga dall’India per citarti Isocrate; ma non ti stupire, è un ricordo di scuola. Per Isocrate, adunque, la nobiltà risiedendo tutta nel capostipite e derivando da lui, valeva meglio che l’uomo fosse egli capostipite della propria. Chi erano gli antenati di Pipino d’Heristal? Se ne conosce uno, uomo dappoco, e solo da Pipino d’Heristal incomincia il lustro dalla casata. Aggiungi a questo Pipino la gloria di altri due nomi, Carlo Martello e Carlo Magno, perchè io ti ho voluto citare l’esempio più favorevole alla tua tesi; e che cosa vien poi? che cosa rimane della stirpe nobilissima? Un branco di sciocchi. Dunque, ragazzo mio, non ci vantiamo tanto di una nobiltà che non è discesa “per li rami„ e cerchiamo invece di fabbricarcene una, che sia ben nostra, e frutto di azioni virtuose. —
Arrigo Valenti non la intendeva così.
— Parole! — mormorò egli. — Ma nel fatto....
— Orvia, non voglio sentir altro! — gridò Cesare Gonzaga, che incominciava a perdere la pazienza. — Vedi, Arrigo, se tu non amassi, la qual cosa mi riconcilia un pochino con te, ti crederei diventato cattivo.
— Amo, sì! — disse il giovane, — e appunto perciò ti ho pregato di venire a Roma.
— Alla buon’ora! E in che modo potrei servirti io?
— Presentandomi in casa Manfredi.
— Oh! — disse lo zio, inarcando le ciglia. — E dovevo venir io a bella posta dall’India?
— Come per citarmi Isocrate, sicuro. Ecco qua, zio, lo stato delle cose.
Il senatore Manfredi è molto sostenuto con me. Con tutte le mie relazioni, con tutti i miei denari, non mi riesce di penetrare in quella casa. Ci troviamo spesso insieme, ora in una conversazione, ora in una festa da ballo; ma niente mi serve; il banchiere senatore è sempre di ghiaccio con me, ed io non ho potuto ancora rompere quel ghiaccio. —
Cesare Gonzaga era stato a sentire attentamente il discorso di suo nipote. Appena questi ebbe finita la sua esposizione, il vecchio rimase un pochino sovra pensiero, masticando qualche frase, che stentava ad uscirgli di bocca.
— Parliamoci schietto; — diss’egli finalmente. — Saresti in qualche cosa venuto meno a certi principii?... Andrea, se è sempre l’uomo che io ho conosciuto, su certe materie non ischerza.
— Zio, — rispose Arrigo con accento sicuro, — non ho mai fatto cosa di cui debba arrossire. Ho imparato da ragazzo a meditare sulle mie azioni, e se sono venuto al punto di non far mai se non quello che metteva conto a me, credi pure che ci sono riuscito senza offendere il diritto degli altri. Il Manfredi non mi ha in grazia. Perchè? Lo saprà lui; fors’anche non lo saprà. Ci sono qualche volta delle antipatie irragionevoli. A buon conto, egli non sa che io sia tuo nipote, nè io ho creduto prudente di dirglielo, amando meglio di aspettare, per ferire un gran colpo. Una sera, in casa Savelli, me presente, ricordando nomi ed uomini del passato, egli venne a parlare di te, e il suo gelo si squagliò come per incanto; ti citò come un esempio di alto carattere, come un modello di amico; insomma, ne disse tante, che lasciò tutti maravigliati, non solamente dei tuoi meriti, ma anche della sua eloquenza. In verità, non ne aveva mai sfoderata tanta in Senato.
— E allora, — osservò il Gonzaga, ridendo — ti è venuto in mente di chiamare a Roma quel fior di virtù? Guasti pur troppo la bella immagine che io m’ero formata dell’amor tuo. Bene! bene! La gioventù è sempre un pochino egoista. Già, per dirtela schietta, mio caro nipote, in parecchie cose ti vorrei vedere, per la tua età, meno uomo. È una mia idea, ed avremo tempo a discorrerne. Dimmi, invece, come e perchè ho da servirti io, presso il banchiere Manfredi? Di credito non ne hai bisogno, a quanto so. Vorresti forse entrare in qualche operazione bancaria con lui?
— Ha una figlia; — rispose Arrigo.
— Ah! Il fiore appena sbocciato; — disse lo zio Cesare, sospirando da capo. — E l’ami?
— La voglio.
— È un po’ diverso, ma potrebb’essere, in certi casi, lo stesso. Ma, scusami, e quell’altra? Povera donna....
— Oh, Dio mio! Ce ne son tante, di queste povere donne!
— E perchè ce ne son tante, tu vorresti aggiungerne un’altra?
— Infine, — disse Arrigo, vedendo che lo zio si rabbruscava, — non credere che ella mi ami. Mi ha detto, anzi, che tutto ha da finire tra noi.
— Giuramelo! che cos’hai di più sacro?
— Per la memoria di mia madre; — rispose Arrigo.
Il vecchio si rasserenò, udendo l’invocazione, che non poteva essere bugiarda.
— Quand’è così; — riprese, — tanto meglio! In fondo, non mi mettevo io a predicare la costanza.... nella illegalità? Bei consigli da vecchio! Or dunque, mio bell’Arrigo, sebbene mi dispiaccia un pochino di rifar la vita dei salotti e delle conversazioni, spendimi pure; sarò il tuo uomo.
E dimmi, ci sono già vincoli, in aria?
— No, — disse Arrigo, che aveva capito a volo, — ma potrebbero venire.
C’è un conte che mi dà noia.
— Sei amato?
— Credo.
— Ma bravo! E navighi così, tra questa e quella, tra la riva e gli scogli?
— Credi, buon zio, che sono assai più vicino alla riva.
— Ehm! — rispose il Gonzaga. — Se debbo giudicarne da poco fa, tu rasenti ancora troppo gli scogli. —
Arrigo diede in uno scoppio di risa. Passato il pericolo, anche un marinaio può ridere così.
— Caro zio! — esclamò egli, abbracciando il vecchio cortese. — Sei giovane, tu, pieno di fuoco. Ci scommetto che a te piacerebbe più lo scoglio, anche a rischio di dare in secco.
— In secco, no! — rispose lo zio Cesare. — Ma via, non mi far parlare... come il tuo conte di Castelbianco. —
Ridevano le due età, così lontane l’una dall’altra, che la voce del sangue aveva ravvicinate. Arrigo Valenti intravvedeva la vittoria e già gli pareva di metterle la mano nei capegli. Cesare Gonzaga era in fondo un po’ triste, perchè aveva trovato il suo nipote troppo savio, troppo calcolatore, forse per eredità di esempi paterni; ma infine, ci aveva trovato anche qualche sentimento gentile, soave eredità di sua madre, che gli affari di banca e le vanità sociali non avevano intieramente soffocato. Del resto, egli era venuto, e con la sua autorità di zio sperava di richiamarlo sul retto sentiero. Arrigo, a buon conto, era ancor giovane, e amava la figliuola di Andrea Manfredi, del suo amico, del suo compagno di studi, del suo fratello d’armi, del suo....
Ma un’altra scampanellata all’uscio di casa interruppe la conversazione dei due personaggi, ed è giusto che interrompa anche il periodo al narratore.
Ritornava il signor Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, cavaliere compitissimo e disgraziato per giunta. In un’ora aveva dato sesto alle cose sue, e giungeva trafelato, quantunque fosse andato e tornato in carrozza.
— Sono allegri! — diss’egli, entrando nello studio e trovando zio e nipote ancora in atto di ridere.
— Ma sì; — rispose Arrigo. — E tu, Orazio, hai una cera da funerale. —
Orazio Ceprani tentennò malinconicamente la testa.
— Eh, credi, caro mio, — rispose egli, — che ottantamila lire non sono come un mucchio di soldi nella scodella di un cieco. Che liquidazione si prepara! Anche tu, scusami, non hai mica da stare allegro!
— Perchè? — chiese Arrigo, chiudendo gli occhi a mezzo e allungando le labbra, con quell’aria di cortese ironia che abbiamo già veduto, al suo primo apparire nello studio.
— Perchè il Verni è fuggito, a quanto dicono, e credo ti levi di tasca un ventimila lire.
— Una bella somma! — notò Cesare Gonzaga. — Una povera famiglia ci camperebbe dieci anni.
— Pazienza! — rispose Arrigo, sorridendo ancora, sorridendo sempre. — Il Verni, per tua norma, io lo avevo già calcolato tra i dubbi. Caro mio, non ci ha da esser niente di impreveduto nella vita di un uomo. Si studiano dapprima tutte le probabilità, favorevoli e contrarie, e poi si giuoca la posta. Così, vedi, Orazio, questa perdita io l’avevo preveduta. Ho venduto a lui, sapendo in anticipazione di perdere, per non aver l’aria di un taccagno. Il Verni frequentava la migliore società. Ora, ecco un uomo in mare. Me ne duole per lui; quanto alla perdita.... —
In quel momento Happy era comparso sull’uscio per dire:
— Il signor cavaliere è servito.
— Sta bene, — ripigliò Arrigo Valenti. — Quanto alla perdita, essa non c’impedirà di fare una buona colazione, se il cuoco non è fuggito, o non ha perduta la testa. Zio, per farti strada! —
E passò avanti, il felice Arrigo, e gli altri due lo seguirono nella sala da pranzo.