Anime oneste/IV
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TRE ANNI DOPO
Quindi Cesario dovette servire invece di lui, interrompendo gli studi, giacchè non era per anco riuscito a prendere la licenza liceale.
Sulle prime soffrì orribilmente. Scriveva lettere tristi, e senza le sovvenzioni segrete di sua madre, che gli permettevano di vivere forse più in lusso dei suoi aborriti superiori, avrebbe commesso qualche pazzia.
Ma la disciplina e le marcie forzate lo consumavano, senza domarlo. Era partito con le febbri, — tornò in permesso quasi moribondo e ci fu un momento in cui si temè della sua vita. Così ottenne un permesso di tre mesi, durante l’estate seguente. Ma a poco a poco si ristabilì; passò sotto-ufficiale, passò ufficiale di complemento e allora nel gajo bagliore delle spalline credè di essere diventato un personaggio importante.
Nell’ultimo mese che trascorse ad Orolà Cesario divenne di moda. Era d’una strana bellezza, pallido, affilato, con gli occhi affossati e lividi, gli occhi ch’erano tutto un mistero dietro il cristallo lampeggiante degli occhialini d’oro.
Il tintinnio metallico della sua lunga sciabola dava un fremito a tutte le belle ragazze della città, — così che Gonario Rosa, il compagno, l’amico indivisibile di Cesario, scompariva al suo fianco. Eppure Gonario, che era molto ricco e bello, era stato sempre tenuto in conto di un conquistatore. Ci fu un momento in cui Cesario deliberò di seguire la carriera militare, recandosi alla scuola di Caserta, per studiare e passare ufficiale effettivo. Oppure di accelerare i suoi studi in medicina per farsi medico militare.
Ma ad un tratto s’innamorò di una signorina.... povera. Non ostante le sue pose e il suo scetticismo, Cesario s’innamorava facilmente, dimenticando le une per le altre. Questa voltà s’innamorò talmente che abbandonò i suoi progetti brillanti e ambiziosi. Far lui la dote, coi suoi beni, non ci pensò neppure. Anzi tutto i beni che potevan spettargli non raggiungevano certo il tanto voluto, e poi la famiglia non avrebbe mai acconsentito.
Tornò studente, lasciando con rammarico e con piacere confusi insieme la vita militare. Durante il servizio aveva conseguito la licenza e si era inscritto nell’Università.
Dopo molto discutere si inscrisse in giurisprudenza, tiratovi da Gonario Rosa. E partì per il continente, a Roma. In casa Velèna si fecero più economie per lui, e crebbero le speranze. Nulla era avvenuto laggiù in tre anni.
La vita era sempre la stessa. A vent’anni Lucia ed Angela continuavano a fare ciò che facevano a diciasette. Caterina, sebbene avesse finito le elementari, non aveva punto messo giudizio. Le sue vesti corte svolazzavano sempre in Tele’ e gardu e le sue risate salivano al cielo. Antonino, allungatosi, — aveva allora dieci anni, — pareva un po’ più serio, ma giocava sempre e Nennele gli teneva compagnia.
Anna, donn’Anna come la chiamavano le serve, soltanto Anna aveva cambiato, trasformandosi in giovinetta. Non giocava più, ma il contatto invadente di Caterina, non le permetteva ancora di essere seria e posata. Talvolta si obbliava; scendeva in Tele’ e gardu e rideva anch’essa nella gaja comitiva; ma poi se ne pentiva e si rammaricava.
Era la dolcezza e la bontà in persona, come Sebastiano, a venticinque anni, era la forza, la gioventù e l’onestà personificata.
Tuttavia non andavano più d’accordo, come nei primi tempi. Ora Sebastiano aveva riposto tutta la sua amicizia ed il suo affetto in Caterina, ed a giorni pareva non accorgersi di Anna.
A Caterina tutte le cure, tutti i sorrisi. Le serbava i frutti prelibati, la portava in groppa del suo cavallo in campagna, — a tavola le porgeva le porzioni migliori, e talvolta la conduceva a passeggio, a prendere il sorbetto, nelle sere di estate, — cosa che non faceva con Anna e con le altre sorelle.
Anna vedeva, ma non si lamentava. Sapeva bene che non gli era sorella. Non ci pensava neppure, e se ci pensava, ricordandosi le relazioni intime avute con Sebastiano il primo anno, diceva a sè stessa che se fossero continuate avrebbero potuto ingelosire le sorelle maggiori e la mamma.
E Anna voleva essere tranquilla in quella casa. Col tempo ella si era formata la giusta idea della sua posizione. Ora vedeva nitidamente ogni linea del suo avvenire. Si accorgeva che dai Velèna era ben voluta e trattata come una figlia e cercava di rendersi utile.
Forse Paolo Velèna le voleva più bene che alle sue stesse figlie. Il lavoro continuo, arido, incalzante, invecchiava Paolo innanzi tempo.
I suoi capelli imbiancavano visibilmente, e scomparivano dal suo cranio, — il pallore eburneo delle persone stanche si sovrapponeva al roseo colore del suo volto, e v’erano giorni in cui egli, dopo una corsa a cavallo, dopo una lunga assenza dalla sua casa o dopo aver scritto molte lettere, pareva vecchio di sessant’anni.
In quei giorni Anna gli dava un vero conforto.
Come la moglie così le figlie nutrivano una delicata paura verso Paolo. Mentre lo circondavano di cure restavano timide davanti a lui, che non osavano guardare liberamente. Invece Anna non aveva timore alcuno. Quando lo sentiva di cattivo umore gli si aggirava attorno, alla lontana, come spiando il vento opportuno per avvicinarsigli. Egli se ne accorgeva e cominciava a rasserenarsi. A poco a poco la fanciulla gli si avvicinava, gli chiedeva se era stizzito con lei, lo rallegrava col suo sorriso e finiva col saltargli al collo, facendogli mille moine che a lui ricordavano i bei tempi passati, quando i suoi figli erano piccini e correvano a cavallo sulle sue ginocchia. Come tutte le persone d’età, Paolo Velèna pensava che il passato era più bello del presente.
Così amava Anna teneramente, perchè spesso glielo ricordava, e già nel suo pensiero si era radicata l’idea di maritarla con Sebastiano o con Cesario. Cesario era più adatto. Perchè Anna era una signora.
Come ella si era trasformata, donde aveva preso la sua eleganza, la sua vivacità, i suoi modi perfetti?
Paolo non si accorgeva che tutto proveniva dalla squisita bontà di uno spirito lieto di vivere, pieno di sani ideali e di gentilezza.
Caterina era una bambina allegra ma forse sarebbe diventata una giovinetta triste e sentimentale perchè aveva l’anima irrequieta e la fantasia ardente. Anna era stata una bambina equilibrata, allegra o triste secondo il riflesso delle ore o dell’ambiente; così nasceva in lei la fanciulla, calma, piena di sorrisi miti e di sogni umani.
La gentilezza dei suoi vestiti e dei suoi atti proveniva forse dallo svolgimento della sua vita intima.
Anna fu tutta lieta quando, per causa sua, benchè indiretta, un buon avvenimento accadde in casa Velèna.
Fu il matrimonio di Angela.
⁂
Dopo molte seccature si era finalmente stabilita l’eredità di Donna Anna. Secondo le previsioni, ad Annicca toccò in parte il bosco di quercie, posto in una vallata, tra Orolà e il villaggio.
Paolo Velèna, col consentimento di Anna, decise di fare il taglio, e per buon augurio verso la fanciulla pensò di far festa, appunto nel bosco, il giorno della martellazione delle piante.
Perchè dovete sapere, signorine mie, che bisogna essere autorizzati dalle autorità forestali per eseguire un taglio di piante. Il proprietario non può tagliare tutti i suoi alberi: deve lasciarne un certo numero, e occorre che le piante da tagliarsi sieno martellate, cioè segnate dalle guardie forestali, guidate da un ispettore.
Quell’anno ed Orolà l’ispettore forestale era un giovinotto sardo, biondo e buontempone. Si chiamava Pietro Demeda; come impiegato era di una severità a tutta prova, tanto che molti l’odiavano. Coi Velèna, però, era in buoni rapporti, e Paolo lo trattava cortesemente per non averne dei possibili danni.
Così gli disse che per la martellazione delle piante di Anna Malvas avrebbe condotto la sua famiglia alla foresta; e l’invitò se voleva pigliar parte alla piccola festa.
Pietro accettò con entusiasmo, pensando che c’erano delle belle signorine. Egli viveva solo ad Orolà, dove non ogni giorno aveva la fortuna di chiacchierare con donne giovani e belle.
La vita arida dei caffè, di que’ ritrovi ove si dicono sempre le stesse cose, con uno sbadiglio o maligno od uggioso, gli pesava come un mantello di piombo. Solo per la speranza di far carriera e di andarsene un giorno in una grande città sopportava il peso dell’esistenza di Orolà, i cui massimi divertimenti erano le notti vegliate in cene di uomini soli, le serenate randagie sotto tutte le finestre delle belle fanciulle, o qualche scampagnata, come quella proposta da Paolo Velèna.
Il bosco distava tre ore dal paese.
Prima dell’alba, un’alba nitida di maggio, — tutti erano in piedi in casa Velèna.
Le serve erano già partite su un carro carico di masserizie e di provviste. Paolo Velèna non era vanaglorioso e non faceva mai spese inutili; ma allorchè ci si metteva una volta, eseguiva le cose a dovere. Così i vini più prelibati della sua cantina, vivande squisite e frutta rare, erano già in cammino per il bosco. La comitiva, a cavallo, partì da Orolà alle cinque del mattino.
Lucia, Angela ed Anna cavalcavano ardite e sicure, su buoni cavalli ammaestrati. Solo il cavallo di Angela era un po’ bizzoso, impaziente, ma la fanciulla lo teneva rigorosamente a freno con la sua mano bianca e forte.
Caterina sedeva in groppa del cavallo di un giovinotto invitato, e Antonio su quello di un guardaboschi.
Nennele era rimasto in casa con la mamma, e Sebastiano era assente da Orolà.
Così via, via, per le strade ancora silenziose della città, poi per lo stradale allagato dalla freschezza dello splendido mattino, la comitiva passò allegramente.
Pietro Demeda montava un bel cavallo nero, con la sella di velluto ricamata. Era vestito da cacciatore, con fucile, revolver, pistola e coltello. Anche Paolo era armato, e i cani che seguivano latrando gaiamente, davano l’illusione di una partita da caccia.
In realtà Paolo sapeva che v’erano dei cinghiali nel bosco, e la giornata poteva benissimo terminare con la caccia.
Le signorine precedevano: i signori seguivano, ragionando fra loro.
Caterina era di cattivo umore, perchè si vergognava di andar in groppa, e Anna invece sorideva, ammirando col suo istintivo gusto di artista, i radiosi miraggi del mattino. Ogni tanto le sembrava di riconoscere i luoghi ove era passata quattro anni prima.
— Ma guardate! — esclamò ad un tratto.
— Perchè invece di venir con noi è partito altrove, Sebastiano? Diventa sempre più selvaggio....
Non proseguì perchè il suo cavallo fu oltrepassato da quello di Caterina che costringeva il suo cavaliere a galoppare. Vide che Caterina, già scarmigliata, ragionava animatamente col suo compagno e sorrise pensando che la cugina cambiava facilmente d’umore. Pochi momenti prima era così triste, eccola improvvisamente allegra.
Dopo lo stradale presero una scorciatoja, attraverso una pianura palustre, ove il giunco cresceva altissimo, con le foglie rese bionde dal sole di maggio. L’odore strano del giunco e dell’acqua stagnante impregnava l’aria, e Anna, non avendo mai veduto un luogo più bello e più bizzarro di quella pianura, ricadde nelle sue fantasticherie, mentre Lucia e Angela chiacchieravano anch’esse col cavaliere di Caterina.
Ritornate sullo stradale, Anna e Lucia misero a galoppare i cavalli e si avanzarono rapidamente, finchè si stancarono. Allora, fermatesi, si voltarono, aspettando. Nello sfondo luminoso e vasto della pianura i cavalli e i cavalieri parevano piccole macchiette nere, ninnoli disegnati sullo smalto di un cristallo abbagliante. Nella gloria del sole di maggio i pascoli esultavano di fiori, e il grano delle alte spighe verdissime ondeggiavano sotto una carezza invisibile.
Giammai Anna dimenticò questa splendida mattinata.
Del resto tutti erano lieti, ebbri di verde e di sole; persino i cani parevano pazzi di gioja, e Maometto correva ogni tanto e lambiva i piedi di Anna.
Di nuovo fu lasciato lo stradale; si rasentò una boscaglia, si attraversarono due tancas, e verso le otto del mattino una sottile colonna di fumo azzurrognolo, saliente sopra la vòlta cupa di un bosco di quercie, annunziò ai viaggiatori che erano giunti.
Le serve, infatti, cucinavano già.
Smontando, Anna si sentì tutta orgogliosa di essere nel suo bosco, e il saluto delle serve che la chiamavano donn’Annicca le sembrò un omaggio.
Ma, pur troppo, per tutto il resto della giornata, nessuno parve più accorgersi che Anna era la regina della festa. Tutti i complimenti dei giovanotti, e specialmente di Pietro Demeda, venivano rivolti a Lucia ed Angela.
Anche Anna ormai era una signorina, ma era così insignificante accanto all’alta e rosea Angela ed a Lucia, bellissima, che nessuno poteva badarle. Con la treccia pendente sulle gracili spalle, ella sembrava ancora una bambina, e l’eleganza dolce della sua personcina non bastava per richiamare l’attenzione dei giovanotti.
Angela e Lucia, quel giorno, erano più belle che mai; chi dunque poteva badare ad Anna?
Ma anch’ella pareva non badasse a nessuno col pensiero assente: non aveva ella sogni, o il suo sogno era lontano di là? Difficile il saperlo, perchè sulla sua fronte purissima non passava una nube e la sua bocca sorrideva sempre.
Durante il mattino, mentre si eseguiva la martellazione delle quercie e Angela e Lucia ajutavano le donne nei preparativi pel pranzo, Caterina, Antonino e Anna giocarono all’altalena sotto le quercie. Dopo il pranzo veramente sontuoso, mentre tutti si abbandonavano ad una esagerata allegria, Anna e Caterina disparvero. Se ne andarono vicino a una fontana, fra l’erba e i fiori, e si coricarono.
— Pare l’Eden, — disse Anna.
Drappi d’ellera e di licheni avvolgevano le quercie, traverso le cui chiome il sole mandava una luce d’oro e il cielo sorrideva come un sogno diafano, lontano. Cantavano uccelli innamorati; insetti invisibili, e grosse farfalle con le ali di scarlatto orlate di smeraldi passavano alitando sugli steli alti delle serenelle campestri e dei mughetti bianchi.
Si sentivano in lontananza le voci della comitiva, e Anna con Caterina, offondate nell’erba, dopo aver detto molte cose allegre si addormentarono....
⁂
Il sole declinava quando la comitiva ripartì. Paolo pensava ostinatamente di fare un po’ di caccia al ritorno, e un guardaboschi diceva di aver veduto un piccolo cinghiale errare nel bosco. Paolo e Pietro precedettero, con la speranza di cacciar il cinghialetto. Ben presto scomparvero seguiti dai cani, e le signorine proseguirono, tranquillamente, accompagnate dagli altri invitati. Ma arrivati al confine del bosco videro che i due cacciatori non avevano trovato ancor nulla. Però i cani frugarono inquieti per le macchie e Maometto fiutava veramente il passaggio del cinghiale.
Paolo e Demeda stavano già appostati. Un pastore aveva loro confermato l’esistenza di un giovane cinghiale, che ogni sera, al crepuscolo, attraversava il bosco per andare ad abbeverarsi nella fonte, presso cui Caterina ed Anna avevano meriggiato.
— Noi restiamo qui, — disse Paolo ad Angela, — restiamo ancora una mezz’ora, chissà che Maometto possa scovare il cinghiale. Voi intanto continuate....
— Noi, intanto, — risposero ad una voce le fanciulle, — restiamo anche noi....
Rimasero. Per non intralciare la caccia si ritirarono su un’altura, procurando di stare immobili e silenziose. Anzi Anna, Lucia, Caterina e Antonino smontarono da cavallo. Solo Angela restò in sella.
— Scendi — le disse Lucia. — Ti stancherai o ti farai del male.
— Sto bene. Se vi dò disturbo me ne vado.
— Non è per questo.
Ma Angela si allontanò, fermandosi col cavallo dietro un albero, donde si dominava il bosco e la vallata. I cacciatori si erano tutti appostati. Un po’ sotto di lei Angela vide Pietro seduto dietro un cespuglio e col fucile in mano: il giovine le sorrise e la salutò.
Passò quasi mezz’ora. Le ragazze cominciarono ad annoiarsi: la sera cadeva; i cacciatori stavano sempre fermi e silenziosi e i cani andavano e venivano senza trovar mai nulla. Ferma anch’essa, Angela spiava ogni tanto il limite del sentiero; le pareva di prender parte attiva alla caccia e sentiva un crudele piacere di attesa e di ansia.
Ad un tratto ricomparve Maometto; un brivido ondeggiava per tutto il suo dorso elegante, la coda fremeva e i suoi occhi intelligenti brillavano. Paolo capì che il levriere doveva aver veduto il cinghiale.
— Va! — esclamò. Maometto ripartì come una freccia, seguito dagli altri cani.
Angela li sentì abbaiare furiosamente dietro un rialzo. Uno sparo echeggiò, poi un altro, poi un altro. Tutte le macchie dell’appostamento fremevano; l’abbajare dei cani si avvicinò e Pietro sollevò il fucile.
Il cavallo di Angela mordeva il freno, si scuoteva e sussultava. Il piccolo cinghiale, già ferito, apparve nel sentiero. Era una bestia di un anno tutt’al più, col pelo lucente, a sottili strisce nere e giallo cupo. Pietro lo prese subito di mira e sparò. Il colpo fu così improvviso, vicino e forte, che la fanciulla si spaventò: poi vide il bosco oscillarle sul capo e la vallata ballare, con le macchie, i cespugli, le pietre mosse da un turbine vorticoso. Allora gettò un grido straziante e battè la fronte su un mucchio di pietre. Il cavallo spaventato le aveva preso la mano, dandosi a una corsa pazza giù per la china e Angela era precipitata miserevolmente. Pietro aveva ucciso il cinghiale, ma la caduta di Angela avvelenò l’esito insperato della caccia.
Ci volle un quarto d’ora perchè la fanciulla riprendesse i sensi. Si era ferita gravemente alla testa, e stette quasi due settimane a letto.
Ogni giorno l’ispettore andava a trovare la cara malata, e quando non poteva andarci mandava le sue guardie a chieder notizie.
Così la tristezza dei primi giorni si cambiò in un sentimento di gioia vaga e speranzosa. In casa Velèna non osavano ancora parlare di questa speranza, ma tutti, da Paolo a Caterina vedevano bene che Pietro era innamorato di Angela e sentivano che l’avrebbe chiesta presto in isposa. Era un partito stupendo. Solo Angela pareva non accorgersene, infastidita della lunga convalescenza; ma a poco a poco la ferita si rimarginò, le fasciature furono tolte ed ella perdè l’aria di monaca medioevale che le davano le bianche bende, — e riprese la sua fisonomia, piena di ogni attrattiva moderna.
Il giorno dei santi Pietro e Paolo, Pietro Demeda mandò dei regali a Paolo Velèna, e Paolo lo invitò a pranzo. Ormai tutta la città diceva che l’ispettore s’era fidanzato con Angela. Anche Angela, si vedeva bene, era innamorata. Caterina la tormentava incessantemente. Se si trovavano nell’orto le scriveva rapidamente sotto i piedi, lungo i viali, con una canna, il nome di Pietro, — disegnava dei P. col carbone sui muri, — le dava da scegliere tre fiori per vedere qual nome sortisse e, infallibilmente, il fiore scelto da Angelo era Pietro!...
Ella godeva e soffriva. S’accorse che realmente Demeda preferiva la sua compagnia: e che al passeggio e in chiesa non cessava di guardarla: — ma intanto non aveva ancor ricevuto da lui una vera parola di amore.
Sebastiano, a sua volta, era inquieto e nervoso, sentiva e vedeva; e avrebbe voluto che Pietro Demeda o cessasse le sue visite o si spiegasse apertamente.
Un giorno rientrò pallidissimo e cupo e chiamò, conducendola nell’ultimo angolo dell’orto, una delle due serve, Agata.
Dalla finestra della camera di Cesario Anna vide per caso la scena. Sebastiano parlava a denti stretti, livido in volto, alzando ogni tanto il pugno sulla testa di Agata. Alla fine la serva trasse una lettera e gliela porse: egli la lesse, la fece a brani e diede uno spintone alla donna.
L’indomani Pietro Demeda chiese formalmente la mano di Angela. Solo più tardi Anna ebbe la spiegazione di ciò che aveva veduto.
Pietro aveva dato ad Agata una lettera per Angela; — ma Sebastiano che sorvegliava le serve, se n’era accorto.
— Dirai a quel signore, — disse ad Agata dopo aver sbranato la lettera, — che Angela Velèna ha dei buoni genitori e dei migliori fratelli. E tu stassera preparati a marciar fuori di casa....
Il primo giorno che Pietro fu ammesso in casa come fidanzato vi fu come una specie di ricevimento.
In quel giorno Anna indossò il vestito lungo. Così cominciò a ricevere qualche complimento, di cui ella sorrideva e arrossiva: i piedi le si imbrogliavano maledettamente tra il volante della sottana, e ogni tanto ella si chinava come per cercarli.
— Avanti, — le disse una volta Sebastiano passandole vicino, — pare che tu abbi acquistato del grado, ora.... Lo sappiamo benissimo che sei in età di maritarti, ora....
— Ti dispiace aver l’abito lungo? — chiese Lucia. — Alla tua età io e Angela avevamo persino dimenticato il giorno del nostro ingresso fra le signorine.... O vuoi restar sempre bambina?
— Ma che! È per l’allegria anzi, non vedi? — replicò Sebastiano, ridendo.
Anna lo guardò, adirata, e andò via con le lagrime negli occhi. Ah, si vedeva bene! Ora Sebastiano non l’amava più, e la perseguitava coi suoi frizzi, quando non le dimostrava una malvagia indifferenza. Anna si chiedeva sempre cosa mai aveva fatto per meritarsi tutto ciò, dopo la dolce benevolenza dei primi tempi. E non si accorgeva che Sebastiano l’amava.