Anime oneste/V
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CESARIO. — IL CORREDO
Pochi momenti dopo l’arrivo, i due amici eran già assieme. Che aria pallida da gran signore stanco aveva Cesario e che strano profumo di opoponax esalava la sua biancheria finissima! Fra le altre cose egli possedeva un soprabito foderato di pelliccia preziosa, e un microscopico revolver Constabulary dal manico rabescato e intarsiato di madreperla.
— A che ti serve, questo? — domandò Anna, toccando il revolver.
— Lascialo stare! — esclamò lui, quasi ruvidamente, senza risponder altro.
Anna guardò il soprabito e pensò al grosso paltò di albagio di Sebastiano. Un impercettibile sorriso le sfiorò la bocca. In quel punto entrò Gonario Rosa ed ella se ne andò, seguita da un lungo sguardo del giovinotto.
— Ma è proprio tua cugina quella? — domandò Gonario.
— Sì, anch’io non la riconoscevo quasi. Si è fatta bellina, non è vero?
— Quanti anni ha?
— Non lo so, — disse Cesario cambiando discorso. Ma Gonario insistè.
— Mi hanno detto che è fidanzata.
— Eh, sì! Non le manca che un marito. E Angela che s’è fidanzata con Demeda.
— Ah, è Angela! Ne ho tanto piacere....
Gonario, tre anni prima, era stato innamorato di Angela e di Lucia, ma ora non se ne ricordava più, come Cesario non si ricordava della nobile fanciulla che gli scriveva su carta fiorita, nè di quella che aveva troncato la sua carriera militare.
— Se tu vedessi, a Roma!... — Per tutta la sera non fece altro che parlare dei monumenti di Roma e della superba bellezza delle signore romane. Pur parlandone con stanco entusiasmo e con grand’aria scettica, lasciò capire che una villa romana valeva per tutta la Sardegna e una donna romana per tutte le donne sarde. Sulle prime Gonario si lasciò abbagliare; provò un intenso sentimento di umiliazione e gli sembrò che realmente fosse così, come Velèna diceva, — ma infine si stancò, lo contradisse, lo derise, si bisticciarono e si separarono freddamente.
A cena Cesario riprese a parlare di Roma. I suoi occhialini brillavano, e la sua bella figura pallida rappresentava, in quella mensa quasi patriarcale, qualcosa di ignoto e di strano. Nennele e Antonino lo guardavano a bocca aperta e Maria Fara sentiva negli occhi grosse lagrime di tenerezza e di orgoglio.
Anche Sebastiano pareva un po’ confuso o per lo meno dimostrava molto interesse per ciò che Cesario diceva. Solo Anna sorrideva ogni tanto, silenziosamente, con un sorriso che riusciva a far stizzire Cesario.
Anna guardava le mani di Sebastiano, forti e brune, e guardava le mani di Cesario. Neppure Lucia aveva le mani così belle, così bianche e sottili. Le unghie lunghe, violacee, tenute con cura, splendevano alla luce delle candele, e Anna non sapeva spiegarsi se era rispetto o dispetto quello che sentiva per il cugino illustre dalla camicia profumata....
Per le vacanze di Pasqua Cesario se n’era andato a Napoli; quindi cominciò a parlare di Sorrento e Posillippo e delle ville meravigliose guardanti il mare.
— Va bene, — disse Anna, — ma tu le hai viste appena esternamente, non è vero?
Poi, un’altra volta osservò:
— È sempre bello dove si sta bene....
Cesario la guardò a stracciasacco, e nei giorni seguenti parlò meno fantasiosamente in presenza di lei.
Egli riprese la vita antica; se ne stava lunghi giorni rinchiuso, sdrajato sul suo letto, leggendo. Aveva portato una grossa provvista di romanzi d’ogni genere tradotti in francese. Persino i romanzi italiani egli preferiva leggerli nelle rare traduzioni francesi!
— Ma che razza di avvocato tu riuscirai? — gli chiedeva Pietro, scartafogliando i volumi e buttandoli di qua e di là.
In pochi giorni i due futuri cognati strinsero amicizia, — ma Pietro si divertiva a metter Cesario in caricatura. Del resto Cesario si faceva metter in caricatura da tutti, forse perchè l’invidiavano. Nessuno era più strano e apparentemente più scettico di lui, e nessuno era più simpatico di lui.
Gonario Rosa, in fondo, gli rassomigliava, o almeno cercava d’imitarlo (avevano passato insieme i primi anni di gioventù, bevendo alla stessa fonte), — ma per non destare sarcasmi Gonario si guardava dal mettersi troppo in posa, come faceva Cesario. Ogni sera Gonario si recava dai Velèna per trascinare l’amico a spasso. Cesario l’aspettava, uscivano insieme e spesso passavano insieme la notte. Guai se qualche volta Gonario non veniva, oppure trascurava l’amico per altri; Cesario gli faceva una scena; ma appena si separavano, l’uno sparlava dell’altro. Cesario parlava di Rosa con un sorriso di pietà e d’ironia; un sorriso spettrale che metteva in mostra i suoi denti resi giallognoli dall’abuso delle sigarette. Gonario era più terribile. Nessuno meglio di lui sapeva far la caricatura di Cesario, imitandone perfettamente la voce, il gesto, il modo di tener la mazza o il soprabito, e persino quel tristo sorriso spettrale....
Questo però era certo; che Cesario studiava molto più di Gonario. Checchè Demeda dicesse, Cesario celava un vero ingegno, sotto quella superficie di vecchio ragazzo, coi capelli già bianchi a ventitrè anni. Era al corrente della letteratura moderna, approfondito nei classici italiani e stranieri, e aveva già cominciato un poderoso lavoro — Le condizioni della Sardegna sotto la legislazione dei Romani — che contava di presentare come tesi di laurea.
⁂
Pietro visitava ogni sera la sua fidanzata.
Pareva che una rigogliosa ondata di vita e di gioia fosse entrata con lui in casa Velèna.
Non era solo Angela ad attenderlo in quelle splendide sere d’estate; l’aspettavano tutti, mentre la caffettiera grillava vicina al fuoco.
Egli portava le ultime novità del giorno, recava giornali, libri e confetti. Nella gaja riunione, sotto il fresco pergolato, dimenticava ogni cura noiosa, ogni fastidio quotidiano.
Tutte le ragazze si riunivano attorno a lui, e dall’attenzione con cui l’ascoltavano, ridendo e sorridendo con lui, quasi quasi non si distingueva qual fosse la fidanzata.
Alle volte restavano anche gli uomini; scendeva Cesario, veniva Gonario Rosa. Allora parlavano di politica, alzavano la voce e pareva si scordassero delle signorine, che benchè leggessero i giornali non erano tanto spiritose da ingerirsi in tali quistioni. Perciò esse desideravano che i giovinotti se ne andassero, lasciandole sole con Pietro e coi loro lieti ragionamenti, — ma da qualche sera Anna si era accorta di una cosa: che a Gonario piaceva più restar con le ragazze che andar a passeggio.
Anna entrava ed usciva, per lo più serviva lei il caffè od il vino, portava le sedie sotto il pergolato, si alzava per ogni piccola cosa. Ella non perdeva punto il tempo; finchè un barlume di luce penetrava tra il fogliame del pergolato, ricamava dei fazzolettini di mussolina disegnati in turchino. Teneva tutto l’occorrente in una borsetta ridicule, appesa con una catenella alla cintura. Nell’abito semplicissimo, di percalle bianco a fiorellini, a margheritine grigie sfumate in lilla, lunghissimo, morbidissimo, che le disegnava quasi vaporosamente la personcina sottile, troppo sottile, con quei suoi capelli meravigliosi, sempre a treccia cadente, con quella borsetta di stoffa che le dava a momenti un’aria di damigella del trecento, non era forse graziosa la piccola Anna? I suoi piedi e le sue mani si erano formati, facendosi piccoli e sottili, la sua pelle era diventata quasi bianca, di un morbido pallore, e nel complesso Anna, benchè avesse il profilo irregolare e la bocca troppo grande, poteva dirsi una figurina interessante, — ma accanto alle cugine sfigurava, scompariva sempre. Vicino ad Angela, alta e maestosa, Anna pareva una bambina, e il sorriso e i meravigliosi occhi neri di Lucia offuscavano qualsiasi bellezza.
Eppure Gonario Rosa guardava con piacere la piccola Anna.
Ella se ne accorgeva, — ella sentiva il fluido misterioso dello sguardo del giovine, ma non percepiva, non capiva bene il sentimento che quello sguardo le destava. Con l’ingenuità e l’intelligenza che formavano l’essenza del suo spirito, Anna capiva che Gonario voleva qualche cosa da lei, ma non osava ancora interrogare il suo cuore.
Così in presenza di Gonario ella provava un vago sentimento di gioia e di paura, ch’era il primo albore della passione, — ma sparito il giovine, con quel suo volto perfetto che pareva un cammeo di bronzo, e con gli occhi pieni di mistero, — Anna lo dimenticava. Tutt’al più il suo pensiero volava dietro indecise fantasie, reminiscenze di libri letti, di scene a cui le pareva di aver assistito davvero o in sogno, in un tempo indeterminato. E si abbandonava dietro i giochi di Caterina e dei fratellini, invasa da una strana allegria.
— Perchè sei così allegra? — le domandava Sebastiano.
— Non lo so, — ella rispondeva. E tornava a ridere chiassosamente, senza saperne il perchè, mentre egli la guardava trasognato.
⁂
Finalmente Pietro Demeda venne trasferito in una città del continente. Allora si parlò delle nozze, e furono stabilite per la Pasqua dell’anno seguente; il tempo necessario per confezionare il corredo di Angela, che non si era provveduta ancora di nulla.
Vi furono dei lunghi colloqui tra Maria e Paolo; alla fine una mattina Angela venne chiamata in ufficio. Sapendo di che si trattava Angela impallidì leggermente e nell’entrare appoggiò la mano all’uscio.
Paolo scriveva.
— Cosa volete, babbo? — domandò Angela.
— Abbiamo dunque deciso, — rispose Paolo rapidamente. — Ti sposerai per Pasqua. Quanto può occorrerti? Tua madre dice due mila lire. Mi pare un po' troppo....
Angela chinò, poi sollevò il viso, e guardò suo padre. Le parve di scorgere una leggera sofferenza su quel volto che andava invecchiando, e pensò istintivamente alle ingenti somme che Cesario aveva speso quell’anno a Roma.
— Di che tutto devi provvederti? Sai bene che io non mi intendo di queste cose. Tua madre mi parlò anche di mobili. Ma non è una sciocchezza, dal momento che andate lontano?
— Sì, babbo, la camera nuziale, almeno, deve provvederla la sposa.... — disse Angela. Ma arrossì tosto e si pentì di aver detto questo.
— Sta bene. Si penserà poi a tutto questo. Per ora ti dò mille lire....
Aprì un cassetto e le porse un chèque della Banca Nazionale.
— Bada bene. Non è ancora firmato da me. Bisogna che tu mi dica a chi lo porgerai, per firmarlo.
Angela prese il pezzo di carta che rappresentava il suo corredo, e mentre ella guardava confusa le lunghe linee dritte su cui era scritto il valore, e i piccoli fori, e il bono “pagate per me al signor Paolo Velèna,„ — firmato “Elio Piccolomini„ — suo padre continuò a dirle qualche cosa, ch’ella non intese.
Usci turbata; già invasa da una vaga tristezza al pensiero che fra un anno sarebbe lontana dalla sua casa, in un mondo sconosciuto.
In un attimo la notizia che Angela possedeva mille lire si sparse per la casa, e Caterina venne subito a chiederle una lira o almeno mezza lira.
— Fammi il piacere, — disse Angela stizzita, — levati di lì o altrimenti ti dispiacerà. — Ma Caterina la tormentò per tutta la sera. Era Antonino che l’aveva pregata di procurargli una piccola somma. Perchè? Mistero.
— Domani comincieremo a cucire il corredo, — disse Angela a Pietro, con un mezzo sorriso, mentre si trovavano un momento soli, vicino alla siepe dell’orto.
— Farai le compere qui?
— E dunque? C’è di tutto. Per la fattura non spenderemo un centesimo, sai. Tranne che pei vestiti....
— Vuoi che scriva a Cagliari, a mia cugina Grazia, la monaca? Sai, le monache ricamano tanto bene. Può ajutarti.
— No, no! — esclamò Angela vivamente. — Ricamerà tutto Anna. Ha le mani di fata. Mi ha promesso che ricamerà tutto lei, anzi ha già cominciato....
E si volse, additandola. Infatti Anna ricamava ancora, benchè fosse quasi notte. Aveva portato la sedia un po’ fuori del pergolato per godere l’ultima luce.
Angela e Pietro parlarono d’altro.
— Mi pare che tu soffra; cos’hai? — domandò lui guardandola. Infatti era pallida e nervosa.
— Nulla, nulla, non ho nulla.
— Forse la testa? — riprese egli. Infatti Angela, dopo la caduta da cavallo soffriva dei forti dolori di testa. A momenti pareva che volesse riaprirsele la ferita rimarginata nascosta dai capelli.
— No, davvero, non ho nulla. Penso solo ai giorni in cui tu non ci sarai, — aggiunse timidamente.
Ma egli le sorrise e le sfiorò la testa con la mano dicendole: — Ma poi tornerò.... e per sempre!
Ritornarono sotto il pergolato.
— Lascia stare, Anna, chè ora non si vede più, — disse Angela passandole vicino.
— No, questo festone solo e poi ho finito, lasciami, — rispose la fanciulla.
Pietro si chinò per vedere e in quel momento irruppero nell’orto Nennele e Antonino con Gonario Rosa in cerca di Cesario.
— È un ricamo Richelieu, — disse Anna e poi rispose a Gonario che chiedeva se Cesario era uscito: — Sì, è uscito or ora. È tardi. Perchè è venuto così tardi, lei?
— Mi aspettava!! — pensò Gonario. E anch’egli guardò il ricamo, dicendo:
— Che pazienza! Sono i lavori di Aracne, non è vero, questi?...
Si appoggiò alla sedia di Anna, così che la sua giacca le sfiorò la testa.
— No, è un ricamo Richelieu, — ripetè essa.
— Ah, Richelieu! Anche qui c’è Richelieu? E perchè Richelieu?
— Perchè aveva i collari trapuntati così! — esclamò Pietro ridendo.
— Beato Richelieu! — rispose Gonario. — Mi vorrei al suo posto.
Ma Anna non capì la galanteria.
— Perchè al suo posto? È morto ora.
— Sì, e anche disperso. Ma voglio dire, al posto del ricamo chiamato così...
Anna cessò improvvisamente di ricamare; ficcò ogni cosa nella borsetta e arrossendo vivamente si alzò.
— Così, e dove sarà andato Cesario? — domandò il giovine.
Ma Anna non seppe rispondere a tono. Forse non intese, perchè mormorò: — Sono i fazzolettini d’Angela.
Anche dopo che tutti furono rientrati e che Pietro se ne fu andato, Anna restò nell’orto, al buio, passeggiando irrequieta. Andò sino alla china, ove c’era il profumo strano delle notti d’estate, che veniva dalla valle, dai monti lontani; e camminò, camminò, aggirandosi in luoghi che le parevano ignoti e conosciuti, oscuri e luminosi, pieni di misteriose sensazioni miste di gioia e di affanno. Cercava la luce, cercava l’oscurità; e ogni tanto le saliva una bizzarra voce dal cuore, che la costringeva a fermarsi, tutta tremante nel suo vestitino bianco cosparso di margheritine.
— Vorrei esser Richelieu!
⁂
Furono comprate le tele, i pizzi, i bordi, il filo da ricamare, i fazzoletti, gli asciugamani, gli strofinacci, e cominciò il lavoro, assiduo, faticoso, deliziosissimo.
Caterina fu messa a far dei merletti e dei tramezzi all’uncinetto. Sulle prime non voleva saperne, ma a furia di carezze e di promesse si mise al lavoro. Come Anna era abile nel ricamo, così Caterina, quando ne aveva voglia, era meravigliosa creatrice di lavori all’uncinetto. Ne inventava persino, con un gusto speciale. Le ditine agili e sottili pareva non toccassero il filo.
— Questo qui, — disse una Volta Pietro, che si interessava dei ricami di Caterina per far piacere ad Angela. — è di stile indiano. Rappresenta il Nyrvâna, non è vero?
Come aveva detto, Angela non spendeva un centesimo per la fattura.
Tagliavano e cucivano in casa. Anna ricamava sempre. Anch’essa riponeva qualcosa di sè nel suo sottile e delicato lavoro. Fiori bianchi trasparenti, uccelli dalle ali di velo, che pareva volessero spiccare il volo verso un orizzonte bianco, rose in rilievo, cifre gotiche e morbidi rami di strane erbe bianche, venivano fuori magicamente sotto quell’ago quasi invisibile, — mentre ombre misteriose passavano sulla fronte della piccola ricamatrice. Sopratutto, Anna preferiva far dei bordi Richelieu, e un sorriso indefinibile accompagnava il sorgere di quelle foglie serpentine, di quelle foglie di vite e d’acanto con strani fiori nel centro. Lucia cuciva a macchina, cantando, la signora Maria tagliava e Angela, nervosissima, guarniva.
Angela non si contentava di nulla; non sorrideva, non scherzava più. S’irritava per piccole cose; costringeva Anna a disfare delle bellissime cifre, dicendole ch’erano mal fatte, e nulla la contentava.
Si calmava a mala pena quando veniva Pietro.
Così sopravvennero le vendemmie. Per un poco il corredo fu lasciato da parte. Si fece qualche scampagnata, qualche gita allegra e chiassosa. Gonario continuò a corteggiare la piccola Anna, ma così vagamente e scaltramente che niuno se ne accorgeva; neppur Sebastiano, che tra le incessanti cure di quei giorni non lasciava pur un momento di vigilare la cugina.
Del resto Gonario non diceva una parola, non faceva un gesto che potesse comprometterlo. Pareva piuttosto un buon giovine che volesse divagarsi abbassandosi a giocare con una bambina. S’occupava dei ricami, dei lavori, dei capelli e del modo di vestire di Anna, e le sue parole non alludevano ad altro.
— Ha terminato quel fazzolettino, me lo mostri dunque — le diceva.
Essa glielo porgeva: egli lo esaminava minutamente e la faceva arrossire dicendole: — Lei ha le mani di fata! Chi sa a che pensava nel fare tutte queste belle cose!
Oppure la guardava da capo a piedi esclamando con bizzarro accento:
— Perchè si è messa questo brutto vestito? Indossi l’altro, il bianco, che le sta così bene; quello che ha in casa....
— Ma è per casa quello, e questo è per campagna! — osservava Anna.
— Ma le sta meglio quello.
Un giorno ardì toccarle la treccia.
— Perchè non raccoglie i capelli così, sulla nuca, come Angela e Lucia?
— Non si può! — rispose Anna rabbrividendo. — Son troppi.
— Sì, son troppi! ripetè egli. — Come sono belli!
Le regalava dei fiori e dei disegni per ricamo, — poi improvvisamente la dimenticava e per ore ed ore non la degnava neppure di uno sguardo. Ella ne soffriva orribilmente e cadeva in profondi malumori che a Sebastiano riuscivano non meno inesplicabili degli impeti di gioia a cui spesso Anna s’abbandonava. Egli la credeva una bambina e non si accorgeva che invece spuntava in lei la donna e che Gonario Rosa, — verso cui Sebastiano aveva sempre nutrito una istintiva antipatia, — gli aveva già rubato il cuore di lei.