Anime allo specchio/Un uomo di coraggio
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il dolce egoismo | Dame a scegliere | ► |
UN UOMO DI CORAGGIO.
Già due volte il pittore Federico Zirli era stato chiamato un uomo di coraggio, sebbene egli fosse l’anima più mite ed il carattere più quieto che possano albergare nei panni d’un dipintore di tele.
La prima volta egli stava pescando alla lenza sulle rive d’un canale con la cassetta dei colori, chiusa, posata sull’erba vicino al cestello per i pesci, vuoto, quando s’accorse che l’acqua s’intorbidava e fu costretto ad ammettere che un uomo vi era caduto, tanto più che una sucida mano annaspava nell’aria come per invocare soccorso.
Allora Federico Zirli entrò nell’acqua, nuotò tutto vestito fino al naufrago e lo portò sulla riva svenuto. Accorse gente dai cascinali vicini e riconobbe nel disgraziato un mendicante scemo che vagabondava nei dintorni.
— Avrei fatto meglio a lasciarlo affogare — osservò il salvatore quando lo seppe e si fece imprestare gli abiti asciutti d’un contadino per poter ritornare a casa.
La seconda volta Federico Zirli camminava per una strada di campagna sotto la pioggia, fumando la pipa e monologando sull’umidità del tempo. D’improvviso gli parve d’udire uno scalpitare rapido e disordinato di cavallo; si fermò e dallo svolto della strada si vide venire incontro un carrozzino elegante tirato da un piccolo cavallo inglese il quale andava a corsa sfrenata, con la schiuma alla bocca, con gli occhi fuori dell’orbita, bello di furore e d’agilità.
Due persone, tutte chiuse nell’impermeabile, col cappuccio sugli occhi, s’aggrappavano urlando alle redini e rimbalzavano qua e là seguendo il moto pazzesco della corsa.
Federico Zirli si parò dinanzi all’animale furibondo, gli sbarrò la via e lo afferrò pel morso con la sua mano robusta, costringendolo con tutto il peso del suo corpo a fermarsi. La pioggia incominciò a scendere a dirotto e la fresca doccia giovò a calmare il cavallo già stanco, cosicchè egli riprese dopo un momento il suo trotto leggero e s’allontanò mentre le due persone dal cappuccio abbassato ringraziavano con effusione il loro salvatore ed i pochi spettatori lo applaudivano.
Il domani i giornali raccontarono brevemente il fatto sotto il titolo: «Un uomo di coraggio» e soggiunsero che se l’arditezza e il sangue freddo del pittore Federico Zirli, già noto per altre belle prove, non stupivano nessuno, sorprendeva però che i due salvati fossero rimasti sconosciuti e avessero potuto scomparire anonimi e misteriosi come due ombre, senza nemmeno dimostrargli la loro riconoscenza.
Ma lo Zirli fumando la sua pipa innanzi al cavalletto che sopportava una tela ancora bianca, mormorò dopo aver letto crollando le spalle: «Che esagerazioni!». E ne sorrise pensandovi per qualche tempo, poi passarono giorni e mesi ed egli se ne dimenticò, nè la buona ventura gli concesse di operare un altro salvataggio e nemmeno di dipingere un quadro immortale.
Egli se ne viveva dunque nella più chiara pace, quando gli giunse un mattino una lettera listata a lutto, nella quale la contessina Giselda di Fuscaldo, nome a lui perfettamente ignoto, gli chiedeva molto ossequiosamente s’egli avrebbe accettato l’incarico di restaurare la galleria dei quadri di famiglia nel castello di Fuscaldo e che in tale speranza ella lo avrebbe atteso il domani al castello suddetto, il quale distava pochi chilometri dalla città.
Federico Zirli, curioso ma non stupito, poichè da buon filosofo egli non si meravigliava mai di nulla, si fece portare il mattino a Fuscaldo ove fu introdotto in un vecchio edificio a vari stili sovrapposti, chiamato per l’imponenza della sua mole castello, ed attraverso a cortili, a scale ed a corridoi, giunse ad un salottino barocco, nel quale una signorina bella, alta e bionda, vestita a lutto sedeva a leggere presso una finestra. Ella s’alzò al suo entrare, con un sorriso accogliente, parlandogli con una voce melodiosa:
— Certo ella si sarà sorpreso che io l’abbia chiamato qui senza conoscerla di persona, ma io conosco ed ammiro le cose sue, da molto tempo, ed ho grande stima del suo ingegno. Vogliamo andare a prendere visione della galleria?
Federico s’inchinò in silenzio e la seguì docilmente fino ad un lungo corridoio semibuio, ove s’allineavano sulle pareti guerrieri e cardinali, monache e dame, magistrati in toga e ufficiali in uniforme.
— L’ultimo è questo: mio padre, — ella disse accennando ad un ovale allungato dal quale un vecchio signore in marsina e pelliccia guardava altezzosamente dinanzi a sè, attraverso al cristallo del suo monocolo.
— Povero babbo! — ella soggiunse in un sospiro; — sei mesi fa passeggiava ancora qui, vegeto e sano; una sincope l’ha strappato alla vita in poche ore.
— Ella porta il lutto di suo padre? — domandò Federico sommessamente e con un volto di circostanza.
— Appunto, — rispose Giselda di Fuscaldo e tacque un momento, ma poi subito si scosse e sorrise, come se la voce della vita meno triste, la richiamasse a più vicina realtà.
— Senta, maestro, — ella disse allo Zirli, che s’inchinò tutto sconvolto dall’appellativo lusinghiero con una espressione di modestia offesa, — le pare che vi sia un lungo lavoro da compiere?
— I ritratti sono quasi tutti in cattivo stato, — rispose Federico osservandoli da vicino; — bisognerà mandarmeli allo studio ad uno o a due per volta, ed io cercherò di restaurarli nel minor tempo possibile.
— No, no, — mormorò Giselda riflettendo — mi occorre che tutto sia in ordine in meno di un mese, ed a quel modo si perderebbe troppo tempo. Io la pregherei invece di accettare per qualche settimana la mia ospitalità. Ella potrebbe così lavorare tranquillamente in un paese quieto, sano, con una vista incantevole, con una compagnia discreta della quale, spero, non avrebbe a rammaricarsi.
— L’invito è molto tentatore, — rispose perplesso Federico, — e lusingherebbe ben altri che non un povero artista oscuro come sono io.
— Dunque accetta? non mi dice di no?
— Non potrei non accettare una offerta così graziosa. Mi dica ella quando dovrò incominciare.
— Quando le piace, caro maestro, anche domani, posdomani.
— Bene, fissiamo a posdomani il principio del mio lavoro. Giungerò qui il mattino, con armi e bagagli, deciso a rimanervi finchè ella non mi scaccierà.
Ridevano entrambi, ormai avvicinati da quella breve conversazione, da quell’invito offerto con entusiasmo ed accettato con gioia, e Federico Zirli tornando verso sera allo studio nella automobile di casa Fuscaldo, pensava che anche un filosofo è costretto talvolta ad ammirare le magnifiche sorprese del destino e ad ammettere i colpi di scena nella vita di un individuo. Chi gli avrebbe detto la mattina innanzi che lo attendeva una fortuna simile: un mese di soggiorno in un ricco castello, ospitato da una deliziosa creatura che lo ammirava, che lo chiamava maestro, che per pura stima dell’opera sua e del suo ingegno lo aveva cercato per affidargli un incarico delicatissimo, come quello di rimetterle a nuovo i suoi antenati?
Egli passò la giornata del domani a riordinare le cose sue, a rifornirsi di colori e di pennelli, a considerare con malinconia ed a scegliere con cura gli oggetti del suo ristretto guardaroba. Vi aggiunse alcuni libri, qualche ritratto ed al momento di partire comprò un mazzo di fiori per presentarsi convenientemente alla sua ospite. Ella lo attendeva nel cortile del castello, avvolta in una vestaglia bianca e nera, e giocava con uno svelto levriere dal rasato mantello striato di grigio. Federico Zirli si fermò a guardare con ammirazione l’eleganza pittorica del gruppo, finchè Giselda Fuscaldo si volse e lo vide ritto contro al muro col mazzo di fiori in mano, così buffo nel suo soprabito chiaro e nel suo berretto da viaggio, ch’ella gli corse incontro ridendo come una bambina.
— Oh bravo, maestro; l’aspettavo con impazienza. Anche i fiori mi ha portato? Come è elegante! Venga, la conduco nei suoi appartamenti.
E di corsa, per cortili, scale e corridoi, ella lo precedette fino ad una grande camera d’angolo, dal vecchio arredo massiccio, aperta sopra una terrazza marmorea, dalla quale un incantevole paesaggio appariva.
— Le piace la sua stanza, caro maestro? — ella gli domandò, mentre il domestico saliva con le valigie, e Federico non seppe quasi rispondere, tanto la dolce bellezza della natura lo commoveva e lo turbava l’amabile cortesia della sua ospite. Ella gli aveva fatto disporre cavalletto, tavolozza e colori in una veranda coperta, dove la luce entrava a fasci e vi si diffondeva in una chiarità intensa ed uguale ed a cui non salivano che i canti delle vendemmiatrici e lo stormire del vento nella foresta vicina.
Federico Zirli incominciò a lavorare con un fervore inusitato, solo dolendosi che l’opera di restauro non gli consentisse di manifestarsi in una creazione nuova, spontanea, veemente, piena di tutta la sua nuova febbre d’arte e d’operosità. Pensava alla contessina Giselda di Fuscaldo, nell’atto di giocare col suo levriere e gli pareva che avrebbe saputo trarre da quel soggetto effetti sorprendenti d’umanità e di grazia.
Ma intanto ridipingeva di rosso uno zucchetto cardinalizio o ricostruiva il colletto alla Medici d’una matrona arcigna, sussultando quando il passo lieve di Giselda e la sua fresca voce suonavano nell’attigua galleria.
— Maestro, vuol fare due passi in giardino? Maestro, vuol scendere in sala a prendere una tazza di thè? Maestro, l’automobile ci aspetta; venga con me e smetta di lavorare.
Ella non lo lasciava un momento in pace e sembrava compiacersi e divertirsi della sua confusione e delle ingenue scuse che egli cercava onde non trascurare quel lavoro al quale s’era accinto con zelo e che egli considerava come un dovere. Ma di questo Giselda pareva interessarsi pochissimo ed appena si fermava dinanzi alla tela restaurata, con un distratto cenno d’approvazione quando il pittore le chiedeva con scrupolosa insistenza se ella ne fosse soddisfatta.
Egli si sentiva qualche volta umiliato e disperato e non riuscendo a comprendere bene lo scopo di quell’ospitalità, ricercava vagamente in cause estranee alla sua arte la ragione di tanta cortesia per parte di una sconosciuta, verso uno sconosciuto. Sembrava che la sua ospite lo avesse chiamato presso di sè non tanto per valersi della sua abilità pittorica quanto per farsene un compagno di tavola e di passeggiate.
Ma come mai una creatura così adorabile si compiaceva di mostrarsi in compagnia di un orso inelegante ed impacciato come lui? Non esistevano altri pittori altrettanto bravi ed assai più seducenti di quanto egli non fosse? O forse ella lo aveva scelto appunto per quel suo difetto di qualità fisiche, ben sapendo che egli non poteva illudersi ed ingannarsi nel giudicare le sue espansive gentilezze?
Federico si tormentò notte e giorno in queste ricerche e quelle settimane di villeggiatura, in un castello che gli era sembrato magico, vicino a quella fanciulla che si poteva scambiare per una fata, gli si amareggiarono di pensieri sospettosi e di oscure tristezze. Il suo lavoro non procedeva più così alacre e sicuro come ai primi giorni e troppo spesso egli si sorprendeva ad ascoltare inoperoso il canto delle vendemmiatrici e lo stormire del vento. E se Giselda entrava all’improvviso e rideva della sua aria trasognata egli sentiva il cuore mancargli come sotto una pressione troppo forte.
— Ahimè! Io devo essere innamorato, — egli rifletteva, fumando sulla terrazza, uno degli ultimi giorni della sua permanenza al castello di Fuscaldo. E pensava con gioia e insieme con desolazione che fra poco egli sarebbe ritornato libero, padrone di sè stesso e della sua volontà, non più incatenato a quella schiavitù morbida che lo rendeva debole e stolto come un fanciullo. Per fortuna il male era all’inizio e nella ruvida solitudine del suo lavoro non avrebbe tardato a guarire; ma guai se questa mollezza di azione e d’anima, guai se questa tentazione attirante lo avesse preso per più lungo tempo!
Ora gli antenati di Giselda di Fuscaldo erano tutti quanti onorevolmente ridipinti e l’umile restauratore poteva andarsene in pace.
— Maestro, — chiamò dal giardino la voce acuta della sua ospite, e poichè egli si sporgeva dalla balaustrata guardando in basso, ella gli gridò: — Vede quell’automobile nera che s’avanza laggiù su quella strada bianca?
— Vedo, — gridò a sua volta Federico.
— Ebbene in quella automobile c’è una persona che la conosce.
— Ella scherza, contessina.
— Non scherzo, dico la più sacrosanta verità; se ne convincerà fra poco.
Il pittore si strinse nelle spalle e rientrò lentamente, domandandosi quale nuovo sistema di squisita tortura ella gli avesse ora inventato.
Ma mezz’ora più tardi la voce di Giselda più acuta e più vibrante del consueto lo fece trasalire:
— Eccomi, caro maestro, e questa volta non sola.
Ella entrava al braccio di un giovine signore sconosciuto, il quale gli tese sorridendo le due mani ed esclamò con straordinaria effusione: — Grazie, grazie, caro maestro; io e Giselda dobbiamo a lei la nostra vita.
— Scusi, caro signore, io non comprendo affatto le sue parole, — balbettò sconcertato Federico Zirli guardando Giselda che sorrideva con malizia.
— Ma come, — domandò l’altro perplesso — il maestro dunque non sa?
— Non sa, non sa, — gridò Giselda tutta gaia, divertendosi della loro confusione. — E innanzi tutto procediamo alle presentazioni: il signor tenente Roberto Lusignano, già mio cugino ed ora mio fidanzato; il pittore Federico Zirli, detto l’uomo di coraggio.
— Ora ella comprende, non è vero? — aggiunse Roberto Lusignano; — mia cugina ed io siamo i due sconosciuti, i due individui anonimi e misteriosi che un giorno dello scorso aprile, mentre percorrevamo alla ventura una strada di campagna nella mia charrette, corremmo seriamente il rischio d’essere sbalzati a terra e di lederci, come dicono i medici, qualche organo importante, per colpa del cavallo che s’era imbizzarrito. Senonchè un uomo di coraggio che passava in quel momento prese pel morso l’animale e con una forza e una calma ammirevole riuscì a fermarlo.
— E se noi ci dileguammo come due ombre, — proseguì Giselda, — non fu già per ingratitudine, ma perchè quel giorno io non dovevo trovarmi precisamente a passeggio con mio cugino, ma alla mia lezione di inglese.
— Per di più, — completò francamente Roberto Lusignano, — il mio signor zio, il conte di Fuscaldo, mi detestava con tutta la forza del suo sangue purissimo e celeste e mi rifiutava la mano di sua figlia che io amavo e che mi amava. Io non so che cosa sarebbe accaduto se i giornali avessero pubblicati i nostri due nomi uniti in una simile avventura. Ora lo zio è morto e pace all’anima sua; Giselda appena smesso il lutto sarà mia moglie, ma intanto per mio consiglio ha voluto conoscere ed ospitare il nostro salvatore, sebbene per un capriccio bizzarro e tutto suo glie lo abbia finora nascosto. Ed ecco tutto.
Federico ascoltava in silenzio, tirandosi la barba quasi per spremerne a forza qualche considerazione meno amara di quella che gli veniva alle labbra, e l’amara considerazione era questa:
— Dunque io vi ho salvata la vita, e voi in compenso di questo servizio mi avete invitato qui a ridipingere i vostri antenati. Oh, se invece mi aveste lasciato in premio l’illusione che ciò avveniva per pura ammirazione verso l’artista, per pura stima di quel poco che valgo, e per benevolenza e per simpatia! Perchè dunque non dirmelo subito con lealtà, anche con brutalità? Perchè amareggiarmi questi ultimi giorni? Perchè dimostrarmi con una gentile elemosina la vostra gratitudine? Anche questa volta ho fatto male ad operare un salvataggio.
— Caro Federico, — gli diceva intanto Roberto Lusignano, — noi dobbiamo ora diventare amici e darci del tu.
— Ma sì, carissimo Roberto, — esclamò il pittore abbracciandolo addirittura, — prima però mi concederete ciò che vi chiedo: ed è poca cosa.
— Tutto ciò che vuoi, amico mio, — rispose sorridendo Roberto, — anche di dare un bacio alla mia fidanzata.
Federico Zirli impallidì leggermente e non rispose subito, ma quando potè parlare disse con semplicità:
— Lasciatemi partire questa sera stessa.
E il suo volto esprimeva una tale dolorosa fermezza, che gli altri due si guardarono senza comprendere e non seppero opporsi.