Anime allo specchio/Il dolce egoismo

Il dolce egoismo

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L'amico intimo Un uomo di coraggio

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IL DOLCE EGOISMO.


Nella casa di cura del dottor Salvi la notizia si sparse in un baleno: era stato ricoverato un tenente d’artiglieria ferito in Libia. Una scheggia di granata gli aveva spezzato il polso e subito l’avambraccio gli era stato amputato. Ora egli, convalescente appena, veniva a rimettersi dalla terribile operazione subìta e a cercar nel riposo la guarigione.

L’infermiera addetta al suo servizio divenne nella casa di cura una persona importante: ognuno la interrogò su le condizioni del ferito, ognuno volle informarsi s’egli fosse molto giovine, se fosse molto bello, se fosse molto triste e fu soddisfatto di sapere ch’egli era difatti giovine, bello e triste come ad un eroe si conviene.

La più commossa ne fu Luciana Ausoni, la giovinetta convalescente di tifo, che in [p. 222 modifica]quei primi giorni tiepidi d’estate tentava i primi passi fuori della sua camera d’inferma. Ella aveva una figura di fanciullo adolescente con quei suoi corti capelli castani che s’arricciavano su la sua testina rotonda, con quel suo lungo collo venato di violetto, sorretto dall’esili spalle dove le clavicole si disegnavano intere. Ma la sua bocca incominciava a tingersi di rosa ed i suoi grandi occhi stupiti si riaprivano sul dolce mondo già per tanti giorni velato e oscurato da un presagio di morte.

Ella sedette per lunghe ore nell’ombroso giardino dinanzi alla finestra semichiusa del nuovo venuto, aspettando con una curiosità quasi ansiosa ch’egli vi si affacciasse; e pel suo spirito dolcemente romantico, teso con una sensibilità squisita ad ogni vibrazione, ad ogni sensazione della nuova vita in lei rifiorente, l’attesa di quell’apparizione diveniva talvolta uno stato pressochè doloroso e acceso come una febbre blanda.

Ma il giovine non appariva. L’infermiera le disse ch’egli passava le sue giornate disteso in una poltrona a leggere od a pensare ad occhi chiusi, quasi sempre solo. Rari amici venivano a visitarlo, ma si trattenevano brevemente, forse messi a disagio dalla sua tristezza taciturna e dalla sua grave stanchezza. Pareva non avere parenti, ma riceveva spesso lettere con bollo straniero. [p. 223 modifica]

Anche Luciana Ausoni non aveva parenti, e il suo tutore, un vecchio magistrato a riposo, celibe, egoista ed avaro, si scordava volontieri di quella lontana nipote che per una sequela di morti e di sventure familiari gli era piombata d’un tratto su le braccia. Poche volte durante la malattia di Luciana la faccia fosca del tutore s’era chinata sul suo guanciale, ma, subito dopo, la febbre e il delirio l’avevano riafferrata più aspri, offrendo così al vecchio un eccellente pretesto per non più ritornare.

Ora Luciana si sentiva di giorno in giorno guarire e l’anima un poco soffriva di questa rifioritura del corpo. Soffriva di sentirsi riprendere dalla vita che le riappariva ora così bella di dolcezze e di promesse per disingannarla dopo più crudelmente. Con la guarigione l’attendeva ancora la casa del vecchio tutore gelida e muta, la compagnia d’una governante gretta e arcigna e i giorni eguali, le notti inquiete, gli inutili sogni.

L’infermiera loquace riferì un giorno ridendo ad Ugo Franti, il ferito, che la signorina della stanza attigua chiedeva sue notizie con una straordinaria frequenza, e il domani soggiunse ch’ella passava ore ed ore nel giardino a contemplare la sua finestra. Il giorno seguente il dottor Selvi incitò vivamente il convalescente a lasciare la sua camera, lo accompagnò egli stesso all’aperto, [p. 224 modifica]lo guidò lungo i piccoli viali già ombreggiati dalle prime fronde e lo condusse a riposare nella rotonda dei platani dove dalle larghe foglie aperte come grandi mani scendeva una molle ombra, macchiata qua e là di mobili dischi d’oro di sole.

Alcuni d’essi scherzavano su la nuca ricciuta di Luciana Ausoni che fingeva di leggere, china, col cuore in tumulto e la vista intorbidata. Egli era a due passi da lei, alto e pallido, con bellissimi occhi neri e severi, con morbidi capelli lucenti, con un profilo da statua e col povero braccio mutilato nascosto nella manica floscia. Rispondeva parcamente al dottore che gli parlava con gaiezza, considerando la giovinetta fragile e bianca che gli alzava in volto di quando in quando, furtivamente, uno sguardo quasi estatico. Il medico li presentò l’uno all’altra e scherzò leggermente con bonaria malizia sul turbamento visibile della fanciulla dinanzi al «giovine eroe». Ella rispose con un impreveduto spirito mordace e subito, con una morbida grazia che velava sottilmente di frivolezza un’intima profonda commozione, ella confessò sorridendo la sua «passione infelice».

Il giovine sorrise anch’egli, le sedette accanto su una poltroncina di vimini e rispose che già conosceva l’esistenza di quella sua piccola ammiratrice la quale s’interessava con tanta gentile sollecitudine alle tristi vi[p. 225 modifica]cende d’un povero malato. Tacque un momento con gli occhi assorti, quindi con la sua unica mano accarezzò lievemente le dita di Luciana posate sul bracciuolo della poltrona e ripetè più volte: — grazie, grazie.

Il dottore chiamato da un’infermiera si era allontanato e una specie d’angoscia oscura gravava adesso su di loro nel silenzio isolante del giardino. Egli sentiva gli occhi della fanciulla, occhi d’appassionata pietà, occhi di dolorante tenerezza, avvolgere la sua persona inferma in un fervore quasi sensibile d’adorazione, e per la prima volta quella triste diminuzione di sè stesso, quel male orrendo che aveva fatto della sua destra agile e forte un miserevole moncherino sanguinante e della sua persona gagliarda un invalido resto umano, non destò nel suo cuore un senso d’abbattimento amaro.

Una donna poteva ancora guardarlo con amore, una creatura di bellezza e di freschezza lo contemplava senza ripugnanza, gli offriva spontaneamente con muto slancio un piccolo cuore ancora colmo di tutti i suoi doni.

E per la prima volta, alle domande fra timide e insistenti della giovinetta, egli potè parlare di sè, potè rievocare la visione della battaglia ancora recente eppure già lontana come un sogno epico, potè trarre dal fondo di sè stesso un peso enorme di dolore, di [p. 226 modifica]raccapriccio, di fervore e di stupore, portarlo alla superficie della sua anima, esalarlo quasi in espressioni, in gesti, in parole, liberarsene infine come da un incubo terribilmente opprimente di grandezza e di male, di bellezza e di morte.

Per giorni e giorni, quasi per un silenzioso accordo, essi si ritrovarono nella piccola rotonda sotto i platani folti alla stessa grave ora pomeridiana, ed il ferito continuò a ricordare a sè medesimo e a narrare alla sua ascoltatrice devota la storia della magnifica guerra. Egli vide la giovinetta piangere, sorridere, impallidire, fremere: tenne la sua piccola anima tutta tesa e accesa e vibrante nel cerchio delle sue parole, la sentì immemore, travolta in quell’ardore tempestoso come una foglia in un turbine di vento. Ed a poco a poco la sua cupa mestizia si addolciva, l’ombra mortale della sua malinconia si rischiarava sotto il baleno di quello sguardo d’amore; egli pareva assorbire dalla freschezza rifiorita, dalla vitalità sensitiva della sua amica la forza e la volontà di sentirsi ancora giovine, ancora valido, ancora pronto a godere gli squisiti beni della vita. Più che le cure diligenti dei medici, più dei farmaci e del riposo, lo risanava la coscienza di quella possibilità, la certezza di quel dominio; lo guariva a poco a poco la gioia d’abbandonarsi dimentico a quella ripresa [p. 227 modifica]di possesso dell’esistenza che è il dolce egoismo.

Luciana ne fu la piccola vittima incosciente e si sognò legata a lui per tutta la vita, si votò con l’anima ignara a quell’uomo eroico in una sete eroica di sacrificio, di abnegazione, di adorazione che lo compensasse, che lo smemorasse della sua infermità.

Non chiedeva d’essere riamata, solo chiedeva di divenire il braccio destro del mutilato, di sostituire con tutta la sua persona per tutta la sua esistenza quella parte vitale che una sorte gloriosa ma cieca gli aveva tolto. Perchè non avrebbe egli accettato dal destino quella compagna giovinetta, quella docile schiava che gli si offriva con tutta la grazia profonda e commovente della sua passione?

Ugo Franti vide tante volte la domanda accorata negli occhi di Luciana e non rispose, sentì tante volte tendersi le sue palme in un gesto d’offerta e non raccolse. Ora ella gli leggeva con una argentina cadenza musicale i suoi poeti prediletti, ed alle parole d’amore la sua voce tremava un poco e s’abbassava di tono come la voce d’uno strumento sensibile su cui le dita sorvolano appena per non trarne un suono troppo straziante. Ed egli soffriva e gioiva al tempo stesso di queste confessioni involontarie, di quegli spiragli di luce e di fiamma aperti [p. 228 modifica]d’improvviso in quella oscura vita interiore, per lui.

Non l’amava ma gli piaceva, ma lo lusingava, ma lo attirava talvolta col lampo voluttuoso d’un attimo; gli era necessaria e benefica come il filo elettrico che scoteva e vivificava, guidato dalla mano esperta del medico, i suoi poveri nervi intorpiditi dal male. Talvolta ella gli prendeva la mano superstite e vi poneva sopra la guancia in un atto di civetteria, socchiudendo gli occhi, guardandolo di sotto in su con una graziosa movenza felina che si addiceva bene alla sua flessuosità acerba di adolescente; ed egli, turbato, s’era talvolta chinato quasi involontariamente su quel volto illanguidito, ma subito di scatto, balzando in piedi, aveva disperso la tentazione fascinosa e vinto il soave pericolo.

Un giorno di pioggia in cui erano entrambi mesti d’una mestizia senza causa, grigia e pesante come il cielo, Ugo Franti accennò ad una triste vicenda della sua vita e s’accinse esitando a narrarla alla sua giovine amica. Ma ella lo interruppe fin dalle prime frasi, subitamente offuscata in volto ed aspra nella voce come se presentisse una minaccia oscura per sè e per il suo amore. Per un’altra settimana egli tacque, per un’altra settimana ella si cullò in quella illusione ormai necessaria alla sua vita, ma [p. 229 modifica]una sera Ugo le annunziò che fra due giorni avrebbe lasciato la casa di cura per ritornare a casa sua e terminarvi la convalescenza.

— Partirà solo? — domandò Luciana pallida, con gli occhi improvvisamente segnati da due solchi violastri.

— No, — diss’egli, — verrà qualcuno a prendermi domani.

Ella aperse le labbra a un’altra domanda, ma ebbe paura della risposta e si trattenne.

Il domani ella uscì per la prima volta sola dopo la sua malattia, vagò come un povero animaletto sperduto per le vie della città, sedette sfinita su di una panca lungo un viale sconosciuto, ingoiando le sue lacrime, oppressa da una stanchezza mortale. Al tramonto rincasò, si rifugiò nella sua camera, si buttò sul letto vestita, desiderando disperatamente di morire.

Dopo mezz’ora le parve udire alla porta due leggeri colpi discreti; balzò a terra palpitando, aperse. Un bellissimo bimbo di tre anni, un piccolo amore paffuto le porgeva con le due mani un mazzo di rose, levando le braccia, alzandosi sui piedini per giungere a lei, guardandola spaurito con due larghi occhi vellutati come quelli d’Ugo Franti. Egli subito apparve e le tese la mano sopra la testa del bimbo, senza parole. Senza parole Luciana si chinò, prese il piccino fra le [p. 230 modifica]sue braccia e vuotò incontro a lui, in un pianto breve ed intenso, la sua anima traboccante di pena. Quando alzò il volto ella potè parere quasi calma.

— Sua madre è lontana, — disse Ugo con la fronte corrugata, accarezzando il bimbo, — non sappiamo dove, non sappiamo con chi. Ora andiamo tutti e due con la nonna, non è vero, bebè?

— Con la nonna, — ripetè il piccolo, e s’appese alla mano del padre volgendo le spalle alla straniera.

Ed ella che avrebbe voluto baciare un’ultima volta quell’unica mano, come in certi lontani giorni di felicità, non potè neppure stringerla con le sue un’ultima volta. Li vide allontanarsi lungo il corridoio, raccolse nell’ombra ancora uno sguardo e rimase sola al buio, con un mazzo di rose sciupato fra le mani fredde.