Alle porte d'Italia/I Principi d'Acaja
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I PRINCIPI D’ACAJA
Pinerolo, agosto 1883.
Era un pezzo che desideravo di visitare quel vecchio palazzo, il quale mi mostra tutti i giorni i suoi merli rossi di là dai pini e dai cedri del giardino della bella marchesa Durazzo. Uno strano edifizio, veramente, d’una forma che non riuscivo da nessuna parte ad afferrar intera con lo sguardo; coronato di certi merli bizzarri da castello di palcoscenico; carico di secoli, e pure colorito di fresco, e triste a vedersi come un cadavere imbellettato: e poi, nascosto là in un canto solitario di Pinerolo, in mezzo a casette misere e a vicoli in salita, irti di sassi enormi e corsi da larghi rigagnoli sonori. Non ci avevo mai visto intorno che ragazzi scalzi e processioni di pulcini, e qualche vecchio sonnacchioso, accucciato davanti a una porta, il quale non sapeva certamente chi avesse abitato una volta tra quei muri, più che non lo sapessero l’erbe che gli verdeggiavan tra i piedi. — Che diavolo ci ha da esser là dentro? — mi domandavo. Una mattina, passando sotto quelle finestre misteriose, m’era parso di sentire un bisbiglio di voci lamentevoli, come una preghiera di anime in pena, e una sera, affacciandomi al terrazzo d’una villa vicina, avevo visto giù nel giardino oscuro del palazzo una bella monaca che fuggiva come uno spettro in mezzo alle piante: — l’immagine d’un quadretto del Boccaccio. Ce n’era più del bisogno per eccitare la curiosità di qualunque più ostinato odiatore di rovine illustri.
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Sarebbe stata ingiustizia, peraltro, se quella curiosità non fosse nata anche in parte da un sentimento di simpatia per i Principi d’Acaja. Dico simpatia, non entusiasmo. Grandi non furono, nè forse potevano essere. La parte principale, in quel fortunato lavorìo diplomatico e guerresco della casa di Savoia, toccava naturalmente ai Conti, loro signori, più forti d’armi e piantati in domini assai più sicuri che non le terre dei principi. Tolto anche il conte Verde e il conte Rosso, che vissero al tempo loro, sarebbe bastata ad oscurar gli Acaja la gloria di Amedeo il Grande che li precedette e la fama d’Amedeo VIII che li seguì. Ma non furono indegni d’ammirazione. Accampati sopra un territorio di dubbie frontiere, circondato da Comuni turbolenti e da Signori il cui unico pensiero era la conquista; posti in una condizione, rispetto ai Conti savoiardi, la quale, se li assicurava d’un valido sostegno nei grandi cimenti, vincolava però in mille modi la loro libertà politica; costretti sempre a destreggiarsi fra nemici spesso più potenti di loro, con alleanze ed accordi continuamente rotti, ripresi, falsati e violati; condannati a combattere quasi senza riposo coi Marchesi di Saluzzo e di Monferrato, cogli Angioini e coi Visconti, in un paese impoverito dalla sfrenatezza della soldataglia mercenaria; inceppati nel governo dalle mille difficoltà e dai mille disordini che nascevan dalla mancanza d’un Codice generale di leggi, e dall’imperfezione degli Statuti di ciascun Comune; essi riuscirono non di meno, a furia di sagacia e di costanza, parte coi matrimoni accorti, parte con gli ardimenti opportuni, e molto col valor personale, gli uni ad accrescere, gli altri a consolidare la propria potenza, e a preparar largamente la via alle conquiste avvenire della casa sabauda; ci riuscirono, — questa è la loro gloria maggiore, — conservando quanta fama di lealtà era possibile meritare allora, tra quei nemici: non macchiandosi di efferatezze famose in un tempo in cui pochi Principi avevan le mani nette di sangue; non opprimendo smodatamente i loro sudditi, liberando anzi i Comuni dalla maggior parte degli incagli dei diritti feudali; governando anche fra i torbidi e le guerre in maniera da legare a poco a poco al loro nome, nella mente del popolo devoto non per timore, una certa idea di magnanimità e di giustizia, che era forza nei pericoli e conforto nella miseria. Eccettuato Giacomo, non malvagio, ma debole, e imprudente e pauroso a vicenda davanti ad Amedeo VI, gli altri, educati tutti nella Corte di Savoia, e compagni d’armi dei Conti nei loro primi anni, lasciarono un nome illustre ed amato: Filippo fu politico sapiente e capitano ardito; Amedeo non meno saggio principe che soldato valoroso; Ludovico, gentile d’animo, non inetto alla guerra, protettore e fautore degli studi, quanto era concesso al tempo suo. E ci destano anche un sentimento particolare di simpatia e di curiosità per il fatto di essere passati così, quasi perduti nella gloria dei loro parenti, quattro soli nel corso di più d’un secolo, in un’età tanto remota, in una terra presso che barbara allora appetto a molte altre d’Italia, non celebrati da scrittori nè cantati da poeti, non lasciando di sè che pochi documenti scritti in rozzo latino, e nessun vivo ricordo personale, e nemmeno le pietre e la polvere delle loro tombe; oltre a non so che di strano e di romanzesco che aggiunge al nome loro quel titolo d’un principato lontano, non posseduto mai e ambito sempre, che brillò per cent’anni nei loro sogni come la promessa allettatrice d’un paese fatato.
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Fu quindi una festa per tutta la comitiva quando si vide davanti alla porta spalancata del palazzo, pronto a riceverci, il cortese e còlto canonico Chiabrandi, direttore dell’Ospizio dei Catecumeni. Poichè è da sapersi che il palazzo degli Acaja, dopo essere stato un pezzo proprietà privata, e poi ospedale, serve ora di ricovero e di scuola ai giovani valdesi delle valli vicine, maschi e femmine, che vogliono convertirsi al cattolicismo... o passare un inverno al coperto.
Ma, ahimè! appena si fu nel cortile, si provò un amaro disinganno.
Nessuna parola può dare un’idea della devastazione, che, sotto il nome di restauro, fu fatta di quella povera casa. Lo sciupìo è tale che desta per primo sentimento il desiderio di vedersi davanti tutti coloro che fecero o lasciaron fare, ci fosse anche in mezzo qualche Duca impennacchiato, per dare a tutti quanti, in nome della storia, dell’arte, della poesia e della patria, una di quelle lavate di capo che fanno perder la via di tornare a casa. Il palazzo, fondato nel 1318, ha sei secoli, e può dimostrar benissimo sei anni. Qui fu distrutto, là rifatto; parti nuove vennero aggiunte, con imitazione infelice delle antiche; tutti i muri dipinti d’un color rosso arrabbiato di pomodoro, coi mattoni segnati a contorno bianco, come i piccoli castelli dei giardini di cattivo gusto; dentro, tutto rotto e sformato per fare spazio alle nuove scale; le logge alte, tappate; le sale, tramezzate; le pareti ch’eran dipinte, intonacate; la torre, che si alzava d’un buon tratto sopra i tetti, tagliata via; una rovina senza nome. Le ombre degli spodestati Marchesi subalpini ci debbono venire a ridere una volta al mese. Il palazzo ha press’a poco la forma d’un bidente rettilineo con l’apertura volta verso il Monviso, un piccolo cortile nel mezzo, un piccolo giardino davanti. I tre corpi dell’edifizio son disuguali d’altezza. L’unica cosa che si riconosca d’antico, a primo aspetto, è nel corpo più basso: uno stretto porticato a tre archi schiacciati, il quale sostiene una loggetta, sul cui parapetto s’alzano delle colonnine leggere che sorreggono un tetto a larga gronda, congiunte fra loro da grandi persiane claustrali. Ma chi può dire quale fosse la forma e l’ampiezza del palazzo nel secolo decimoquarto? Per quanto si sappia che vivevano pigiati, ed anco ammesso che facesse parte del palazzo un piccolo edifizio che gli si alza accanto, le cui finestre conservano il disegno e le incorniciature del tempo, è difficile credere che tutta la famiglia dei Principi, e gli ufficiali, e i servi, e gli ospiti principeschi che eran frequenti, vi capissero. Non vi si potevan rigirare. Un’angusta stanza sotterranea che si apre sulla strada e che pare fosse una scuderia, non conteneva certo tutti i cavalli della corte. Ci dovevano essere intorno altri edifizi. Un grosso muro scalcinato che sorge da un lato d’un cortiluccio esterno, dove rimane ancora un antico pozzo da streghe, era forse il muro maestro d’un annesso considerevole del palazzo. Comunque sia, ciò che resta dà l’immagine d’un edifizio meschino, incomodo, troppo stretto per la sua altezza, un che di mezzo tra il monastero, la carcere e una casa da appigionare non terminata. Ma come! vien fatto di dire entrando: di qui fu governato per cent’anni il Piemonte? qui si ricevettero i legati del Pontefice e gli ambasciatori dell’Impero? Qui si ospitò la sposa di Andronico Paleologo, imperatore d’Oriente? Oh! tristissima delusione!
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Si stette un poco nel cortiletto a guardare in alto, scontenti, con un leggero sentimento di pietà per gli antichi Principi; poi s’andò su per le scale. Anche l’interno del palazzo ha un aspetto uggioso di convento e d’ospedale, che gli vien dall’ammattonato rosso vivo, dai muri bianchi e dai crocifissi neri, appesi in fondo agli anditi nudi; nei quali il sole gettava qua e là dei grandi rettangoli di luce d’oro, reticolati di fili d’ombra dalle grate delle finestre. C’era un silenzio di Trappa. Il sacro ospizio non ha presentemente che tre convertiti; la stagione è così bella! Si sentiva sfogliettare un libro su al terzo piano, e di tratto in tratto, intorno a noi, un fruscio discreto di sottane monacali invisibili. Dalle alpi veniva diritta in viso un’arietta deliziosa.... Ci affacciammo a uno stanzone a dare un’occhiata alla travatura antica del soffitto, dove rimane quale mensola rozzamente scolpita e imbiancata. Era forse la camera nuziale dove dormirono il sonno più dolcemente stanco della vita le sette spose della casa di Acaja. Chi può provare di no? Ora ci sono due lunghe file di letti da infermeria, con le coperte di cotone a quadretti bianchi e turchini; e ci dormon le monache e le catecumene, quando ce ne sono. Un altro stanzone del primo piano è convertito in cappella, con un altare da chiesuola di campagna. Non rimane il menomo indizio dell’uso al quale potessero servire le altre stanze. Un principe d’Acaja redivivo non ci si raccapezzerebbe più, sicuramente. Un luccichìo che intravedemmo per uno spiraglio, ci fece accorrere con la speranza di ritrovar delle antiche armature: erano le casseruole della cucina. Mi prese la stizza. Era così penoso quel contrasto fra la curiosità stimolata da mille memorie, fra l’avidità impaziente di vedere, di riconoscere, di scoprire, di capire, e la nudità muta, la stupida ignoranza di quei muri freschi e di quelle scale rifatte! Avrei voluto afferrare un raschiatoio e un piccone, e lavorar come un dannato a scrostar pareti, a sfondar tramezzi, a metter tutto in un monte, per ritrovare un segreto, una immagine viva, una parola almeno del passato! Perchè debbono averne visto quelle vecchie pietre nascoste, e furori d’ambizioni disperate, e scoppi di pianto geloso, e tripudi di vincitori, e audacie insensate di paggi, e secreti d’amore e forse di sangue!
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Girammo lentamente di stanza in stanza, vedendo ogni tanto per certi finestrini ad arco acuto degli squarci luminosi di paesaggio lontano: la cosa che è meno mutata attorno al palazzo, credo io. E mi tornava continuamente in capo questa domanda: — Come vivevano? In che maniera avranno ammazzato le loro giornate, qua dentro, nei tempi ordinari? E m’immaginavo, non so bene perchè, delle ore interminabili di noia in mezzo al grande silenzio di Pinerolo, addormentata sotto il sole di luglio, e delle eterne giornate scure d’autunno, in cui il rumor della pioggia nel piccolo cortile doveva empire il palazzo d’una tristezza da far piangere. Le ricreazioni intellettuali dovevano essere scarse in un paese dove non era traccia d’arte, nè di letteratura, e in cui pochi legisti, qualche monaco e qualche notaro formavano tutto il ceto erudito. Il tema più frequente dei discorsi saranno stati gli amori e i pettegolezzi delle Corti vicine, specie di Savoia e dei marchesati, e i matrimoni e le avventure dei nobili vassalli, sparpagliati da Perosa a Torino. Avranno pure ragionato, in famiglia, degli argomenti spesso delicati o stravaganti delle moltissime liti, per le quali si ricorreva ai Principi contro le sentenze dei giudici dei Comuni. Le udienze accordate ai castellani e ai vicari, l’arrivo dei corrieri di Chambéry, la comparsa di un capitano di ventura che veniva a offrire la sua spada o a fissare i patti per la sua compagnia, saranno stati avvenimenti graditi, e oggetto di molte parole. Tutta quella politica minuta e intralciata di piccoli Stati, quelle contese senza fine per una ròcca, per un mulino, o per un palmo di terra, avranno dato luogo naturalmente a infinite conversazioni del pari intricate e sottili, nelle quali si ripetevano forse mille volte le medesime cose. Un gran discorrere l’avranno fatto pure, prima e dopo, delle corse e delle giostre con le quali festeggiavano gli sponsali e le paci, e di quegli strani banchetti in cui servivano i porci dorati, col fuoco nella bocca, e i vitelli tutti d’un pezzo, con un giardino sul dorso. Anche avranno molto pregato, e discorso molto di cavalli e di cani. Eran più giovanili di noi; avranno sfogliato più assiduamente il libro dell’immaginazione. E davano una parte maggiore alla vita fisica. Il palazzo si sarà assopito di buon’ora dopo i ritorni stanchi delle cavalcate festose, le sere che i pinerolesi vedevan passare in un nembo di polvere dorata dal sole, dietro al viso infiammato d’Isabella d’Acaja, un’onda di cavalli, di levrieri e di paggi. Che diversa vita, peraltro, che violente commozioni dovevan provare in tempo di guerra, quando cento vedette esploravan la pianura dall’alto delle torri e dei campanili, e tutta la città si rimescolava ad un cenno e ad un grido! Dalle finestre del loro palazzo, come dalle logge d’un torneo, le principesse vedevano le milizie uscir dalle porte, e allungarsi in colonne pei campi, e coronar le colline di stendardi e di spade. Quando Filippo assediava Savigliano col fiore della nobiltà sabauda, e allorchè il Principe Giacomo stringeva Saluzzo con Manfredo e col Siniscalco del Balzo, e Facino Cane dava il sacco ad Osasco e Ludovico assaliva Pancalieri, esse vedevano i fuochi notturni degli accampamenti, e i bagliori degl’incendi, e i nuvoli bianchi sollevati dal galoppo degli squadroni. Dovevan martellare gagliardamente i cuori! Era ben altro che ricever le notizie dal bollettino del telegrafo. Respiravano l’aria della battaglia, sentivan passare il soffio della morte. Si capisce come crescessero col petto forte quei Principini e quelle future spose di Principi, che assistevano ai ritorni notturni dalle mischie feroci, tra le lance insanguinate e le fiaccole, in mezzo alle imprecazioni dei prigionieri e agli urli dei mutilati.
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Covando questi pensieri, arrivammo al secondo piano. Qui, finalmente, si ritrovò qualche resto notevole: uno stanzone, che si dice fosse la sala dei grandi ricevimenti, nel quale rimangono qua e là sulle pareti alcuni affreschi a chiaroscuro. Il buon gusto di non so chi li aveva non solamente imbiancati, ma coperti di calce, delicatamente; ed è il direttore dei catecumeni che li rimise alla luce del sole. Occupano un terzo circa dei muri. Il rimanente dev’essere stato raschiato senza pietà dalla zampa d’un asino di cui vorrei essere padrone per ventiquattr’ore. Dalla rozzezza infantile del disegno si giudicherebbero questi affreschi più antichi; ma non si può ammettere che siano, almeno in parte, anteriori alla seconda metà del quindicesimo secolo, rappresentando uno di essi Amedeo IX di Savoia, che tiene in mano una cartella, sulla quale è scritto un suo motto diventato celebre. Ora, essendosi estinta la famiglia degli Acaja nel 1418, tocca agli eruditi a dirci se i Duchi di Savoia hanno abitato per qualche tempo, da Amedeo IX in poi, il palazzo dei Principi, e sotto quale Duca quei dipinti sono stati fatti. Son curiosi saggi dell’infanzia dell’arte, e si direbbe dell’artista, quelli vicini all’uscio, particolarmente: un cavaliere testardo che vuol entrare a tutti i costi, ritto sotto a un baldacchino di trionfo, dentro a una porta di città per cui non potrebbe passar che carponi; drappelli di guerrieri, con facce da tiranni delle marionette, piantati sulla cima di certi colli a pan di zucchero, come spilloni confitti a caso in un cuscinetto, accanto a pini o cipressi tascabili, che arieggiano gli spazzolini da lumi a petrolio; e un ballottìo di case da presepio, d’una prospettiva miracolosa, che dan l’idea d’un villaggio colto colla fotografia istantanea nell’atto d’un terremoto che non lascerà pietra su pietra. Altri dipinti rappresentano Conti o Duchi di Savoia, di pessimo umore. Questa sala è convertita ora in dormitorio dei piccoli catecumeni, i quali riposano così placidamente in mezzo alle immagini minacciose dei persecutori dei loro padri. Null’altro rimane d’antico nell’interno del palazzo. Nulla; nemmeno tre piccoli scalini, a cui si possa domandare, come il Musset alle famose marches de marbre rose, di quale delle belle donne che li premettero avesse il piede più piccolo e il passo più leggero. Nulla. Le povere Principesse ginevrine, viennesi, siciliane, savoiarde, francesi, scomparvero senza lasciare un ricordo, un’immagine neanche contestata delle loro sembianze. Ah! se i cronachisti d’allora avessero descritto le donne con quella minuziosità delicata da mercanti di schiave con cui le mostrano in piazza i romanzieri moderni, quanti preziosi ritratti non avremmo al presente! Come dovevano esser belle e superbe, coi loro alti cappelli conici e con le loro pellegrine d’ermellino, quando si slanciavano a braccia aperte giù per le scale, e schiacciavano rudemente il loro seno bianco contro le maglie polverose dei vincitori di Monasterolo, di Sommariva e di Tegerone! Non avendo altro appiglio, la fantasia s’aiuta col suono dei nomi, il quale dà delle immagini. Non è vero che quel largo nome sonoro di Beatrice di Ferrara, prima sposa di Giacomo, fa vedere dei grandi occhi neri e una grande bocca purpurea, e udire una di quelle voci profonde e calde che rimescolan l’anima? Che arcana cosa son queste simpatie vive per un fantasma del passato a cui abbiamo dato forma noi stessi! Io la vedevo, discorrendo col buon canonico (mi perdoni); inseguivo il lungo strascico della sua veste azzurra che spariva in fondo ai corridoi, e mentre stavo per raggiungerla nel cortile, essa appariva sur una loggia del terzo piano, e quando ero arrivato ansando sulla loggia, la vedevo passare lentamente giù nel giardino. Povera buona Beatrice, uscita dal palazzo dentro la bara, coi fiori ancor freschi delle nozze, morta senza bambini, così giovane, e dimenticata così presto da tutti! Avrà molto sofferto? In che stanza sarà morta? Aveva una amica, almeno, in questa Corte? E Caterina di Vienna, la suocera, l’avrà amata? E come avrà parlato? Il suo dialetto ferrarese? Come doveva esser dolce e triste la sua voce, quando invocava sua madre lontana, stringendosi il crocifisso sul cuore!
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Il mio buon amico Fi, esattore, gastronomo e antiquario, s’ostinava a cercar la cucina, e voleva a tutti i costi che il canonico gliene dicesse qualche cosa. Egli aveva trovato nel Regesto degli Acaja, edito dal bravo conte Saraceno, che la cucina era attigua al parlatorio, camera parlatorii, del Principe: il che dà un’idea della strana maniera in cui doveva essere scompartito il palazzo. E ci divertiva molto, trattenendoci a tutti gli usci, per darci dei ragguagli culinari ricavati dal latino spaventevole dei conti di tesoreria. Nei loro giri per il Piemonte, ch’eran frequenti, i Principi ricevevan regali da abati, da nobili, ed anche da gente del popolo, e da poveri diavoli: cinquanta staia di avena, un moggio di vino, dodici montoni, un bove, quattro porci: non sdegnavano nulla. Tornavano pure a casa con caponibus pinguibus et grossis, e qualche volta con un cesto di tartufi, triffolarum, dei migliori, probabilmente, di quei bianchi, delle terre di Monferrato. Pare che avessero una predilezione per i pesci, perchè tenevano assai ai molti laghi pescosi, che eran loro proprietà esclusiva; e di questi laghi, e dei regali di pesci che ricevevano, in specie dai marchesi di Saluzzo, è fatto cenno frequentemente nel Regesto. Andavano spesso a desinare fuor di casa, con tutta la famiglia, da prelati e da signori; e qualche volta dai frati minori di San Francesco, pagando loro tutto il pranzo, eccettuati i porri e l’insalata, che i frati mettevan di proprio, si crede anche col condimento. Soventissimo pure invitavano al palazzo capitani, nobili, preti, ambasciatori di piccoli stati, cittadini ragguardevoli. Trattavano i loro sudditi, si capisce, molto familiarmente; conoscevano tutti; davano udienza al primo venuto; vivevano con semplicità casalinga, senza misteri. Non pare che facessero grandi spese di lusso. Non si trovan registrate che pochissime spese per lavori di pittura che si facevan fare su pergamene, bibbie e salterii, e nelle stanze dove ricevevano. Erano anche di facile contentatura in fatto di medici: si facevan curare sovente dai veterinari, qualche volta di malattie cutanee poco pulite, e salassare, flebotomare, come dice elegantemente il chierico registratore, da quibusdam barbitonsoribus. Non profondevano quattrini che in giocolieri e menestrelli. Questo era il loro debole. È interminabile la lista dei regali e delle mance date a giullari, a cantastorie, a strimpellatori di chitarra, a tiratori di scherma, ad ammaestratori di cani, ad acrobati che facevano il saltum periculosum, qualche volta in pubblico, ma spesso anche nelle sale del palazzo. Ospitavano essi pure dei Goliardi. Tenevano in casa delle scimmie. Ci ebbero per un tempo un leopardo, col collarino d’argento, e col relativo magistro: oggetto, a quel che pare, di tenerissime cure. Del resto, si trovavano di frequente nelle strettezze, costretti a vendere gli ori e le gioie che avevan ricevuto in dono dai principi. Ricchissimi non potevano essere certamente, a malgrado di tutti i tributi che ricevevano e di tutti i loro diritti su pascoli e su acque, poichè nè la terra nè il popolo, desolati da una ladronaia di soldati che facevan della guerra un brigantaggio, potevano dar loro gran cosa; nè essi medesimi calcavano troppo la mano. — S’ingegnavano, peraltro, diceva l’esattore, con un sorriso d’uomo esperto della materia. Il principe, per esempio, non prestava mica gratis il suo ufficio di giudice supremo: il vincitore della lite gli faceva spontaneamente, per meglio dire, con spontaneità obbligatoria, un regalo in contanti, e, si sottintende, salato. E poi, anche la giustizia criminale era una vera fontana di bezzi. I capi scarichi e i birbaccioni formavano una rendita per la Corte. Chi era preso a passeggiar per Pinarolium, o Pignerolium, o Pineyrolium, senza lume, dopo il suono dell’ultima campana; chi giocava a giochi proibiti, ad taxillos, per esempio; chi portava coltelli non di misura; chi faceva cader la gragnuola sulla città per arte di negromanzia; chi aveva o tentava di habere rem cum quadam filia di età troppo verde, e chi disertava le bandiere, e anche chi ammazzava il prossimo, scampavano facilmente alla prigione, e al boia, vuotando la borsa, se l’avevano, nelle tasche dell’amato sovrano. E in questi casi, naturalmente, chi più n’aveva, peggio stava. Un infelice canonico di San Donato, più danaroso che continente, per aver tentato appunto di habere rem con una parrocchianetta troppo acerba, solamente tentato, era ridotto addirittura sul lastrico; e per contro, un falegname che aveva spacciato un cristiano, se la cavava rifacendo il tetto a spese proprie a una torre del castello di Moncalieri. — Costava caro, come vedete, concludeva l’esattore, abbassando la voce, era un affar serio habere rem.... sotto i principi d’Acaja.
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Eravamo rimasti al secondo piano, mi pare.... Al terzo non c’è da vedere che la stanzina di studio del direttore, il quale, senz’avere una grande biblioteca, possiede senza dubbio molti più libri di quanti n’abbiano mai letto tutti insieme in cento e vent’anni i quattro Principi della casa d’Acaja. Tutt’in giro a quest’ultimo piano pare che ricorresse una loggia, sulla quale forse si drizzava una merlatura simile a quella degli altri muri. Le Principesse, probabilmente, stavano qui la sera a godere l’aria dei monti, con le figliuole; e qui forse trapunsero le prime ciarpe da torneamenti, fantasticando sul proprio avvenire, Margheritina, la piccola greca, figliola d’Isabella, e la bimba Eleonora, e Alasia ricciuta, e Melchide sposa futura dell’Elettor di Baviera. Da questa grande altezza, quasi librate nell’azzurro, vedevan lì sotto, a pochi passi, la bella chiesa di San Francesco, dove riposavano i loro padri e i loro fratelli, e di cui non esiste più traccia; e tutt’intorno, Pinerolo con le sue mura merlate e coi suoi ponti a levatoio, e il viavai delle sentinelle sugli spaldi delle torri, rispecchiate dall’acque immobili dei fossi. E con un solo giro dello sguardo potevano abbracciare quasi intero il Piemonte, centinaia di borghi e di ròcche soggette a loro, od amiche, o nemiche, o malfide; che videro ventiquattro guerre durante il regno di quattro Principi; una pianura meravigliosa, nella quale miriadi di miriadi di alberi salgono in lunghissime file verso i santuari biancheggianti come cubi di neve sulla cima dei colli, si serrano, come eserciti, in masse profonde, si schierano in vasti quadrati attorno a campi color di malachite chiarissimo, convergono in processioni sterminate verso le città, serpeggiano a mille a mille lungo i fiumi e i torrenti, precipitano a legioni giù dalle chine, e incrociano le loro fughe in tutte le direzioni ed empiono gli avvallamenti lontani di vaste moltitudine confuse, presentando innumerevoli sfumature e contrasti di verdi fortissimi e dolci, fin dove il colore della vegetazione si cangia in un azzurro poderoso, e poi digrada in un azzurro gentile, tagliato da una linea immensa e diritta come l’orizzonte del mare.
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Discendemmo adagio adagio, come se a furia di ficcare gli occhi per tutti i buchi si fosse dovuto scoprire almeno qualche annosissimo servo incartapecorito, dimenticato dalla morte, dal quale si sarebbe potuto saper qualche cosa. Ciascuno metteva coll’immaginazione i suoi personaggi prediletti della casa d’Acaja negli angoli del palazzo, e negli atteggiamenti che gli parevan più propri a dar vita alla sua larva. Un mio amico, invece, si stillava il cervello per capire dove avessero potuto “alloggiare„ Ludovica del Villars nel dicembre del 1362, mentre c’era già in casa la terza sposa di Giacomo; gravissimo quesito per un storico e per un direttore di albergo. I ragazzi si seccavano. Uno di essi domandò timidamente: — Ma.... dove sono questi Principi d’Acaja? — La più eccitata era una signorina, la quale pensava con un sentimento vivo di tenerezza che il povero Filippo, il diseredato, doveva aver passeggiato per molte e molte ore sotto quel portico, col capo basso e le braccia incrociate, nei giorni che cominciava a presentire le sua disgrazia. Filippo era la sua simpatia. — È una brutta cosa, diceva con calore, che nessuno storico di Casa Savoia abbia detto una parola ardita e generosa in sua difesa. — Andiamo! le rispose l’amico dell’“alloggio,„ ha fatto la guerra da bandito. — La signorina scattò: — Chi n’aveva fatto un bandito? — No veramente, non era giusto. Non era soltanto la coscienza del suo diritto di primogenito che gli rendeva intollerabile di veder destinato il retaggio del padre Giacomo al figliuolo della matrigna; era pure, e più forse, il ricordo di essere stato investito a sette anni di tutti i dominii che gli spettavano, de omnibus civitatibus et burgis, e d’aver ricevuto l’omaggio solenne de’ suoi futuri vassalli, in logiam sumiarum, vicino alla grande torre rotonda del castro di Pinerolo. Erano quindici anni ch’egli si teneva sicuro di succedere al padre, quando vide entrare in casa la bella Margherita di Beaujeu, e nascere un bambino in cui l’indole ambiziosa e imperiosa della madre gli fece sospettare fin dalle prime un rivale. La signorìa che la bella donna va pigliando ogni dì più sul marito debole e innamorato, lo afferma a grado a grado nel suo sospetto. L’animo suo s’inasprisce. Crescendo la diffidenza, scema il rispetto, e la freddezza del padre risentito fa peggio. Allora egli parla dei suoi diritti, facendo sonare il passo irato nelle sale del palazzo non più suo, e guarda con gli occhi pieni d’odio quella donna astuta e intrigante il cui unico pensiero è la sua rovina. Egli non ne dubita più oramai. A lui sarà gettata l’elemosina di quattro case e di quattro campi perchè pieghi la fronte di vassallo dinanzi al figliuolo dell’amor senile di suo padre. E il solo che lo potrebbe proteggere, Amedeo di Savoia, lo condanna, e vuole che sacrifichi tutte le speranze della sua vita alla concordia della famiglia! Eppure, sì, quando egli è al cospetto del Conte Verde, quel viso di prode lo soggioga, quella parola nobile e ferma lo persuade: due volte, commosso da lui, egli rinunzia generosamente ai propri diritti. Ma quando torna alla casa paterna, quando rivede l’occhio azzurro e freddo di quella madre egoista, e risente la voce di quel bimbo, nato per la sua sventura e per la sua vergogna, e ha sentore del testamento che lo spoglia per sempre dell’aver suo, anche in caso di morte dell’usurpatore, l’ingiustizia allora gli risolleva l’odio nel cuore, l’ira gli risale per le arterie in ondate di fuoco e gli mette la bandiera della rivolta nel pugno. Amedeo è salpato per l’Oriente; il popolo, sciolto dal timore di lui, i vassalli memori del loro antico giuramento, si leveranno in favore del diseredato. Ebbene, se tutto gli fosse andato a seconda, mancandogli così ogni occasione alla violenza e alla vendetta, la storia avrebbe detto di lui: — Aveva ragione. — Ma non un braccio si leva dalle sue terre, non una voce risponde al suo grido fra quella gente cocciuta, in cui la consuetudine dell’ubbidienza brutale è più forte che il sentimento della giustizia. Esasperato dal disinganno, egli s’indraca allora contro i sostenitori senza coscienza, contro i complici paurosi di quella ladra di principati, che coll’amplesso lascivo ha soffocato nell’anima di suo padre il sentimento dei primi affetti e il rispetto delle solenni promesse. Sanguini, urli dunque sotto le spade e in mezzo alle faci incendiarie dei suoi inglesi e dei suoi alemanni prezzolati, quello stupido pecorame di popolo, poichè è sordo alla voce del diritto e della ragione. Da Barge a Chieri, da Costigliole a Torino, egli passa come un uragano, furioso, accecato, delirante, ma non colpevole di tutte le violenze della sua turba feroce e forse straziato dentro e atterrito dell’opera propria. Il suo cuore non è impietrato. Quando Giacomo fugge a Pavia, una speranza, forse un pentimento lo risospinge verso di lui: corre a Pavia, chiede perdono, riconduce il padre alla sua città, lo circonda di affetto e di cure. Ma il padre muore senza esaudirlo. Una nuova speranza gli brilla al ritorno d’Amedeo da Costantinopoli. Ma il Conte di Savoia proclama solennemente la successione del fanciullo e la reggenza della matrigna. Tutto è finito, dunque. Abbandonato dai Principi a cui ricorre, respinto dai suoi popoli, malsicuro dei suoi mercenari, a che pro raccoglierebbe il guanto di sfida che gli getta l’implacabile Amedeo, chiamandolo traditore e bugiardo, perchè giochi la vita con lui davanti alla Corte dell’Imperatore? Non è il solo pensiero della vanità della prova, forse, quello che gli trattiene la spada: è un resto della riverenza antica per il capo della sua stirpe, è un senso nuovo di ammirazione per l’eroe dell’Oriente, salutato dal plauso del mondo. La lotta non è più possibile. Stretto in Fossano, viene a patti. Con un salvacondotto del vincitore cavalleresco, si reca a Rivoli senza timore. Un Consiglio di giurisperiti deciderà fra lui e Margherita. Forse tutto non è perduto. Ma che! A Rivoli, dinanzi al Conte di Savoia, egli si trova in faccia alla matrigna odiata, che lo accusa delle devastazioni e del sangue. Invano egli invoca il salvacondotto. Mentre il Consiglio delibera sulla successione, un altro Consiglio gli forma processo criminale. Egli non può sbugiardare le accuse, deve pur confessare che s’è ribellato, che ha incendiato, che ha fatto sangue.... Allora, nello sguardo del Conte di Savoia, nell’accento dei Commissari, nell’atteggiamento de’ suoi custodi, indovina forse una sentenza tremenda; un misto di rimorso e di pietà di sè stesso gli opprime l’anima, si sente venir meno il coraggio, invoca la misericordia del suo signore.... Che cosa avvenne di quel disgraziato? Il giorno 13 ottobre del 1368 fu ancora interrogato una volta dai suoi giudici nelle prigioni di Avigliana. Poi non se ne seppe più nulla. Fu ucciso? Ma non c’è indizio d’una condanna di morte che sia stata pronunciata contro di lui. Si uccise? Ma perchè non si seppe? Delle due supposizioni, è più ragionevole la prima pur troppo. Ah! ma è doloroso.... ripugna il mettere una macchia vermiglia sulla gloriosa assisa verde d’Amedeo!
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Queste cose, o presso a poco, doveva dire tra sè la signorina, mentre scendevamo nel giardino, poichè i suoi begli occhi verdi luccicavano come due smeraldi inumiditi e le sue narici sottili vibravano come due alette rosate di farfalla. Il giardino lungo e stretto, chiuso tra quattro muri, è un giardinuccio malinconico di chiostro, fatto piuttosto per dirvi degli atti di contrizione, che per commettervi dei peccati. È incredibile che quello fosse tutto il giardino della Corte: doveva risalire o discendere il colle a scaglioni e a gradinate, e stendersi molto più in là verso le mura. Non di meno, visto di lì sotto, il palazzo antico degli Acaja, così alto, nell’ampio azzurro, coi suoi merli, con le sue finestre arcate, con le sue logge aperte, con la sua torre rotonda e leggera, doveva offrire un aspetto gradevole, o, se non altro, curioso. Ed anche nel giardino ci tenne dietro Filippo, il protagonista della giornata. Non ci fu rimedio. La poetica signorina si commoveva da capo, pensando ai suoi amori di fanciullo. Ah! un idillio gentile davvero che raccomando al mio buon Marenco, per la piccola Cuniberti. Quale argomento più grazioso che le avventure di due sposi di sett’anni? Filippo forse non li aveva ancora quando suo padre Giacomo, collo scopo d’amicarsi il Conte di Ginevra, il quale, come tutore d’Amedeo VI, poteva giovargli presso la Corte di Savoia, concertò il matrimonio del principino con Maria, figliuola del Conte, nata da Matilde di Bologna. Sciolto il ragazzo, col consenso del papa, dai vincoli dell’autorità paterna e proclamato erede dei dominii di Giacomo, si stipulò il matrimonio in forma solenne, al cospetto di molti personaggi ecclesiastici e secolari, fissandosi una dote di quindicimila fiorini d’oro; alla quale parve che il fidanzato si mostrasse affatto indifferente. Le promesse vennero fatte nel 1346. L’anno seguente scese in Italia la sposa. Filippo aveva compito il settennio; la sposa poteva avere otto o dieci anni. Essa portava con sè uno scrigno pieno di gioielli, che suo padre affidò all’abate di San Michele della Chiusa, perchè lo rimettesse agli sposi quando il matrimonio fosse consumato, o lo restituisse alla famiglia quando il matrimonio andasse a monte. Gli sposini non essendo ancora in età di consumar altro che dei confetti, furono celebrati intanto gli sponsali; e la bimba rimase alla Corte degli Acaja ad aspettare gli anni dell’amore. Come avranno passato quel tempo i due ragazzi? Senza molta impazienza, si può credere. E nessuno gli avrà vigilati, di certo. Si saranno rincorsi mille volte per i viali di questo giardino. Essa avrà parlato del cofanetto miracoloso dell’Abate, egli dei bei puledri che avrebbero fatto caracollare insieme per le vie di Pinerolo, tra pochi anni. Sibilla del Balzo, che era ancor giovane, avrà fatto da mamma alla piccola nuora. Qualche bacio innocente nel collo alla sua ginevrina, Filippo ce l’avrà stampato, qualche volta, in mezzo ai roseti. Si saranno posti affetto l’un l’altro? Si saran bisticciati? Quanti lieti pronostici avran fatto i vassalli striscianti e le dame adulatrici! Ah poveri pronostici d’amore! Amedeo VI cresceva; nel 1347 usciva di pupillo. A che poteva giovare il Conte di Ginevra, scadendo dal suo ufficio di tutore? E allora, perchè il matrimonio? Con un tratto di penna, tutto fu sciolto. La povera sposina fu liberata dalle promesse. Le fecero un involtino delle sue bricciche, le rimisero in mano la scatoletta dei suoi gingilli, e la rimandarono al babbo e alla mamma... com’era venuta. Le cronache non dicono se i due ragazzi abbian singhiozzato separandosi, e maledetto “l’iniqua ragion di Stato.„ Si separaron forse con un sorriso. Ma chi sa che molti anni dopo, quando era sposa di Giovanni di Chalon, signore d’Arlay, udendo la miseranda fine di Filippo d’Acaja, la giovine signora non abbia pensato con tenerezza al suo piccolo fidanzato d’un tempo e lasciato cader una lagrima su quella memoria gentile!
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Avevamo visto tutto, e stavamo per uscire, quando s’accese una discussione vivace tra la signorina e l’esattore intorno alla “mitezza„ dei principi d’Acaja. L’esattore peraltro ci metteva una puntina di malignità, e faceva un po’ per chiasso. — Infine, saranno stati miti, diceva; ma fatto sta che nel registro dei loro conti c’è segnata di tratto in tratto una somma per l’acquisto d’una corda nuova, pro magna corda de nouo, che non serviva certamente a far all’altalena. Sì, perdonavano molti delitti.... per denaro. Ma quando i colpevoli erano spiantati, facevano torturare e impiccare de bon cuer, come scrive il mite Amedeo, con ortografia principesca. Uno aveva l’auriculam incisam, l’altro il naso deputatum, un terzo la fronte rabescata col ferro calido, un quarto, gli oculos decrepatos; una donna era combusta, nientemeno; un vecchio annegato come un cane; un altro rabellatus, trascinato alla forca per una corda attaccata alla coda d’un’asina comprata da un’ebrea. E per parua furta si contentavano di sbrindellare le cuoia a vergate. Le pare che sia mitezza, signorina? E quell’altra birbonata di tenere sepolti gli ostaggi in una torre, per anni e anni, dei poveri ragazzi astigiani, che ne uscivan mezzo morti? Perchè non facevano l’inferno per liberarli, quelle dolci principesse? — Ebbene, la signorina l’avrebbe fatto l’inferno, ne potevamo andar sicuri; ma quella di dar carico ai Principi dell’atrocità della giustizia punitiva, che era mostruosamente atroce da per tutto, in quel tempo, le faceva alzare le spalle (ammirabili). Conosceva anch’essa il famoso regesto, e sapeva che la mitezza degli Acaja si poteva dimostrare con altre prove. Bisognava vedere, per esempio, in qual maniera punivano le colpe che offendevano soltanto le loro persone. Un Barnabò non si sarebbe contentato di far pagare una piccola multa a chi avesse parlato in pubblico contro il suo onore; Galeazzo avrebbe levato qualcosa di più che pochi fiorini ad una donna che avesse bruciato in chiesa il banco d’una principessa, la vigilia del suo onomastico; nè altri Principi d’allora pagavano alla povera gente, come usavano gli Acaja, i danni fatti dai loro cani e dai loro falconi; no sicuramente. — Andiamo, le concedo questo, — rispose l’esattore; — ma non potrà negare che quella di far dormire le principesse sulla paglia era una vera barbarie. — Tutti gli diedero sulla voce: era un calunniatore. Ma egli addusse la prova, una somma registrata nei conti pro precio unius charrate palearum pro lectis faciendis pro adventu damicelle Bone; Bona principessina, figliuola d’Amedeo.... — Ci avranno dormito tutti sulla paglia, — osservò la signorina. Che! Che! — rispose l’altro trionfante, il dominus dormiva sulla lana. C’è registrato. Lanam materacii ad opus domini. Che mi viene a contare! — E allora tutti risero, e la discussione finì in quella maniera, sul morbido, come non sogliono finire le discussioni con gli esattori.
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A forza di ricordare e d’immaginare, insomma, uscimmo tutti dal palazzo con la gradita illusione d’aver visto mille meraviglie. Gran bel dono, proprio, quello dell’allucinazione volontaria! Per questo, io potrei dare dei punti a quel caro signor Joyeuse del Nabab, il quale, andando la mattina all’ufficio, si rappresentava così al vivo l’atto del direttore che gli dava una gratificazione di mille lire, e vedeva così nettamente il suo biglietto bianco e i suoi colleghi verdi, che arrivato alla banca, rimaneva ogni mattina stupito e avvilito di non ricever la croce d’un quattrino. Io pure, ritornando verso la villa Accusani, mi raffigurai, e posso dire d’aver visto davvero una stranissima cosa. Mi trovavo sopra un alto ballatoio del palazzo degli Acaja, e vidi sorgere tutt’a un tratto accanto a me i quattro Principi morti, diritti stecchiti nelle loro armature corrose, coi visi consunti e con gli occhi orribilmente infossati sotto le fronti che mostravan l’osso nudo. Si fregaron le palpebre cadenti come destandosi da un altissimo sonno, e s’atteggiarono a un’espressione di stupore indescrivibile, riconoscendo a poco a poco la pianura immensa e i luoghi vicini e lontani dove avevan combattuto durante la loro vita mortale. E si vedevan passare nel loro sguardo lento e girante mille curiosità e mille inquietudini, come se domandassero affollatamente a sè stessi: — Che fu del nostro sangue? Dove sono i nostri nemici? Che cosa avvenne dei Marchesi di Saluzzo e di Monferrato? E le repubbliche d’Asti e di Chieri? E i re di Sicilia? E i Signori di Milano? — Principi! — io gridai allora; e i quattro teschi si voltarono. — Non c’è più Marchesi di Saluzzo, non c’è più Marchesi di Monferrato, non c’è più repubbliche d’Asti e di Chieri, non c’è più dominii piemontesi nè di Re di Sicilia nè di Visconti: fin dove arriva il vostro sguardo, sventola l’insegna della vostra famiglia, splende la croce bianca di Pietro II, vostro progenitore di Savoia. — I loro occhi cavernosi mandarono un lampo, dilatandosi, e si fissarono profondamente ne’ miei. — Principi! — ripresi, — quello che appena avreste osato ambire in segreto, nei più audaci sogni della vostra giovinezza, tutta la bella riviera di ponente, e le terre dei Gonzaga, e i possedimenti degli Scaligeri, e i domini degli Estensi, e le quarantadue città di Gian Galeazzo, son raccolte sotto lo scettro dei vostri nipoti, e glorificano il nome della vostra stirpe.... Ascoltatemi! — gridai, frenando col cenno un movimento impetuoso con cui si traevano indietro. — Ciò che non avete mai sognato un istante, nemmeno nei più febbrili delirii della vostra ambizione, nei giorni di battaglia e di trionfo, la città poderosa e superba, che portava il terrore tra i Saraceni, e che voi salutavate con riverenza salpando pel mar di Liguria a tentar la conquista del vostro principato di Grecia; e quella più formidabile e più bella, signora del mar dell’Adria, che avrebbe potuto coprire i vostri domini con le vele distese dei suoi navigli; e quell’altra piena d’oro e di gloria che ammiravate di lontano come un immenso chiarore all’orizzonte, e da cui vi giunsero come echi di un nuovo mondo i nomi immortali di Giotto e di Dante, sono unite sotto il regno del vostro sangue, e portano nella stessa bandiera la croce della vostra Casa!... Ascoltatemi ancora! — gridai con tutte le forze del mio petto, soffocando un’altissima voce che stava per prorompere dalle quattro bocche spalancate e convulse. — Immaginate avverato il sogno d’un pazzo, incominciata l’età dei prodigi, le leggi del mondo sconvolte: tutte le terre soggette ai vicarii di Cristo, da Radicofani a Ceprano, l’Emilia, i possedimenti della duchessa Matilde, Spoleto, tutto quanto è mai stato donato da Re o da popoli a San Pietro e ai suoi successori; e tutto il vasto paradiso sul quale ondeggiò per tant’anni il vessillo temuto di Casa d’Angiò; e tutta la terra splendida e favolosa che sottostette alla spada d’Aragona; tutto, tutto, da un estremo all’altro della penisola enorme, popolata di mille città e armata d’un milione di spade, tutto riconosce e inchina un Re solo, un Umberto di Savoia! — A queste ultime parole i quattro Principi d’Acaja rimasero un momento immobili e muti, girando intorno i loro grandi occhi insensati; poi barcollarono come percossi da una mazza ferrata sul cranio, e stramazzarono riversi tutti insieme nell’oscurità del sepolcro.