Alle porte d'Italia/Pinerolo sotto Luigi XIV
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ALLE PORTE D’ITALIA
PINEROLO SOTTO LUIGI XIV
- Al Signor Carlo Toggia, a Torino.
Pinerolo, 22 luglio 1675.
Ti ringrazio della bella lettera, la quale, dopo tanti mesi di silenzio, m’è stata cagione di vivissimo piacere. Ti porgerà questa mia il signor Pietro Osasco, procuratore di S. A. R. il duca di Savoia; il solo pinerolese al quale io possa confidare una lettera pericolosa con la speranza che i vostri riveriti padroni non gli ficchino le mani nelle tasche. Grazie delle affettuose domande intorno alla famiglia. I fratelli, le sorelle, tutti son sani come pesche. Io pure, grazie a quest’aria purissima che vien dai monti, e nonostante le molte noie della mia professione, se non schiatto dalla salute, almeno posso dire che i medici non hanno mai visto il colore del mio letto. Se anche non mi tenessero qua i miei affari, ci starei forse egualmente, perchè ci ho messo le radici, e mi pare che non potrei più trapiantarmi senza pericolo. La città mi piace infinitamente. Vista dall’alto, posta com’è all’imboccatura di due bellissime valli, ai piedi delle Alpi Cozie, davanti a una pianura vastissima, seminata di centinaia di villaggi, che paiono isole bianche in un mare verde e immobile, è la città più bella del Piemonte. Il mio povero padre soleva dire che qui, per imparar la storia di Casa Savoia, basta leggerla una volta sul tetto: guardando intorno, si possono seguire le mosse degli eserciti e le vicende delle guerre come sopra una carta geografica sterminata. Ma questo è più strano: che vi si può studiare con eguale vantaggio il Nuovo Testamento, poichè v’ha una rassomiglianza singolarissima di giacitura e di dintorni tra Pinerolo e Gerusalemme. Come la città santa, questa è fabbricata in parte sopra un’altura, e scende allargandosi al piano: il colle di San Maurizio è il Sion, l’altura della cittadella è il Golgota, il monte di Santa Brigida, monte Moria; e, non solo per sito, ma per forma, la valle del Lemina rappresenta la valle di Giosafat; ed anche Pinerolo ha dalla parte di levante un monte Oliveto, e il torrente Chisone può raffigurare il Giordano. Che te ne pare? Avrei ragione di star qui volentieri, non foss’altro che per studiare la storia patria e la storia sacra.
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Ma lasciamo gli scherzi. Risponderò alle tue domande, minutamente, come desideri. Pur troppo, non ho cose molto liete da dirti. Tolto il piacere di ber l’aria fresca e di ammirare il paese, a Pinerolo si vive miseramente. Se anche non vi fosse l’ombra di uno straniero, la città, con questo cerchio che la strozza, di bastioni, di mezzelune e di controguardie, e con quella enorme cittadella che le rizza sopra la testa i suoi cinque torrioni di malaugurio, non potrebbe essere allegra. Mettici ancora un governatore generale, francese, un luogotenente del re e un comandante del castello, francesi, e uno stato maggiore che non finisce più, e un nuvolo d’ufficiali e di soldati di milizia mobile, francesi; e mi saprai dire come ci si campi. Essi ci detestano e noi li odiamo. Essi ci tengono come vinti e prigionieri, noi li trattiamo da invasori e da giandarmi. Essi fiutano in ogni pinerolese una spia del duca di Savoia; noi temiamo in ciascun di loro un delatore del Saint-Mars. È impossibile farsi un’idea delle angherie a cui siamo soggetti. Di città non s’esce senza un permesso del Governatore; di casa non si può uscire che a quell’ore determinate; per una celia che scappi di bocca all’osteria, si è agguantati e ingabbiati; in ogni valigia di viaggiatore italiano sospettano veleni e pugnali; in ogni pezzo di carta, vedono il disegno della fortezza. E ogni volta che credon di cogliere uno di questi traditori immaginari, è il finimondo: inchieste, minacce, corrieri a Parigi, ammonizioni a Torino, scacciati di città gli italiani che non vi hanno dimora fissa, licenziati dal servizio delle autorità i piemontesi e i savoiardi, visite e inquisizioni in tutti i canti. Puoi esser certo che non si troverebbe in tutta Pinerolo nè un moschetto nè una pistola, a pagarli a peso di rubini. Naturalmente, da parte dei cittadini, sono lagnanze e richiami continui; e, anche più naturalmente, le autorità non se ne dànno per intese. Prepotenze aperte e impunite da un lato; e dall’altro rivolte e vendette, s’intende, ogni volta che si posson fare copertamente. Duelli, ammazzamenti, furti, ripeschi amorosi che finiscono con un occhiello nel ventre, son cose d’ogni settimana. Le gaîtés du sabre, come le chiamano, sono oramai la nostra ricreazione abituale: viviamo sotto il materno regime della Lama. Aggiungi che i nostri buoni amici credono d’aver diritto sulle nostre donne come sui loro cavalli. Tu vedi le conseguenze. Non puoi immaginare con che superbia, con che muffa si sbacchian le spade negli stivali questi bravacci gallonati del grande Sottaniere di Versailles! È Lui, infatti, quello che dà il tono a tutti quanti. E son grossolani, con tutto questo, e ignoranti, da disgradarne i montanari del Talucco. Per dartene un esempio, io ce n’ho uno, alloggiato in casa mia, un luogotenente De Rivière, un gran perticone del reggimento di Navarra, che scrive con la sua bella mano inanellata: Suivant lordre que jai recu a Pignierolle.... Ci parliamo, nondimeno, perchè non ci possiamo scansare. Egli batte sempre sullo stesso chiodo: la slealtà della politica di Savoia. E io tiro via a ribattergli che sarebbero ameni assai un orso bianco e un orso nero, i quali, stringendosi addosso un veltro per divorarlo, tacciassero di sleali le giravolte ch’egli facesse in mezzo a loro, per tenerli a digiuno tutt’e due.
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Noi ci troviamo qui in una condizione di cose unica al mondo. Dentro alla cinta delle fortificazioni ci sono due città. La cittadella, colle sue prigioni e con la sua compagnia franca, è separata affatto da Pinerolo. I suoi ponti levatoi, sempre alzati, non si calano che per far entrare le provvigioni da bocca e i corrieri. Il Saint-Mars che nella sua qualità di governatore del castello dovrebbe sottostare al marchese d’Herleville, governatore generale della città, se ne infischia, e fa le sue sette volontà come un sovrano. Quindi si guardano in cagnesco, fra loro, e credo anzi che ciascuno tenga una spia alle costole dell’altro, e che il Louvois, da Parigi, li faccia spiare tutti e due. Ne segue che la cittadella è un piccolo mondo a parte, oggetto di preoccupazione continua non meno per la guarnigione che per i pinerolesi. Gli ufficiali, i viaggiatori, i cittadini girano intorno a quelle alte muraglie impenetrabili, divorati dalla curiosità, fantasticando, poichè non posson far altro, sui prigionieri misteriosi e sugli strani avvenimenti che vi si debbon nascondere; tanto che finiscono col ragionare delle cose immaginate come di cose reali. Chi ci sia dentro ora, non si sa con certezza, fatta eccezione dell’intendente Fouquet, del suo servo, il famoso Eustache Dauger, del più famoso conte di Lauzun, e di due ufficiali di artiglieria, francesi, dei quali non s’è ancora riusciti a scoprire nè il delitto nè il nome. Ma si crede che i prigionieri sian molti. Ogni tanto ne arriva uno, di notte, scortato da un drappello della compagnia franca, e lo conducono nella cittadella senza attraversar la città, facendolo passare per la porta segreta di San Giacomo, a cui si giunge per un sentiero sinistro che serpeggia tra la lunetta di Santa Brigida e quella di Sault. Presentemente si fa ancora un gran discorrere intorno a uno sconosciuto, portato lassù nell’aprile dell’anno scorso, con grandissima segretezza, una notte di pioggia, in mezzo a uno stuolo di cavalieri, comandati dal luogotenente Saint-Martin; e rinchiuso, dicono, nella torre chiamata torre bassa, che è quella di mezzo del castello, e la più tetra delle cinque. Raccontano che fu portato in lettiga, che veniva da Lione, che aveva sul viso una maschera di ferro. Chi crede che sia il conte di Beaufort, chi vuole che sia figlio di Cromwel. I soliti almanacchi. Per me, quando penso ai molti birbaccioni volgari che passaron per grandi personaggi perchè furon portati quassù, chiusi in gabbie, come tigri ircane, o in bussole, come principesse rapite, larvati, imbacuccati e tappati come se lo scoprimento della loro persona dovesse sconvolgere il mondo; mi pare cosa molto probabile che anche questo nuovo venuto non sia che un malfattore di dozzina, come chi dicesse il capo d’una delle cento congiure che si vanno scoprendo di continuo, o un avvelenatore di Corte, od anco un galantuomo qualsiasi, che ha detto quattro crude verità in faccia a Sua Maestà il Re di Francia.
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Comunque sia, tutti gli sguardi e tutti i pensieri son rivolti al Castello. Su dieci pinerolesi io credo che sette lo sognino tutte le notti. Chi sia il nuovo confessore concesso dal Re ai prigionieri, quanto abbia speso il Governo nel mese scorso per la mensa del Fouquet, che secreti si sia lasciato cascare dalle labbra, nel suo ultimo viaggio, quel grand’uomo del D’Artagnan, e che cosa sia venuto ad armeggiare il personaggio sconosciuto che fu visto uscire due giorni addietro dalla casa del Governatore, sono argomenti di chiacchiere interminabili, indovinelli meravigliosi, su cui centinaia di persone si scervellano dalla mattina alla sera, non avendo altro da fare. La curiosità è così smaniosa che la stessa marchesa d’Herleville s’è inimicata con la signora Saint-Mars (una delle più belle e delle più sciocche creature che si sian mai viste con due occhi) per il dispetto di non aver potuto visitare il Castello come voleva. Il Saint-Mars è affollato di tante domande indiscrete e supplichevoli intorno ai suoi ospiti, e in special modo alla maschera di ferro, che ha preso il partito di raccontare a ciascuno una fandonia diversa, la prima e la più strampalata che gli passa pel capo, con la speranza che, mettendole poi a confronto e riconoscendosi corbellati, i curiosi si sdiano dall’interrogare. Questo Saint-Mars, antico moschettiere, soldataccio di ventura, affamato d’oro come un usurario, che si becca la bagatella di centocinquantamila lire francesi all’anno, oltre a quello che raspa nell’amministrazione; piccolo, brutto, con un muso di bertuccia, sempre rannuvolato come il cattivo tempo, irascibile e bestemmiatore come un vetturale, tutto carne e pelle col Louvois per via della sorella di sua moglie; è il tipo nato del ferro di polizia e del carceriere aguzzino, che Dio gli mandi il malanno. Non si assenta un giorno all’anno dalla sua bicocca, veglia sulle sentinelle dalla finestra, fruga i panni dei prigionieri mentre dormono, è capace di passar la notte sopra un albero per scoprire che cosa fa nella cella un disgraziato che gli dà sospetto. Questa specie di porco spino, circondato di mistero e di paura, non è l’ultima delle cagioni per cui a Parigi e alla Corte si parla come d’un recesso strano e quasi fantastico, di questa fortezza solitaria, posta all’ultimo confine dello Stato, ai piedi della quale vengono dalle sale splendide di Versailles i sospiri, i saluti e l’oro di tante belle, a cercare gli amici o gli amanti. Ma chi può farla al Saint-Mars? Ai prigionieri più gelosi porta egli stesso il mangiare una volta al giorno; due sentinelle girano dì e notte intorno alle torri; nella stanza che sta sopra a ogni cella, dorme con gli occhi aperti un ufficiale; ai reclusi non è permesso di confessarsi che una volta l’anno: assistono alla messa da un finestrino obliquo che li nasconde; e quando si cambia la gente del presidio, il cambio è regolato per modo che gli ufficiali e i soldati che vengono non possano barattare una parola con gli ufficiali e coi soldati che se ne vanno. Che delitto avran commesso la maggior parte di quegli infelici? Un libello, una canzonetta impertinente, uno scherzo mordace, che fece ridere furtivamente dieci cortigiani e dieci dame. La collera d’una amante del Re o di un ministro bastò a farli sprofondare in quel sepolcro, dove alcuni muoiono in capo a pochi anni; e quando la notizia della loro morte giunge a Parigi, accade non di rado che chi li ha fatti seppellire non si ricordi più nè del loro nome nè della loro colpa. Ah! la giustizia non ha la mano leggera di qua dal confine, te lo assicuro io. A quando a quando, sulla cima del colle di San Maurizio, si sentono gli urli dei prigionieri indocili, ai quali “dànno la disciplina.„ Giorni fa, dalle carceri basse, si son viste uscire barcollando, soffocate dai singhiozzi, istupidite dal terrore e dalla vergogna, tre meretrici della città, ancora giovani, alle quali, non so per che colpa, avevan raso i capelli e lacerato la schiena a sferzate. Io ricorderò per tutta la vita, rabbrividendo, quegli orribili crani nudi e quei miseri cenci bagnati di pianto e di sangue.
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Riguardo al Fouquet, me ne duole, non mi trovo in grado di soddisfare la tua giusta curiosità: so questo soltanto, che in dieci anni da che è qui, tutto occupato a far la digestione, un po’ laboriosa, dei trentasei milioni del castello di Vaux, non gli è ancora stato concesso di riveder la moglie e i figliuoli. Si sa per altro che può, quando vuole, stare in compagnia del Lauzun e degli ufficiali della cittadella, e che al Saint-Mars è permesso dal Re d’invitarlo a pranzo, e di fargli gustare, oltre ai suoi piatti, le scioccherie della sua signora. Pare che sia rassegnato e tranquillo. Ti posso dire qualcosa di più del conte di Lauzun, che è confitto qui da quattro anni, e che ci starà un altro bel pezzo, se Dio m’esaudisce. Dopo ch’è venuto lui, il Saint-Mars non ha più un’ora di bene. Gli dà più da fare questo rompicollo di dragone, che tutti gli altri prigionieri insieme. Superbo, furioso, scontento di tutto, manesco come un facchino, schiamazzone come un banditore d’incanti, è riuscito a ordire intrighi amorosi dentro e fuori della cittadella, e a far più chiasso a Pinerolo di quello che ne facesse a Versailles. Le sue ultime due amanti, la Grande demoiselle e la bella La Motte, damigella d’onore della Regina, hanno profuso i denari a palate per fargli prendere il volo. Di tempo in tempo si vedono per la città delle facce nuove; si dice: chi sono? chi non sono? Tutt’a un tratto spariscono come spettri. È un tentativo di fuga andato a male. Già una volta una sentinella e non so chi altri avevano preso l’imbeccata; una lettera era arrivata fino al conte; tutto era disposto per la fuga. Ma quel satanasso di Saint-Mars stava all’erta. Un messo della damigella, scoperto, si tagliò le vene; parecchi altri furon messi sotto chiave; e il dragone amato rimase a contare i travicelli. Figùrati il chiacchierìo che se ne fece a Pinerolo. Per molto tempo fu un vero furore di curiosità. Questa lamaccia di De Lauzun, dopo averne fatte di tutte le tinte, cortigiano ipocrita, cacciatore di grasse doti, giocatore sospetto, crapulone, maldicente, invidioso, villano con le donne e insolente col suo Re, è ancora riuscito a farsi un piccolo paradiso in prigione, dove le sole spese del suo installamento, a quello che si dice, raggiunsero la somma di diecimila lire francesi. Ha vitto di principe, stoviglie d’argento, camicie di trina, letto di piume, due servitori, e grandi dame che lo adorano a duecento leghe di lontananza. Si chiama nascer fortunati. Si dice che stia nella medesima torre del Fouquet, che è quella accanto al quartiere del Saint-Mars. Ma per quanto sia lasciato libero, le belle signore di Pinerolo, che girano intorno alla cittadella con gli occhi fuori del capo, non sono ancora riuscite a vedere neanche il contorno della sua bellissima faccia di ferro fuso.
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La vita intellettuale di Pinerolo, insomma, consiste in gran parte nel commentare i fatti e le gesta di quei signori, dei merles, come li chiama benignamente il Governatore; tanto più dopo che è finito il divertimento di veder lavorare alle fortificazioni, che furon rifatte con grandi spese in seguito alla visita che ci venne a fare segretamente il Vauban, anni sono, in compagnia, credo, dell’onnipotente Louvois. Le famiglie pinerolesi si mescolan poco con gli ufficiali del presidio. C’è un po’ di passeggiata la sera in piazza San Donato; ma non ci va quasi nessuno, perchè dànno ai nervi quei grandi baffi impertinenti dei soldati della compagnia d’onore, che fan la guardia al palazzo del Governatorato, e le famiglie dei commissari e degli altri impiegati francesi che fanno dei nastri per la piazza col naso per aria, dicendo corna della città (une tanière) ad alta voce. Gli ufficiali della cittadella, alloggiati nel loro vasto gabbione, non scendon quasi mai; il Saint-Mars se li tiene a portata della mano per timore che quei di sotto glieli corrompano. E infatti, non si dà mai il caso che mandino a prendere o ad accompagnar fuori un prigioniero dai soldati e dai sergenti del presidio, da tanto che se ne fidano! Non ce n’è uno — è scappato detto allo stesso governatore, — che mandato fuor delle mura, non pianterebbe il prigioniero in mezzo ai campi per disertare. Così è fedele l’esercito del gran Re! Per conseguenza, quando la città non è scossa dall’arrivo d’un ufficiale dei moschettieri, nelle ore in cui le truppe riposano, dopo mezzogiorno, Pinerolo ha tutta l’aria di una necropoli. Fra le alte caserme e i grandi conventi silenziosi, dalla porta di Torino alla porta di Francia, non si vede passare che qualche cappuccino o qualche penitente della Concezione, e non si sentono che i rumori cupi della Fonderia e dell’Arsenale, che lavorano ai nostri danni. Si direbbe che quel maledetto castellaccio, con quei cinque ricettacoli di dolori, che si alza come una gigantesca macchina di tortura a contaminare l’azzurro, e si vede da tutte le parti della città e da tutti gli angoli dei bastioni, getti per le vie e nelle piazze l’uggia dei suoi cortili grigi e la tristezza delle sue celle nefande. O piuttosto, non è il castellaccio. È quella faccia malaugurosa del Saint-Mars che si vede spuntar a tutte le cantonate e a tutte le finestre. È lui che empie la città del suo umor nero di birro sospettoso, e che batte la misura alla vita di Pinerolo con lo strider cadenzato dei suoi chiavistelli. Lo stesso governatore d’Herleville ne sente l’influsso funereo, e scappa a Torino ogni volta che può, con la sua graziosa marchesa; — un amore; — la sola cosa bella ch’io abbia trovato finora nella dominazione francese.
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Oh splendido e caro passato, già tanto lontano! Ci pensi mai, tu, amico Toggia? Dire che siamo stati la città capitale del Piemonte per il corso di più d’un secolo, accarezzati, colmati di privilegi; che qua i nostri principi nascevano e venivan sepolti; che fra noi si festeggiavano re e imperatrici; che contavamo una popolazione di grande città, con quattordicimila operai, con una brava milizia nostra, che le mura turrite si estendevan per varie miglia da monte Oliveto oltre all’Abbadia, che mandavamo le nostre lane fino in Oriente, che accoglievamo gli ambasciatori di Napoli, di Milano, di Venezia, di Ungheria, di Vienna, del Papa, i deputati di tutte le città del Piemonte, i cortei dei marchesi di Saluzzo e di Monferrato, e le visite festose dei conti di Savoia, e i ritorni trionfali dei principi d’Acaja, e che su per queste vie salivano a cavallo le belle spose bionde vestite di broccato d’oro, sotto i baldacchini di raso bianco, in mezzo ai baroni vassalli scintillanti di ferro e ai signori del Consiglio vestiti di mantelline purpuree, sopra un terreno coperto di mirti e di rose! Ed ora abbiamo il Saint-Mars. Io l’ho col Saint-Mars. Che rotolone, ingiusto cielo!
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Se voglio vivere, caro mio, non bisogna ch’io pensi che questo dura da quarantaquattr’anni. Dall’anno in cui son nato, nè più nè meno; poichè io venni al mondo qui nell’anno medesimo che quel baccellone del conte di Scalenghe, dopo due giorni di tremarella, cedeva Pinerolo al cardinale Richelieu, facendo abbassare le armi a quattrocento Vallesiani e a trecento uomini di milizia che avrebber potuto salvare il Piemonte. Ah se risuscitasse Emanuele Filiberto, brava anima sua! — Il re ha bisogno di tenere un piede di qua dalle Alpi, — bada a ripetermi questo squassapennacchi del luogotenente Rivière. Ebbene, ci vorrebbe un duca di Savoia che rispondesse al re, come rispose quel lestofante: — Son d’accordo, purchè quel piede sia io. — Ma che possiamo sperare da Carlo Emanuele II, che si lascia pestare i calli ogni giorno dagli ambasciatori di Francia per il posto al banchetto o per il palco al teatro? Egli tira ai dominii di Ginevra, del Vaud, di Friburgo, di Losanna, limosina dei pezzi di terra a tutte le Corti di Europa, manda dei reggimenti a lasciar le ossa per il Re nelle Fiandre, attacca lite con Genova per far quella bella figura che sappiamo, s’intesta di bucare il colle di Tenda; e non pensa a liberar Pinerolo, che è il morso col quale la Francia terrà sempre Casa Savoia in sua balìa. Facesse almeno dei bei versi come suo nonno! Oramai noi non speriamo più che in una specie di diluvio universale, in una vastissima e terribile guerra che metta sottosopra l’Europa, sconquassando questa mostruosa baracca dorata della Monarchia francese. Comunque debba finir la cosa, peraltro, possiamo esser certi che le prime batoste, ossia le bombe, le mine, le devastazioni e la fame, saranno per noi. È stato sempre il nostro destino. Abbiamo l’onore di esser la chiave della valle del Chisone, una delle porte d’Italia; e tu vedi dove ce l’han confitta, questa chiave. Povera Pinerolo! Dalla seconda guerra punica in poi, chi abitò da queste parti non ebbe mai dieci anni di santa pace. Romani e Cartaginesi, Galli e Saraceni, Goti e Ostrogoti, Longobardi e Svizzeri, Tedeschi, Spagnuoli, Francesi e Valdesi e marchesi e anticristi si sono scatenati sui nostri quattro campi e sui nostri quattro sassi come se questo fosse un circo stato fatto apposta da domenedio perchè tutti i popoli della terra vi si venissero a pestar la cappa del cranio. Per tutto dove si scava, vengon fuori stinchi, caschi rotti e dagacce arrugginite. Che spettacolo, perdio, se saltassero su vivi per i campi e per i colli tutti i soldati che li calpestarono in venti secoli, dai numidi di Annibale agli alabardieri di Francesco I! Sarebbe la benedetta volta che vedremmo il Saint-Mars, spaventato e senza parrucca, precipitarsi dalla Torre del Diavolo nel fossato della cittadella.
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Ciò non ostante, come t’ho già detto, io trovo modo di vivere serenamente, grazie alle molte faccende e alla molta lettura. La mia più bella ricreazione è una passeggiata che faccio ogni sera, verso il tramonto, con le poesie del Chiabrera tra le mani; un esemplare prezioso, annotato nei margini, che fu regalato dal poeta stesso al marchese di Caluso, quando fu alla corte del primo Carlo Emanuele. Me ne parto di vicino alla Polveriera, dove sto di casa, attraverso la città bassa; risalgo lento lento per i bastioni di Villeroy e di Richelieu, svolto dal bastione della Corte, e vado a fare, regolarmente, una piccola visita al castello dei nostri principi. Che cosa vuoi? Quel povero castello, unico avanzo delle nostre glorie, imprigionato là fra le casipole, coi suoi merli cadenti e le sue porte sbarrate, che par compreso dal sentimento della sua miseria, mi mette pietà e tenerezza insieme! Il suo silenzio triste mi fa ripensare alle feste e agli amori che lo animarono un tempo, alle ambizioni smisurate che si spennaron le ali fra le sue mura come aquile prigioniere, alle belle principesse d’Acaia che vi folleggiarono, vi piansero e vi morirono. Dopo un quarto d’ora che son là, mi par di sentire i passi concitati dell’altera Isabella di Villehardouin che ridomanda il suo principato perduto; vedo Caterina di Vienna, coi suoi grandi occhi celesti rivolti alle vette bianche dei monti; la sventurata Sibilla del Balzo, che spira benedicendo il suo povero Filippo, predestinato al lago d’Avigliana; e quel bel demonio biondo di Margherita di Beaujeu che susurra all’orecchio di Giacomo le parole che sconvolgono la ragione, e Caterina di Ginevra con la sua vita sottile di vergine e il suo adorabile neo sulla guancia, e Bona di Savoia che smorza sotto alle lunghe palpebre la fiamma de’ suoi occhi pieni d’amore. Oh se s’affacciassero tutte insieme a quelle finestre arcate e vedessero sventolare sulla cittadella la bandiera di Versailles, come si farebbero tutte vermiglie di sdegno dalla gorgiera al diadema, e come spezzerebbero sui davanzali i loro ventagli imperlati! E dopo essermi beato in questo sogno vado su verso le vecchie caserme, tiro un’occhiataccia al castello, e per San Maurizio e per il bastione di Schomberg, chinando il capo sul Chiabrera quando vedo di lontano il cappello a tre punte d’un tagliacantoni francesco, me ne ritorno a casa placidamente, consolato dal pensiero che un altro giorno della dominazione straniera è passato. Quel ceffo di mandrillo del Saint-Mars ha disteso un lenzuolo di piombo su Pinerolo; ma non è ancora riuscito a oscurarle la bellezza impareggiabile delle sue notti di luna. Per questo, rientrando in casa mia, salgo quasi sempre all’abbaino per godere la vista dei dintorni. Le case che biancheggiano sulla collina, tutte quelle torri nere che s’intagliano nel cielo limpido e profondo, la città di Saluzzo che appare come una macchia lattea di là dalla striscia luccicante del Po, e la rocca di Cavour, che s’alza solitaria nel piano come un frammento colossale d’asteroide precipitato dal cielo, e le cime delle Alpi inargentate; questo spettacolo immenso e quieto, in cui si sente la voce sonora del Lemina che parla delle glorie morte, mi tiene inchiodato un’ora con la bocca aperta. E se qualche volta mi piglia un senso di tristezza a veder lì a pochi passi quella gola spalancata della valle di Fenestrelle, che ci ha vomitato addosso tanto ferro e tante sventure, allora mi rivolgo dalla parte di Torino, dove brilla la speranza d’un avvenire migliore del passato e del presente, e il mio cuore si riconforta.
..... È sonata la mezzanotte. Sento che passa la ronda per la strada e riconosco al chiarore della luna il profilo rodomontesco di quel lanternone del Rivière. Siccome abbiamo leticato ieri sopra la quistione di Casale, è capace, vedendo il lume acceso, di venirmi ad aggranfiare la lettera. Caro mio, non voglio maschere di ferro. Ti mando un saluto dal cuore e chiudo la lettera in furia.
Il tuo ⁂ |