che vuol entrare a tutti i costi, ritto sotto a un baldacchino di trionfo, dentro a una porta di città per cui non potrebbe passar che carponi; drappelli di guerrieri, con facce da tiranni delle marionette, piantati sulla cima di certi colli a pan di zucchero, come spilloni confitti a caso in un cuscinetto, accanto a pini o cipressi tascabili, che arieggiano gli spazzolini da lumi a petrolio; e un ballottìo di case da presepio, d’una prospettiva miracolosa, che dan l’idea d’un villaggio colto colla fotografia istantanea nell’atto d’un terremoto che non lascerà pietra su pietra. Altri dipinti rappresentano Conti o Duchi di Savoia, di pessimo umore. Questa sala è convertita ora in dormitorio dei piccoli catecumeni, i quali riposano così placidamente in mezzo alle immagini minacciose dei persecutori dei loro padri. Null’altro rimane d’antico nell’interno del palazzo. Nulla; nemmeno tre piccoli scalini, a cui si possa domandare, come il Musset alle famose marches de marbre rose, di quale delle belle donne che li premettero avesse il piede più piccolo e il passo più leggero. Nulla. Le povere Principesse ginevrine, viennesi, siciliane, savoiarde, francesi, scomparvero senza lasciare un ricordo, un’immagine neanche contestata delle loro sembianze. Ah! se i cronachisti d’allora avessero descritto le donne con quella minuziosità delicata da mercanti di schiave con cui le mostrano in piazza i romanzieri moderni, quanti preziosi ritratti non avremmo al presente! Come dovevano esser belle e superbe, coi loro alti cappelli conici e con le loro pellegrine d’ermel-