bel dono, proprio, quello dell’allucinazione volontaria! Per questo, io potrei dare dei punti a quel caro signor Joyeuse del Nabab, il quale, andando la mattina all’ufficio, si rappresentava così al vivo l’atto del direttore che gli dava una gratificazione di mille lire, e vedeva così nettamente il suo biglietto bianco e i suoi colleghi verdi, che arrivato alla banca, rimaneva ogni mattina stupito e avvilito di non ricever la croce d’un quattrino. Io pure, ritornando verso la villa Accusani, mi raffigurai, e posso dire d’aver visto davvero una stranissima cosa. Mi trovavo sopra un alto ballatoio del palazzo degli Acaja, e vidi sorgere tutt’a un tratto accanto a me i quattro Principi morti, diritti stecchiti nelle loro armature corrose, coi visi consunti e con gli occhi orribilmente infossati sotto le fronti che mostravan l’osso nudo. Si fregaron le palpebre cadenti come destandosi da un altissimo sonno, e s’atteggiarono a un’espressione di stupore indescrivibile, riconoscendo a poco a poco la pianura immensa e i luoghi vicini e lontani dove avevan combattuto durante la loro vita mortale. E si vedevan passare nel loro sguardo lento e girante mille curiosità e mille inquietudini, come se domandassero affollatamente a sè stessi: — Che fu del nostro sangue? Dove sono i nostri nemici? Che cosa avvenne dei Marchesi di Saluzzo e di Monferrato? E le repubbliche d’Asti e di Chieri? E i re di Sicilia? E i Signori di Milano? — Principi! — io gridai allora; e i quattro teschi si voltarono. — Non c’è più Marchesi di Saluzzo, non c’è più Marchesi di Monferrato, non c’è più repubbliche