Alcuni discorsi sulla botanica/I/Le Conifere

Le Conifere

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Le Conifere





Ragguardevoli per bellezze di forme, per maestà ed eleganza di portamento, preziose per copia ed utilità di prodotti, le conifere formano un segnalato gruppo di piante, che tolse il nome dalla figura conica del frutto, comune al maggior numero delle specie che gli appartengono. Niuna erba, pochi arbusti, si annoverano tra esse: la più parte sono alberi, che s’innalzano talvolta a così sublime altezza, che fuor delle palme non trovi per avventura altri esseri del regno vegetabile, che possano per tal rispetto pareggiarsi loro. Di solito hanno il tronco sodo, cilindrico, dirittissimo; ampia, piramidale, vigorosa la chioma, con rami stendentesi ad angolo retto, e disposti come a ripiani. Hanno fogliame di un verde cupo, minuto, ma perenne. Le conifere vivono lunghissima età, e crescono per lo più socievoli. Verso le contrade polari e su pel dorso dei monti, loro stanza prediletta, con numerosa schiera d’individui coprono vasti spazj di terreno, ornamento ai siti, e largitrici di moltiplici [p. 66 modifica]vantaggi agli abitatori di quelle aspre regioni. Imperocchè sebbene alle piante di questa famiglia non si possa dare il vanto di fornire materie alimentari a intere popolazioni, come non può negarsi alle palme, ai banani, alle graminacee, alle artocarpee, hanno però quello di servire in vario modo ad altri primarj bisogni e comodi della vita. E però sono ben degne le conifere che noi ci occupiamo alquanto di esse. Affine di procedere con certo qual ordine gioverà mandar innanzi alle notizie, che riguardano gli usi a cui servono, quelle non meno importanti, che all’interno loro organamento si riferiscono. Cominciamo adunque dall’esame dei fiori.

Poco vistosi e di grande semplicità sono i fiori nelle conifere. In una medesima specie parte di essi recano solo le antere, parte gli ovetti soltanto: sì gli uni che gli altri crescono però d’ordinario su di uno stesso pedale, più raramente su due. Nè per varietà di colori, nè per fragranza notevoli, e mancanti di quella copia di leggiadri invogli, che fanno sì belli e gradevoli all’occhio i fiori delle altre piante, presentano anzi, specialmente nei maschi, tanta semplicità e pochezza delle parti, che in una conifera, giusta l’opinione di alcuni moderni Botanici, devonsi annoverare altrettanti fiori maschi, quanto sono gli stami. Questi poi crescono affatto nudi e spacciati, o veramente trovansi misti in qualche numero nell’ascella e nella inferior faccia di particolari scagliuzze. Dalla unione di parecchi [p. 67 modifica]di que’ fiori nascono poi certe fogge di amenti, o gattini, o coni, de’ quali parecchi insieme raccolti hanno sembianza di grappolo o di spighe compatte, più meno lunghe.

I fiori pistilliferi si compongono per lo più di brattee membranose, nelle ascelle delle quali nascono squame consistenti. Ognuna di cotali squame porta alla sua base un pajo di ovetti, o poco più, i quali o si levano diritti, o stanno capovolti.

L’infiorescenza (modo di aggruppamento) dei fiori pistilliferi sottostà a molte variazioni, essendochè questi ora nascono solitarj, ora sono uniti tra di loro diversamente e aggruppati.

I pini e le altre conifere, cui più propriamente conviene questo nome, producono ovetti rovesciati dentro a squame numerose, non altrimenti disposte, che i giri di una spira intorno ad un asse, per modo che formino veri coni. Nei cipressi e nei ginepri gli ovetti sorgono liberi e diritti dall’ascella di scaglie sparse in molti gruppi, ma poche di numero in ciascuno. Il nasso o albero della morte, i dacridi, la salisburia hanno gli ovetti separati l’uno dall’altro, e attaccati o all’ascella di una squama, ovvero sul fondo di una particolar foggia di cupola. L’avvertita diversità nella disposizione dei fiori pistilliferi fa sì, che se ne ingenerino coll’andar del tempo frutti di svariata figura e consistenza. Spesso avviene che somiglino a coni oblunghi composti da squame più o meno fittamente embricate e scom[p. 68 modifica]partite secondo la direzione di una spira, talvolta alquanto discoste e manifestamente staccate, tal altra così vicine e rinserrate tra di loro, che pajono formare un sol corpo. Quando le squame che compongono i frutti sono poco numerose, questi anzichè la figura di un cono, hanno quella di una sfera traente al rotondo. Tale è il galbolo del cipresso. Le sue squame, da bel principio carnose, a mano a mano disseccano e si diradano, finchè mature appajono al tutto separate. In alcuni casi, come per esempio nel ginepro, le squame crescendo d’età non solo ingrossano ognor più e divengono carnose, ma fanno appicco tra loro sì, che il frutto rende imagine di una bacca. Lo diciamo allora coccola. Nel nasso e negli altri generi, che dicemmo affini al medesimo, quella tal maniera d’inviluppo o di cupola, ond’era nel fiore contornato ogni ovetto, ingrossa a segno di formare intorno al seme un corpo carnoso, che fa le veci di pericarpo.

I semi, che nelle conifere, rigorosamente parlando, ponno dirsi nudi, risultano di un embrione di quasi cilindrica forma, il quale spesso è fornito di più che due lobi seminali (pei pini se ne contano 6, 9, e perfino 15), e di un albume carnoso ed oleoso, che a quello sta d’attorno.

Anche la struttura degli organi della vegetazione nelle conifere è degna di particolare attenzione per una cotale semplicità di composizione, che saremmo ben lungi dall’aspettarci in esseri così [p. 69 modifica]giganteschi, e in apparenza cotanto perfetti. Se si osserva attraverso alle lenti uno o parecchi di quei filuzzi, ne’ quali o naturalmente, o col mezzo della macerazione viene a scomporsi quanto havvi in queste piante di sodo e di legnoso, si trova che i tubetti, de’ quali sono formati que’ fili, qualunque ella sia la parte da cui si levano, hanno tutti una medesima apparenza, e rendonsi notevoli specialmente per certi punti, talvolta sì grandi, che sembrano veri fori, con assai bell’ordine e simmetria distribuiti sulla loro superficie, e circondato ciascuno da un’areola più o meno larga. Delle tante altre maniere di tubi, quali foggiati a modo di nastro o benda rivolta in spira, quali figurati da anelli, da linee, da strozzature, da reticoli, che riscontransi nel legno degli altri alberi, non presentano le conifere il più leggiero indizio, se ne togli forse alcune trachee (tubetti a spira) nell’astuccio midollare.

Le foglie in queste piante sono ordinariamente strettissime, soventi volte cilindriche o lineari, e terminate in punta a modo d’ago. Solo in pochi generi forestieri, come nelle dammare, nella salisburia, e in qualche altro della medesima sezione, le lamine s’aggrandiscono per gradi fino a raggiungere le dimensioni delle foglie comuni. Escono esse solitarie, o per coppie, o in fascetti di due, tre, cinque e più da una medesima vagina. Ve ne ha poi delle cortissime, e di quelle addossate l’una all’altra come le squame dei pesci e le tegole dì [p. 70 modifica]tetti. Così nella tuja e nella sabina. Per la maggior parte rigide, coriacee e di un verde scuro, durano in vita più anni.

Non molti sono i generi che in codesta famiglia si comprendono, ed anche di que’ pochi non è si facile precisare i caratteri distintivi, stantechè muovono da differenze, delle quali, attesa la somiglianza che tra di loro esiste, è malagevole far ragione. Ciò non pertanto stimano i Botanici poter dividere sì fatti generi in tre o quattro ordini: le tassinee coi podocarpi, le cipressine, e le abietine.

Poco numerosa di specie questa famiglia delle conifere vince però ogni altro gruppo di piante arboree nella moltiplicità degl’individui, sparsi ove più ove meno, su tutte le parti del globo. Rare sotto l’equatore e presso i tropici, vanno esse grado grado crescendo di numero verso le regioni fredde d’ambedue gli emisferi, massimamente del boreale, ove s’inoltrano fino al 70° di latitudine. In quella maniera che le frondose selve di castagni, di quercie, di sugheri; che i boschetti di aranci, di limoni, di ulivi, sono indìzio di mite clima, medesimamente i larici, i pini, gli abeti ci ricordano quelle rigide contrade, dove la natura intorpidita non è che breve tempo ravvivata dal calore benefico dell’astro del giorno. Sui confini della zona temperata, e della sottoartica le conifere segnano con una larga cintura di dense e tetre foreste l’ultimo termine della vegetazione robusta e potente, [p. 71 modifica]al di là della quale più non fanno che bassi sterpi, o radi arbusti e intristiti; e poi che le conifere levansi dal suolo altissime, ed hanno fronda di un verde cupo uniforme, improntano le regioni settentrionali, alle quali non è concessa altra veste arborea, di un aspetto di severità e tristezza, che profondamente riflette sul carattere grave, melanconico degli abitatori di quelle contrade.

Chi volesse più sottilmente investigare con quale regola e proporzione le 580 specie di conifere in oggi conosciute (chè dopo le recenti scoperte del Roezl nel Messico tante a un di presso se ne contano) si ripartiscono tra di loro la superficie della terra, troverebbe, meglio che 500 di esse abitare al di qua del cancro, distribuite però su questo spazio con tale misura, che un po meno della metà si raccoglie nel vasto continente dell’Asia, quasi altrettante toccano all’America boreale e un venti soltanto hanno stanza nella nostra Europa. Nell’altro emisfero si annoverano, dal più al meno, 80 specie di conifere, ma spettanti a generi quasi tutti differenti da quelli dell’emisfero boreale. Nè cipressi, nè tuje, nè salisburie, e ciò che è più mirabile ancora, nessuna delle moltissime specie di pini, larici, abeti (e sì che di essi ve ne ha più di 180 diverse qualità) oltrepassa, per quanto è noto, il capricorno. Trionfano per lo contrario nelle terre australi le eutasse, i dacridii, i dammara, i libocedri, i fillocladi, i podocarpi. Anche la patria delle palme, [p. 72 modifica]dei banani, delle bambuse, delle dracene, delle felci arboree, la regione intratropicale, vanta parecchi insigni rappresentanti di questa bella famiglia, raccolti però in maggior copia colà, dove o per l’elevazione dei siti, o per altre climatiche condizioni è d’alcun poco temperata l’arsura del suolo. »Questo affratellarsi dei pini colle palme non isfuggiva all’occhio perspicace del gran Colombo, che nel diario del suo secondo viaggio annunzia all’amico Anghiera d’aver veduto con meraviglia in una stessa pianura alternarsi abeti e palme, ed avervi sui monti di Cibao pini (podocarpi) che invece delle solite frutta mettono bacche simili alle axorafe di Siviglia (Humboldt).» Stando alle indicazioni del nominato autore, entro i tropici crescono non meno di 42 specie di conifere, molte delle quali nel Brasile, e più ancora alle Antille.

In questa famiglia di piante ve ne ha alcuna, che s’alza tanto da terra, da contendere il primato in grandezza alle stesse palme. Alla smisurata altezza di 200 fino a 280 piedi si slanciano nella settentrionale America il pino del Rio Colombia, che ebbe nome dallo sventurato Douglas, nella meridionale l’araucaria del Chilì colle foglie ad embrice, la Sequoja gigantea della nuova California, ed altre ancora.

Amiche dei monti le conifere di rado scendono al piano, né pare che alla loro tempra molto arrida la lepida aura del mare. Pur non la fuggono affatto. [p. 73 modifica]Il pino d’Aleppo, quello che ci reca i pinocchi, e il marittimo, crescono spontanei in Sicilia, sulle coste d’Africa, pel litorale della Provenza, nelle isolette del Golfo della Spezia; e i viaggiatori ci raccontano che i più umili poggi dell’isola di Cuba vagamente verdeggiano di pini (pinus occidenlalis), e che le pianure paludose della Luigiana sono quasi per ogni dove gremite di cipressi di una specie particolare (il cupressus disticha di Linneo). Ma queste sono eccezioni: il più delle conifere per la qualità del fogliame breve e sottile, per la sodezza del fusto, per la copia della ragia, di cui sono impregnate in ogni loro parte, sembrano mirabilmente conformate a resistere all’impeto de’ venti, a sopportare il rigore d’intensi freddi, e però salgono molto in su pei dorsi delle montagne, disputando alle cupulifere le più elevate stazioni e i luoghi di più difficile accesso. L’abete nelle Alpi elvetiche (5520 p.), il pinus uncinata ne’ Pirenei, il magnifico cedro deodevara (legno degli Dei) nella gran catena dell’Imalaja (al Nepaul 11,000 p.), il pino di Lord Weymouth nelle montagne rocciose degli Stati Uniti, il pino di Montezuma, che cresce sulle Ande tropicali del Messico fino a 12158 p. (2000 p. al disopra del cratere dell’Etna) segnano ovunque gli ultimi confini della vegetazione arborea sopra il livello del mare, non altrimenti che verso le regioni iperboree. Nè si troverebbe per avventura albero d’altra famiglia, salvo [p. 74 modifica]la bedolla in Lapponia, che tanto si accosti alla linea delle nevi perpetue, quanto le conifere; quasi le abbia colassù piantate la natura a temperare colla perenne verzura delle loro frondi l’abbagliante ed uniforme luccicare delle nevi.

Facciamoci ora a considerar brevemente di quanta utilità riescono le conifere, quali pel nutrimento che procacciano all’uomo nei frutti loro, quali pei succhi resinosi che contengono, e per gli usi molteplici a’ quali il legno loro si presta.

I semi del pino domestico, detti pinocchi, hanno sapore gradevole, non dissimile da quello delle nocciuole, e sono assai nutritivi. Oltre all’usarsi soli, mescolati colle uve di Corinto in molti intingoli, soglionsi fare con essi di eccellenti confetti e spremerne olio. Medesimamente veggiamo gli abitatori delle Alpi andar ghiotti de’ pinocchi dello zimbro (pinus cembra), mentre nel Chilì gli strobili della araucaria imbricata, il più bello, e il più alto degli alberi, che produca il terreno chilese, contengono quantità grande di pinocchi, lunghi due pollici, grossi quanto il dito mignolo, che arrostiti non altrimenti che le nostre castagne, alle quali molto si assomigliano nel sapore, ti sono cortesi di saporitissimo cibo. Eccovi d’altra parte il gingo del Giappone colle sue noci, che Ginnan son dette con termine vernacolo, grosse quanto le susine damaschine. Hanno invero sapore asprognolo, ma lo perdono se arrostite, per guisa che così ammanite coronano degnamente la mensa.

[p. 75 modifica] La scorza stessa del pino selvatico è tratta ad uso d’alimento dagli abitanti della Lapponia, e nella Svezia se ne fa pane, mescolandola con farina di segale.

Delle messe de’ tenerelli rami del pino bianco e del nero abbrustolite giovansi nel Canada a preparare una cotal loro birra aromatica. Pur delle coccole del ginepro, e di altre specie ancora dello stesso gruppo, farai tuo pro in più di un modo, traendone olio, e liquori fermentati o distillati, e tinture medicinali. E come la scorza de’ rami di molte sorte di pini è buona per la concia delle pelli, ove non fanno le quercie; del pari le foglie del cipresso gaggia o di palude, macerate e bollite nell’acqua, somministrano un bagno tintorio, ove la lana dopo tre sole ore di bollitura prende un bel colore di cannella.

Dalle naturali screpolature della scorza di molte conifere, o da incisioni fattevi ad arte, e poi ravvivate a debiti intervalli, gemono ragie o resine utili a comporre vernici, profumi, medicine. La trementina, detta di Venezia, cola dal larice; la trementina comune dal pinus picea, il balsamo carpatico e quello del Canada da altre sorte di pini; come dal cedro del Libano geme la cedria, di che gli antichi valevansi non solo a difendere dal tarlo le cose più preziose, ma eziandio ad imbalsamare i cadaveri de’ magnati e farne le mummie. Di tali ragie naturali, operando con varj artificj, si preparano [p. 76 modifica]il catrame, tanto in uso per impegolare le navi e le corde, la pece greca o colofonia, la pece navale e di Borgogna buone per le saldature e per gli stucchi, il nero fumo, ed altri utilissimi prodotti.

Vantaggi ancor più rilevanti si ritraggono dal legno delle conifere non essendovene per verità di più adatto alle costruzioni de’ grandi edifizii e delle grosse navi, di quello che ci offrono il cedro del Libano, il cipresso, il larice, l’abete, tante sorte di pini, diritti che sono e sublimi di fusto, forti, tenaci, sprezzatori delle intemperie e degli anni.

Anche di questo gioverà qui dire quel che più rileva.

Di grande durata sotterra e fuori alle intemperie è il legno del larice, che riesce quindi mirabilmente acconcio per palafitte, per condotti d’acqua, per corpi di tromba, per coperture di tetti, e in ogni altra opera che debba, pur messa nell’acqua, conservarsi per molti anni incorrotta. L’uomo del Norte, l’alpigiano di larice si fabbrica la mobil casa, di larice le scivolanti slitte; e di larice vogliono sieno state quelle tavole famose pei miracoli di Zeusi, di Parasio, di Apelle, quando non era per anco nota l’arte di pingere sulle tele.

Nel vanto di resistere alle ingiurie del tempo può coi cedri e coi larici gareggiare il cipresso, che viene attissimo a quante cose sono volute a lungo conservare. »Le porte del tempio di Diana in Efeso, che per 400 anni si conservarono come nuove, e la [p. 77 modifica]» statua di Giove Capitolino, che al tempo di Plinio contava cinquecento cinquant’un anni, sempre sana ed inalterata, erano fatte di cipresso; come pure di cipresso erano le porte di S. Pietro in Roma, che stettero al posto 1100 anni, cioè da Costantino fino a papa Eugenio IV.»

Il legno del zimbro, tenero, e di gradevole odore, cede facilmente sotto il ferro dell’artefice, e per ciò s’adatta a dilicati lavori d’intaglio, come ne chiariscono i pastori della Svizzera e del Tirolo, che ne traggon fuori piccole figure d’uomini e d’animali, trastulli da ragazzi, cucchiaj, forchette, vasellini, modelletti ecc. che portano a vendere da per tutto, alcuni de’ quali molto ingegnosi. Al medesimo uso in Germania serve il pezzo (pinus picea), se non che il suo legno ha odore spiacevole.

Durissimo per contrario è il legno del tasso, e però eccellente a farne caviglie, denti da mulino, manichi per mazze, forche, forconi, vette di coreggiato per battere il grano e vergheggiar la lana. Gli antichi se ne valevano per balestre, archi e freccie, onde leggiamo:

» Ityraeos taxi curvantur in arcus.                                    Virg. Georg.

E medesimamente a farne archi i Lapponesi si servono oggidì del mugo, dal quale traggono ancora quelle lunghe suola, di che si giovano per correre scivolando sulle nevi.

Insomma non troveresti per avventura lavoro da falegname grossolano o dilicato, al quale non [p. 78 modifica]possa acconciamente servire il legno di qualche conifera quando si usi il debito accorgimento nella scelta; avvegnaché quel vantaggio, che a noi procacciano in tali bisogna l’abete, il larice, il cipresso, la piella, il tasso, per altri popoli è recato dal pino deodara, dal pino rosso di America, dal cipresso gaggia o di padule, dalle araucarie, dalle dammare e va dicendo.

Ricco qual è il legno delle conifere di materie ragiose abbrucia a meraviglia. Innanzi che s’introducesse l’uso delle candele (invenzione che risale al XIII secolo) del legno de’ pini spesso per lo lungo valevansi gli antichi a guisa di torcie e fiaccole, la qual usanza serbasi tuttora in diverse contrade fra gli abitatori delle montagne. — All’ufficio di accender fuoco si prestano anche assai le pine del pinastro (pinus pinaster), dette perciò dal volgo nell’Italia centrale pine da caminetti.

E merita pure di essere avvertito un altro uso di sì fatte piante. Alcune di esse p. e. il tasso, il cipresso, la tuja reggono per modo alle potature da ricevere e ritenere agevolmente quelle qualunque forme, che il bisogno consigli, o voglia dar loro il capriccio, la fantasia, la moda: onde si riducono docili in siepi, in obelischi, in piramidi, in muri di verzura e in altre svariate foggie a vedersi bellissime.



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Le conifere erano tenute in gran pregio e riverenza presso gli antichi. Del cedro del libano (il più bello, il più robusto fra gli alberi conosciuti agli Ebrei) fanno spesso menzione le sacre carte. Esso è l’immagine, esso il paragone prediletto ai Re, ai Profeti di quella nazione ogni qual volta vogliono rappresentare la forza che resiste, la potenza che domina, la bellezza e la perfezione delle forme. Nè meno lo hanno celebrato gli scrittori greci e romani. Il suo legno, creduto incorruttibile, solevasi adoperare fin dai più remoti tempi a figurare simulacri di numi, venerabili imagini di gloriosi antenati:

» Quin etiam veterum effigies ex ordine avorum
» Antiqua e cedro....

Virg. Aen. VII.

E ne facevano pure e scatole e tipi e forzieri da riporvi quelle opere, che, meritevoli d’essere immortalate, per ciò appunto con frase proverbiale dicevansi latinamente digna cedro.

La resina che scola da quest’albero adoperavano, come già dicemmo, ad ungere i libri, affinchè si conservassero lungamente; onde que’ versi d’Orazio nell’arte poetica:

»... Speramus carmina fingi
Posse linenda cedro, et laevi servanda cupresso,

e l’altro dello sconfortato Ovidio:

» Nec titulus minio, nec cedro charta notatur.

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Di alcune di queste piante si valevano pure i Romani a simboleggiare i sentimenti e gli affetti dell’animo.

Col legno di una specie di pino (taeda Plin.) preparavansi nelle nozze le fiaccole ardenti, onde rischiaravano il cammino alla novella sposa, che conducevasi festosamente sull’imbrunire alla casa del marito, e però il latino taeda trovasi usato per figura a significare le stesse nozze:

» Quo thalamum eripiat Teneris, taedasque moretur.


Ne’ giuochi istmici una corona di pino era il premio dei vincitori.

E come alla gioja segue d’appresso non rare volte il dolore, alla gloria può tener dietro l’infamia, con opportuna significanza un ramo di questo medesimo pino sospeso alla porta delle case era segnale di lutto o di disonore. Per un simbolo parimenti funesto gli antichi riguardavano il cipresso, da loro fatto sacro alle Erinni e agli Dei d’Averno. Rami di cipresso si appendevano alle casse funebri, e alle case nelle quali giaceva un defunto. Coronate di cipresso si conducevano all’altare le vittime. Solevansi anche i cipressi piantare davanti i sepolcri e lungo le vie che vi guidavano:

» Est urbe egressis tumulus templumque vetustum
» Desertae Cereris: juxtaque antiqua cupressus,
» Relligione patrum multos servata per annos

Virg. Aen. lib. II.

[p. 81 modifica]E Claudiano

» Tumulos tectura cupressus.

Questa pia costumanza si è conservata, attraverso ai secoli, presso tutte le genti meridionali sulle quali si stendeva un dì l’impero di Roma; e la veggiamo tuttora in uso anche tra noi.

E per vero se dall’una parte il cipresso col suo aspetto sublime, severo, raccolto è più d’ogni altro albero adatto a crescer tristezza al dolente, che conforta di pianto un’urna diletta; dall’altro colla secolare sua durata, colla perenne sua fronda stassi inflessibile a segnare il posto ove riposano le ceneri dell’uom giusto e benefico, e ne ricorda al viandante la memoria, e quasi diresti ne implori il tributo di una lagrima, anche quando per ingiuria del tempo distruggitore è scomparsa ogni traccia dell’antico avello, e sul suolo agguagliato e deserto sorge il rovo e l’ortica.