Al Polo Australe in velocipede/26. La catastrofe della Stella Polare
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CAPITOLO XXVI.
La catastrofe della «Stella Polare».
A cinquecento passi dalle alture, presso una profonda spaccatura del suolo che si prolungava verso l’ovest, si rizzavano quattro tende, che la bufera di neve aveva ormai semi-strappate e piegate verso terra.
A breve distanza si scorgeva una scialuppa rovesciata, colla chiglia in aria, una slitta ed alcuni fucili che parevano fossero stati abbandonati all’aperto. Nessuna voce usciva dalle tende, ma da una sfuggiva, ad intervalli, del fumo nero e acre, che pareva prodotto dalla combustione di materie grasse.
Chi erano gli uomini che avevano cercato un riparo contro la bufera di neve sotto quelle tende? Erano Bisby ed i marinai americani od i superstiti della Stella Polare?
Wilkye e Blunt, in preda ad una viva ansietà e ad una profonda commozione, si erano messi a correre verso quelle tende. In pochi minuti giunsero presso alla prima e ne sollevarono un lembo, ma era vuota.
Stavano per visitare la seconda, quando un uomo, che stava sdraiato, insensibile al vento gelido del sud ed ai furori della burrasca, s’alzò, scuotendosi di dosso la neve che lo aveva quasi sepolto.
Parve ai due esploratori che si rizzasse innanzi a loro un fantasma, peggio ancora, uno scheletro vivente. Quel disgraziato, che doveva aver sofferto dolori e privazioni d’ogni specie, faceva insieme paura e pietà.
Il suo viso scheletrito, coperto di macchie Quel disgraziato faceva paura e pietà (pag. 244). sanguigne e biancastre, con una barba lunga ed ispida che gli dava un aspetto selvaggio, con due occhi che mandavano strani bagliori, faceva ribrezzo. Le sue vesti, che cadevano a brandelli, pareva che coprissero un vero scheletro, poichè si gonfiavano da tutte le parti sotto i soffi impetuosi della bufera.
Egli guardò Wilkye e Blunt, che si erano arrestati, con due occhi che mandavano cupi lampi; poi, appoggiando la destra ischeletrita e quasi incancrenita dalla congelazione, sul manico della scure che teneva vicina, chiese con voce rauca:
— Cosa volete voi?...
— Gran Dio!... esclamò Wilkye rabbrividendo. Chi siete voi?...
Un sarcastico sorriso contorse le labbra di quell’uomo.
— Io sono... che importa a voi?... Andatevene!...
Ad un tratto Wilkye mandò un grido.
— Linderman!... esclamò. Disgraziato, in quale stato vi ritrovo!...
Si slanciò verso l’inglese per abbracciarlo, ma questi lo respinse bruscamente, dicendo:
— Non vi conosco: andatevene.
— Ma io sono Wilkye!...
— Wilkye, disse Linderman con voce sorda. Ah! sì, il mio rivale del polo!... E cosa volete voi?
— Soccorrervi, disse Wilkye.
— Avete scoperto il polo?
— Sì, Linderman.
— Meglio per voi e peggio per me. Andatevene: io nulla chiedo a voi, nè nulla voglio!
— Ma io non sono vostro nemico, Linderman. Io sono venuto qui per salvarvi, in nome della nostra antica amicizia.
— Non conosco amici.
— In nome dell’umanità.
— Parola vuota.
— Della scienza, per la quale noi abbiamo entrambi lottato.
— No!... esclamò l’inglese. Andatevene che io non ho bisogno di voi.
In quell’istante sette marinai cenciosi, sparuti, rôsi dallo scorbuto, semi-assiderati, si trascinarono fuori dalle tende, borbottando con accento straziante:
— Da... mangiare... signor... Wilkye!...
Blunt trasse dal suo sacco di viaggio i suoi ultimi biscotti per porgerli a quei disgraziati, ma Linderman gli si gettò dinanzi ed estratta la scure che teneva alla cintola, l’alzò verso i suoi marinai gridando con voce minacciosa:
— Vili!... Chiedete soccorsi al mio rivale!... Indietro o vi uccido!... Noi siamo inglesi, e costoro sono americani!...
— Signor Linderman, gridò Wilkye, facendosi innanzi. Qui non vi sono nè inglesi nè americani, ma uomini che hanno lottato insieme pel trionfo della scienza, fratelli che devono radunare i loro sforzi per riguadagnare la patria lontana. Basta, signore: le rivalità qui, in mezzo ai ghiacci del polo, mentre la fame sta per estinguere gli ultimi superstiti della Stella Polare, non devono sussistere.
— Andatevene dal mio campo! urlò Linderman. Io non vi conosco.
— È pazzo, signore, dissero i marinai.
— Pazzo! esclamò Wilkye con accento di dolore. Quali drammi si sono svolti dunque sulla Terra Alessandra?
— Andatevene, ripetè Linderman con voce furente.
— Mai, signore: io non vi abbandonerò.
— Allora v’uccido!...
L’inglese, che doveva essere proprio pazzo, fe’ atto di scagliarsi contro l’americano, ma Blunt ed i marinai si gettarono su di lui, lo disarmarono e lo atterrarono.
— Traditori!... urlò egli, dibattendosi come un forsennato.
— Legatelo e adagiatelo sotto una tenda, disse Wilkye. Speriamo che un giorno riacquisti la ragione.
Poi, volgendosi verso Blunt:
— Andate a raggiungere Peruschi; caricate la foca sulle biciclette e portatela qui. Questi disgraziati muoiono di fame e un ritardo di poche ore può essere fatale.
— Grazie, signor Wilkye, dissero i marinai, che avevano le lagrime agli occhi. A voi noi dovremo la nostra vita.
— Siete voi soli?
— Vi è un altro uomo sotto l’ultima tenda, il povero Kelpy, ma è morto stamane. Lo scorbuto e la fame l’hanno ucciso, disse un marinaio.
— Ma gli altri? Non eravate ventisei?
— Tutti morti.
— E la Stella Polare?
— È stata schiacciata dai ghiacci il 6 dicembre a 76° 15' di longitudine ed a 68° 30' di latitudine.
— Una catastrofe completa adunque?
— Sì, signore, e quale tremenda catastrofe! esclamò il marinaio, tergendosi due lagrime che gli si erano gelate sulle smunte gote. Io mi domando ancora come tante sofferenze, tante privazioni non ci abbiano uccisi tutti.
— Narrate Johnson.
— Eravamo giunti felicemente sulle coste della Terra Alessandra verso la metà di novembre, malgrado i continui incontri di ghiacci galleggianti. Il 20 la Stella Polare si era addentrata in un vasto canale che pareva si internasse nel continente per parecchie centinaia di miglia.
Speravamo di potere, se non giungervi, almeno di avvicinarci assai al polo, ma il 28 ci trovammo improvvisamente chiusa la via da una immensa barriera di ghiacci.
Il capitano Bak, dopo di essersi consigliato col signor Linderman, lanciò la Stella Polare verso il sud, sperando di trovare un altro passaggio, ma alla notte i ghiacci ci bloccarono.
Ogni tentativo per liberarci fu vano. Il 6 dicembre un enorme ice-berg, che da parecchi giorni ci minacciava, cadeva sulla goletta sfracellandola e seppellendo fra i rottami undici marinai.
Il disastro fu così rapido, che a malapena riuscimmo a salvare una scialuppa, due slitte e dei viveri per due mesi.
Il capitano Bak voleva spingersi, senza perdere tempo, verso la costa di Graham per raggiungere la vostra capanna, ma il signor Linderman fu inflessibile. Ormai vi considerava come nemici e voleva marciare alla scoperta del polo.
Per trentasei giorni ci trascinò attraverso il continente, ma i viveri sparivano rapidamente, le difficoltà crescevano ad ogni istante e lo scorbuto aveva fatto la sua comparsa.
Ci ribellammo e costringemmo l’armatore a piegare verso la costa per guadagnare la vostra capanna. Da quel giorno il signor Linderman non fu più l’uomo di prima. Una fissazione costante lo perseguitava: la tema della sconfitta e del vostro trionfo. Era diventato tetro e di tratto in tratto lo assalivano delle collere tremende, durante le quali ci minacciava colle armi in mano. La sua ragione si smarrì e un giorno ci accorgemmo che era diventato veramente pazzo!
Un “iceberg„ cadeva sulla goletta... (pag. 250).
Intanto la nostra situazione si aggravava. Lo scorbuto infieriva, i viveri scarseggiavano, le nostre forze s’indebolivano, il fuoco mancava avendo consumato la nostra scarsa provvigione d’alcool.
L’inverno non tardò a sorprenderci coi suoi tremendi geli e colle sue bufere di neve. Quali sofferenze, signor Wilkye; quali sofferenze! Ogni giorno un uomo cadeva per non più rialzarsi e lo seppellivamo nella neve.
Cadde così il capitano Bak, ucciso dallo scorbuto, caddero i due ufficiali, poi il mastro, poi gli altri tutti ed ora... sono due giorni, signor Wilkye, che nulla mettiamo sotto i denti. Senza il vostro soccorso, nessuno di noi avrebbe lasciato questo campo e qui sarebbero finiti gli ultimi superstiti della spedizione inglese.
— Disgraziati! esclamò Wilkye, che era vivamente commosso.
— E voi, signore, avete scoperto il polo?
— Sì, Johnson.
— Ah! Il signor Linderman lo prevedeva il vostro trionfo. Ma il signor Bisby, dov’è?...
— Alla costa... se vi sarà ancora.
— Ne dubitate? chiesero i marinai, con angosciosa espressione.
— Temo che i suoi compagni, se non lui, siano partiti all’appressarsi dei primi geli. Abbiamo perduto troppo tempo per andare al polo.
— Cosa accadrà di tutti noi, se sono partiti? chiese Johnson.
— Non lo so, rispose Wilkye con tristezza. Temo che il polo sia fatale agli uomini che lo sfidano.
— Troveremo almeno dei viveri colà?
— Ce lo dirà il destino. Orsù, non disperiamo e raduniamo le nostre forze per trionfare contro i rigori dell’inverno polare. Ecco Blunt e Peruschi che ritornano colla foca che abbiamo uccisa poco fa; i viveri sono assicurati per tre o quattro giorni.
Infatti i due velocipedisti ritornavano trascinando l’anfibio, che non erano riusciti a caricare sulle biciclette, tanto era grosso.
I marinai, facendo uno sforzo disperato corsero in loro aiuto e trasportarono la selvaggina all’accampamento. Fu fatta subito a pezzi, mentre i velocipedisti accendevano la lampada mettendo a bollire gli ultimi avanzi della loro provvista di pemmican e l’ultimo pezzo di carne salata che ancora possedevano.
Ognuno può immaginarsi con quale avidità, i superstiti della Stella Polare, che da due giorni digiunavano, assalirono quei viveri. In un batter d’occhio sparvero, e i due velocipedisti si videro costretti a far cucinare il sangue della foca, il cuore ed il cervello per saziare la fame orribile che travagliava lo stomaco di quei miseri.
Linderman non fu dimenticato, ma Wilkye ed i suoi compagni dovettero ricorrere alla violenza per fargli inghiottire la sua razione. Il povero armatore si ostinava a trattarli come nemici ed aveva rifiutato recisamente quei soccorsi, malgrado le preghiere del suo rivale.
Quell’abbondante e sostanzioso pasto rianimò le forze esauste dell’equipaggio inglese e la sua energia. Malgrado che la sua situazione fosse ben poco cangiata, ormai cominciava a sperare di poter in breve raggiungere la costa.
Alla sera, continuando a imperversare l’uragano, Wilkye fece radunare le tende ed accendere, entro una pentola di ferro, un gran fuoco con stracci inzuppati nell’olio della foca, con grasso e con alcuni pezzi di legno strappati alla scialuppa.
Forse quella fu la prima notte di calma passata dall’equipaggio inglese dopo tante sofferenze patite, tante veglie e tanto freddo!
All’indomani Wilkye radunò tutti a consiglio; bisognava prendere una deliberazione urgente, prima che le bufere di neve li immobilizzassero fra quegli sterminati campi di ghiaccio.
Si trattava di decidere se dovevasi piegare subito verso la costa presso la quale potevano sperare di abbattere delle foche o degli uccelli marini, o se conveniva risalire verso il nord-ovest per raggiungere, con una rapida marcia, la capanna.
Il mare non doveva essere lontano che centocinquanta o centosessanta miglia, ma la capanna almeno duecentocinquanta, essendo situata più al nord.
Prevalse l’ultimo progetto, per non perdere la possibilità d’un incontro colle genti di Bisby, che forse stavano ancora cercando Wilkye ed i suoi compagni, prima di abbandonare definitivamente il continente.
Non vi era tempo da perdere. L’inverno incalzava, lo scorbuto poteva fiaccare i colpiti, e le provviste venire ridotte allo zero.
Linderman, che dava segni di crescente pazzia, fu legato sulla lettiga, avendo Peruschi dichiarato di voler camminare; tre marinai che non potevano più stare in piedi, furono caricati sulla slitta, la scialuppa che era ridotta in uno stato deplorevole fu sfondata per aver almeno un po’ di legname, e la piccola carovana si mise in marcia verso il nord-ovest, affondando in mezzo alle nevi che non s’erano ancora congelate.
Tutti lavoravano con suprema energia: Wilkye e un marinaio mezzo invalido spingevano la lettiga; Blunt, Peruschi e gli altri trascinavano la slitta, facendo sforzi disperati per non perder tempo.
Avevano già percorso dodici miglia, quando Blunt, che stava dinanzi a tutti, s’arrestò bruscamente, abbandonando la corda della slitta.
— Fermi tutti!... esclamò. Presto, datemi un fucile! ...
— Avete scorto qualche foca? chiese Wilkye, accorrendo con due carabine.
— Non lo so, signore, ma laggiù vi è qualche cosa che si agita fra la neve. Guardate là, presso quell’hummok.
Wilkye guardò nella direzione indicata e con sua gran sorpresa vide una massa che pareva enorme, brunastra, che si avvoltolava nella neve. Sembrava che facesse sforzi disperati per rialzarsi, ma subito ricadeva.
— Che sia un orso, signor Wilkye? chiese Blunt.
— Un orso?... Mi pare che sia un animale colossale.
— Cosa sarà?
— Non lo so, ma lo sapremo presto: avanti e prudenza.
Mentre i marinai si nascondevano dietro alla slitta e dietro i cumuli di neve, i due cacciatori s’avanzavano strisciando, per far fuoco a breve distanza, onde essere sicuri dei loro colpi.
Intanto quella selvaggina di nuova specie, continuava a dibattersi. S’alzava, faceva due o tre passi, poi ricadeva e non si rimetteva in gambe che dopo lunghi sforzi.
Le sue forme erano così strane, che i due cacciatori non sapevano indovinare a quale specie appartenesse. Ora sembrava un orso, ora un elefante marino ritto sulle zampe posteriori ed ora una foca ricoperta da un immenso mantello.
Wilkye e Blunt erano giunti a duecento metri ed avevano puntato già i fucili, quando quell’essere bizzarro s’alzò, dicendo con voce cavernosa:
— To’!... Guarda degli uomini!... Ohe!... Mi credete un elefante marino o un orso per prendermi di mira? Dannato paese!... Poteva toccarmi di peggio?...
I due cacciatori lasciarono cadere le armi e balzarono in piedi emettendo alte grida:
— Bisby!...
Quell’essere strano s’arrestò, sorpreso da quelle grida, poi riprese:
— To’!... Mi si conosce qui?... Che il vento del polo mi abbia sbalzato a Baltimòra?... Sarebbe un bel caso, in fede mia!...
— Bisby! ripetè Wilkye, precipitandosi innanzi. Amico mio, cosa fate qui?...
Il negoziante di carni salate, poichè era proprio lui, si piantò sulle gambe e levandosi un cappello alto ma che era incrostato di ghiaccio, disse:
— Buon giorno, signori, ma...
Cosa voleva dire? Non lo si potè mai sapere, poichè ad un tratto un formidabile grido gli uscì dalle labbra:
— Wilkye!... Ah! io sogno!...
— No, amico mio, sono io, rispose Wilkye, correndogli incontro. Voi non sognate.
— Voi!... Voi!...
— Sì, Bisby, io, ma come vi trovate qui?...
— Come?... Lo so io forse?... So però che muoio di fame, che sono coperto di ghiaccio, che la mia pelle di bisonte non mi serve più a nulla, che mi pare di essere ubbriaco e che sono in uno stato miserando: guardate!...
Il disgraziato non mentiva: dov’era Bisby, il futuro presidente della società degli uomini grassi di Chicago?... In quale stato era ridotto quell’uomo, che tre mesi prima era grosso come un elefante marino!...
Era scemato della metà, sparuto, smunto, col volto coperto di echimosi, con un occhio ammaccato che ancora sanguinava, colle vesti indurite dal gelo, colle uose sfondate, colle vesti strappate. Aveva in testa il suo cilindro, ma ormai ridotto in uno stato compassionevole, coperto d’uno strato di ghiaccio e indosso la sua famosa pelle di bisonte, pure incrostata di neve gelata, ma in tal modo che non si ripiegava più.
— In quale stato vi ritrovo, Bisby! esclamò Wilkye. Ma chi v’ha conciato in tal modo?
— Chi?... chi?... I vostri marinai, rispose il negoziante. Erano diventati idrofobi, io voleva metterli a dovere, ma mi hanno assalito tutti insieme, percosso e poi scaraventato fuori dalla capanna. Qualcuno credo d’averlo storpiato perchè mi difesi perfino a calci, ma erano troppi, amico mio, ed ho avuto la peggio.
— Ma cos’è accaduto?... Cosa avete fatto, disgraziato?...
— Io!... Nulla, ve l’assicuro, fuorchè di mangiare. Oh! diavolo?... Forse che non ero venuto qui per ingrassare?..... Ho mangiato fin che ho potuto, ma un bel giorno, anzi un brutto giorno, i vostri marinai s’accorsero che i viveri erano molto scemati e mi negarono gli alimenti. Gl’ingrati! Dopo tante cene deliziose che divoravano coscienziosamente!...
— Avanti, Bisby, disse Wilkye con angoscia.
— Mi sono ribellato, ma mi picchiarono, mi spinsero fuori dalla capanna, poi s’imbarcarono. Invano li pregai di sbarcare e di attendere il vostro ritorno, ma mi risposero che ne avevano abbastanza del polo e che voi dovevate essere morto. Canaglie!... Dopo tanti pranzi!...
— E sono partiti?...
— Verso il nord.
— Ma quando?...
— Il 27 febbraio.
— Ma come siete vissuto voi finora?
— Con una libbra di cioccolato che avevo nascosto e con due merluzzi secchi che mi hanno rovinato i denti, tanto erano duri!
— Senza tenda e senza fuoco?
— Con la mia sola pelle di bisonte.
— Nella capanna non vi sono adunque più viveri? chiese Wilkye, con voce sorda.
— Forse una testa di foca, che nessuno volle mangiare.
— E non sono più tornati i marinai?
— Ci hanno abbandonati.
Una rauca imprecazione uscì dalle labbra di Wilkye.
— Maledizione sui vili!... esclamò. Cosa accadrà ora di noi?... Quale sorte ci attende?... Dovremo morire adunque sulle sponde di questo continente, ora che abbiamo scoperto il polo?... Dovrà rimanere sepolto questo grande avvenimento?... No!... Lotteremo fino all’estremo, se sarà necessario c’imbarcheremo su di un banco di ghiaccio e cercheremo di raggiungere la Terra del Fuoco. Blunt, Peruschi, Bisby, amici miei: avanti verso la costa!... La fortuna arride agli audaci!...