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capitolo xxvi. - la catastrofe della «stella polare» 253


fibio, che non erano riusciti a caricare sulle biciclette, tanto era grosso.

I marinai, facendo uno sforzo disperato corsero in loro aiuto e trasportarono la selvaggina all’accampamento. Fu fatta subito a pezzi, mentre i velocipedisti accendevano la lampada mettendo a bollire gli ultimi avanzi della loro provvista di pemmican e l’ultimo pezzo di carne salata che ancora possedevano.

Ognuno può immaginarsi con quale avidità, i superstiti della Stella Polare, che da due giorni digiunavano, assalirono quei viveri. In un batter d’occhio sparvero, e i due velocipedisti si videro costretti a far cucinare il sangue della foca, il cuore ed il cervello per saziare la fame orribile che travagliava lo stomaco di quei miseri.

Linderman non fu dimenticato, ma Wilkye ed i suoi compagni dovettero ricorrere alla violenza per fargli inghiottire la sua razione. Il povero armatore si ostinava a trattarli come nemici ed aveva rifiutato recisamente quei soccorsi, malgrado le preghiere del suo rivale.

Quell’abbondante e sostanzioso pasto rianimò le forze esauste dell’equipaggio inglese e la sua energia. Malgrado che la sua situazione fosse ben poco cangiata, ormai cominciava a sperare di poter in breve raggiungere la costa.

Alla sera, continuando a imperversare l’uragano, Wilkye fece radunare le tende ed accendere, entro una pentola di ferro, un gran fuoco con stracci inzuppati nell’olio della foca, con grasso e con alcuni pezzi di legno strappati alla scialuppa.

Forse quella fu la prima notte di calma passata dall’equipaggio inglese dopo tante sofferenze patite, tante veglie e tanto freddo!

All’indomani Wilkye radunò tutti a consiglio; biso-