Adriano in Siria/Atto secondo

Atto secondo

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Atto primo Atto terzo

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ATTO SECONDO

SCENA I

Galleria negli appartamenti d’Adriano, corrispondente a diversi gabinetti.

Emirena ed Aquilio.

Aquilio. Chi protegger Farnaspe

può mai meglio di te? Del cor d’Augusto
tu reggi i moti a tuo talento. Ogni altra
miglior uso farebbe
dell’amor d’un monarca.
Emirena.   A me non giova,
perché non l’amo.
Aquilio.   È necessario amarlo,
perch’ei lo creda?
Emirena.   E ho da mentir?
Aquilio.   Neppure.
È la menzogna ormai
grossolano artifizio e mal sicuro.
La destrezza più scaltra è oprar di modo
ch’altri se stesso inganni. Un tuo sospiro
interrotto con arte, un tronco accento,
ch’abbia sensi diversi, un dolce sguardo,
che sembri tuo malgrado
nel suo furto sorpreso, un moto, un riso,
un silenzio, un rossor, quel che non dici
fará capir. Son facili gli amanti
a lusingarsi. Ei giurerá che l’ami;
e tu, quando vorrai,
sempre gli potrai dir: — Nol dissi mai. —

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Emirena. Non so dove s’apprenda

tal arte a porre in uso.
Aquilio.   Eh! che pur troppo
voi nascete maestre. Aver sul ciglio
lagrime ubbidienti, aver sul labbro
un riso che non passi
a’ confini del sen; quando vi piace,
impallidirvi ed arrossir nel viso,
invidiabili sono
privilegi del sesso: in dono a voi
gli ha dati il cielo, e costan tanto a noi.
Emirena. Tu, die in corte invecchiasti,
non dovresti invidiarne. Io giurerei
che fra’ pochi non sei, tenaci ancora
dell’antica onestá. Quando bisogna,
saprai sereno in volto
vezzeggiare un nemico, acciò vi cada;
aprirgli innanzi il precipizio, e poi
piangerne la caduta; offrirti a tutti,
e non esser che tuo; di false lodi
vestir le accuse, ed aggravar le colpe
nel farne la difesa; ognor dal trono
i buoni allontanar; d’ogni castigo
lasciar l’odio allo scettro, e d’ogni dono
il merito usurpar; tener nascosto
sotto un zelo apparente un empio fine;
né fabbricar che su l’altrui ruine.
Aquilio. Far volesti, Emirena,
le vendette del sesso. Io non credei
di pungerti cosí. De’ detti tuoi
non mi querelo; anzi, a parlar sincero.
credo ch’io dissi, e tu dicesti il vero.
Consigliarti pretesi.
Emirena. Aiuto e non consiglio io ti richiesi.
Aquilio. Ed io sempre ho creduto
che un salubre consiglio è grande aiuto.

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Credimi, principessa...

Addio: gente s’appressa.
Adriano sará, che s’avvicina. (parte)

SCENA II

Sabina ed Emirena.

Sabina. (Stelle! È qui la rival!)

Emirena.   (Numi! È Sabina!)
Sabina. Veramente tu sei,
piú di quel che credei,
ufficiosa e attenta. Estinto appena
è l’incendio notturno, e giá ti trovo
nelle stanze d’Augusto.
Emirena.   Oh Dio, Sabina,
che ingiustizia è la tua! L’amor d’Augusto
non è mia colpa, è pena mia. M’affanno
di Farnaspe al periglio: ecco qual cura
mi guida a queste soglie. Ho da vederlo
perir cosí senza parlarne? Alfine
Farnaspe è l’idol mio. Gli diedi il core:
e ha remoti principi il nostro amore.
Sabina. Parli da senno, o fingi?
Emirena.   Io fingerei,
se cosí non parlassi.
Sabina.   E non t’avvedi
che, parlando per lui, Cesare irríti?
Emirena. Ma non trovo altra via.
Sabina.   Quando tu voglia,
una miglior ve n’è. Da questa reggia
fuggi col tuo Farnaspe. È suo custode
Lentulo il duce. A’ miei maggiori ei deve
quantunque egli è: se ne rammenta, e posso
promettermi da lui d’un grato core
anche prove piú grandi.

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Emirena.   Ah, se potesse

riuscire il pensier!
Sabina.   Vanne: è sicuro.
A partir ti prepara. Al maggior fonte
de’ cesarei giardini
col tuo sposo verrò. Colá m’attendi
prima che ascenda a mezzo corso il sole.
Emirena. Ma verrai? Del destino
son tanto usata a tollerar lo sdegno...
Sabina. Ecco la destra mia: prendila in pegno.
Emirena. Ah! che a sí gran contento
è quest’anima angusta.
Oh me felice! oh generosa Augusta!
          Per te d’eterni allori
     germogli il suol romano:
     de’ numi il mondo adori
     il piú bel dono in te.
          E quell’augusta mano,
     che porgermi non sdegni,
     regga il destin de’ regni,
     la libertá dei re. (parte)

SCENA III

Sabina, poi Adriano, indi Aquilio.

Sabina. Chi sa! Quando lontana

Emirena sará, forse ritorno
fará ’l mio sposo al primo amor. Non dura
senz’ésca il fuoco, e inaridisce il fiume,
separato dal fonte onde partissi.
Adriano. Emirena, mio ben... (Numi, che dissi!) (vuol partire)
Sabina. Perché fuggi, Adriano? Un sol momento
non mi negar la tua presenza, e poi
torna al tuo ben, se vuoi.

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Adriano.   Come! Supponi...

Qual è dunque il mio bene?
Sabina.   Ah! non celarmi
quell’onesto rossor. Tu non sai quanto
grato mi sia. Non arrossisce in volto
chi non vede il suo fallo; e chi lo vede
è vicino all’emenda.
Adriano.   Oh Dio!
Sabina.   Sospiri?
Lascia me sospirar. Numi del cielo,
chi creduto l’avria! L’onor di Roma,
l’esempio degli eroi, la mia speranza,
Adriano incostante!
È possibile? E ver? Chi ti sedusse?
Parla, di’, come fu?
Adriano.   Che vuoi ch’io dica,
se tutto mi confonde? Ah! lascia queste
moderate querele.
Dimmi pure infedele,
chiamami traditor, sfògati. Io veggo
c’hai ragion d’insultarmi. I merti tuoi,
gli scambievoli affetti
le cento volte e cento
replicate promesse io mi rammento.
Ma che pro? Non son mio. Conosco, ammiro
la tua virtú, la tua bellezza, e pure...
sol ch’io vegga... Ah! Sabina, odio me stesso
per l’ingiustizia mia. So ch’è dovuta
una vendetta a te. Vuoi la mia morte?
Svenami: è giusto. Io non m’oppongo. Aspiri
a svellermi dal crin l’augusto alloro?
Lo depongo in tua man. Saria felice
suddito a sí gran donna il mondo intero.
Sabina. Ah! domando il tuo core e non l’impero.
Adriano. Era tuo questo cor. S’io lo difesi,
se a te volli serbarlo,

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il ciel lo sa. Ne chiamo

tutti, o Sabina, in testimonio i numi.
Le bellezze dell’Asia
eran vili per me. Freddo ogni sguardo,
a paragon de’ tuoi,
lunga stagion credei che fosse.
Sabina.   E poi?
Adriano. E poi... Non so. Di mia virtú sicuro,
trascurai le difese;
ed Amor mi sorprese. Ero nel campo,
pieno d’una vittoria
e caldo ancor de’ bellicosi sdegni,
quando condotta innanzi
mi fu Emirena. Ad un diverso affetto
è facile il passaggio,
quando è l’alma in tumulto. Io la mirai
carica di catene
domandarmi pietá, bagnar di pianto
questa man che stringea, fissarmi in volto
le supplici pupille
in atto cosí dolce... Ah! se in quell’atto
rimirata l’avesse a me vicina,
parrei degno di scusa anche a Sabina.
Sabina. Ah! questo è troppo. Abbandonar mi vuoi;
hai coraggio di dirlo; in faccia mia
ostenti la beltá, che mi contrasta
del tuo core il possesso: e non ti basta?
Pretenderesti ancora,
per non vederti afflitto,
ch’io facessi la scusa al tuo delitto?
E dove mai s’intese
tirannia piú crudele? Il premio è questo
che ho da te meritato?
Barbaro! mancator! spergiuro! ingrato!
  (s’abbandona sopra una sedia)
Aquilio. (Qui Sabina!) (in disparte)

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Adriano. (Io non posso

piú vederla penar. Troppo a quel pianto
mi sento intenerir.) Deh! ti consola,
bella Sabina. A’ lacci tuoi felici
tornerò: sarò tuo.
Aquilio.   (Stelle!)
Sabina. (guardandolo con tenerezza) Che dici?
Adriano. Che alla pietá giá cedo,
messaggiera d’Amore.
Sabina.   Ah! non lo credo.
Aquilio. (Qui bisogna un riparo.)
Sabina. S’Emirena una volta
torni a veder...
Adriano.   Non la vedrò.
Sabina.   Ma puoi
di te fidarti?
Adriano.   Ho risoluto, e tutto
si può quando si vuole.
Aquilio. (ad Adriano)  A’ piedi tuoi
l’afflitta prigioniera
inchinarsi desia. Non ti ritrova,
e lung’ora ti cerca.
Sabina.   (Ecco la prova.)
Adriano. No, Aquilio: io piú non deggio
Emirena veder. Tempo una volta
è pur ch’io mi rammenti
la mia fida Sabina.
Sabina.   (Oh cari accenti!)
Aquilio. È giustizia, è dover. Ma che domanda
la povera Emirena? A lei si niega
quel che a tutti è concesso? È serva, è vero;
ma pur nacque regina.
Adriano. Veramente, Sabina,
par crudeltá non ascoltarla.
Sabina. (si turba)  Oh Dio!
Adriano. L’udirò te presente:
che potresti temer? Resta, e vedrai...

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Sabina. Oh! questo no. Giá m’ingannasti assai. (s’alza)

          Assai m’ingannasti,
     ingrato! ti basti.
     Io stessa non voglio
     vedermi tradir.
          La fiamma novella
     scordarti non sai.
     T’aggiri, sospiri,
     cercando la vai:
     lontano da quella
     ti senti morir. (parte)

SCENA IV

Adriano e Aquilio.

Aquilio. La tua bella Emirena

volo a cercar. (in atto di partire)
Adriano.   No, ferma.
Aquilio.   E a lei potresti
tal giustizia negar?
Adriano.   No: ma per ora...
Non udisti Sabina? Amor mi sprona;
la ragion mi raffrena.
Vorrei... Ma... Oh dèi, che pena!
Aquilio. Spiégati alfin. Se non t’intendo, invano
m’affanno a consolar quel core oppresso.
Adriano. Spiegarmi! E come? Ah! non m’intendo io stesso.
  (parte)

SCENA V

Aquilio solo.

Tolleranza, o mio cor. La tua vittoria,

benché non sia lontana,
matura ancor non è. L’amor d’Augusto,

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gli sdegni di Sabina

combattono per noi. La pugna è accesa;
ma non convien precipitar l’impresa.
          Saggio guerriero antico
     mai non ferisce in fretta;
     esamina il nemico,
     il suo vantaggio aspetta,
     e gl’impeti dell’ira
     cauto frenando va.
          Muove la destra e il piede,
     finge, s’avanza e cede,
     fin che il momento arriva
     che vincitor lo fa. (parte)

SCENA VI

Deliziosa, per cui si passa a’ serragli di fiere.

Emirena, e poi Sabina e Farnaspe.

Emirena.   Che fa il mio bene?

     Perché non viene?
     Ogni momento
     mi sembra un dí.
Sabina. Ecco la sposa tua. (a Farnaspe)
Farnaspe.   Bella Emirena!
Emirena. Sei pur tu, caro prence? Il credo appena.
Farnaspe. Alfin, ben mio...
Sabina.   Di tenerezze adesso
tempo non è. Convien salvarsi. È quella
l’opportuna alla fuga,
non frequentata oscura via. L’amico
Lentulo a me la palesò. Non molto
lunge dal primo ingresso
si parte in due. Guida la destra al fiume,
la sinistra alla reggia. A voi conviene
evitar la seconda. Andate, amici,

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sicuri a’ vostri lidi:

la Fortuna vi scorga. Amor vi guidi.
Emirena. Pietosa Augusta!
Farnaspe.   Eccelsa donna, e come
render mercé...
Sabina.   Poco desio. Pensate
qualche volta a Sabina; e fra le vostre
felicitá, se pur vi torno in mente,
esiga il mio martíro
dalla vostra pietá qualche sospiro.
          Volga il ciel, felici amanti,
     sempre a voi benigni i rai,
     né provar vi faccia mai
     il destin della mia fé.
          Non invidio il vostro affetto;
     ma vorrei che in qualche petto
     la pietá, ch’io mostro a voi,
     si trovasse ancor per me. (parte)

SCENA VII

Emirena e Farnaspe.

Farnaspe. Ed è ver che sei mia? Ne temo, e quasi

parmi ancor di sognar.
Emirena.   Prence, fuggiamo,
se sognar non vogliamo.
  (s’incamminano verso la strada disegnata da Sabina)
Farnaspe. Ferma! (ad Emirena, arrestandola)
Emirena.   Perché?
Farnaspe.   Non odi
qualche strepito d’armi?
Emirena.   Odo, ma donde
non saprei dir.
Farnaspe.   Da quel cammino istesso
che tener noi dobbiamo.

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Emirena.   Aimè!

Farnaspe.   Non giova
l’avvilirsi, ben mio. Cèlati, intanto
che l’armi io scopro e la cagion di quelle.
Emirena. Che sará mai! Non mi tradite, o stelle.
(Emirena si nasconde molto indietro, vicino a’ cancelli del serraglio)

SCENA VIII

Osroa in abito romano con ispada nuda insanguinata, che esce dalla strada disegnata da Sabina: Farnaspe, e in disparte Emirena.

Osroa. Fra l’ombre adesso a raccontar l’altero

vada i trofei della sua Roma.
Farnaspe.   E dove
corri, signor, con queste spoglie?
Osroa.   Amico,
siam vendicati. È libera la terra
dal suo tiranno. Ecco il felice acciaro
che Adriano svenò.
Farnaspe.   Come!
Osroa.   Solea
di questa occulta via talor valersi
l’abborrito romano. Un suo seguace
mel palesò. Fra questi eroi del Tebro
l’oro ha trovato un traditore. Al varco,
travestito in tal guisa, io l’aspettai,
finché passò col servo, e lo svenai.
Farnaspe. Ma, del nemico invece,
potevi fra quell’ombre
l’altro ferir.
Osroa.   No: fu previsto il caso.
Finse cader, quando mi fu vicino,
il servo reo. Con questo segno espresso
Cesare espose, assicurò se stesso.

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Emirena. (Chi sará quel roman? Stringe un acciaro,

e sanguigno mi par. Potessi in volto
mirarlo almeno!)
Farnaspe.   Or che farem? Fuggendo
per la via che facesti, incontro andiamo
a mille, che concorsi
al tumulto saran. Sugli altri ingressi
veglian servi e custodi.
Osroa.   E ben! col ferro
ci apriremo la strada.
Farnaspe.   Al caso estremo
serbiam questo rimedio. Io voglio prima
ricercar se vi fosse
altra via di fuggir.
Emirena.   (Parlan sommesso:
intenderli non so.)
Farnaspe.   Fra quelle piante
nascoso attendi. Io tornerò di volo.
Osroa. Sollecito ritorna, o parto solo.
(Osroa si nasconde molto innanzi fra le piante del boschetto)
Farnaspe. Questo... No. Quel sentier... Ma s’io tentassi
il caramin che prescritto
da Sabina mi fu? D’Augusto il caso
forse ancor non è noto; e forse prima
ch’altri il sappia e v’accorra,
noi fuggiti sarem. Sí, questo eleggo.

SCENA IX

Farnaspe, Adriano con ispada nuda e séguito di guardie dalla strada suddetta. Osroa ed Emirena in disparte.

Adriano. Férmati, traditor. (incontrandosi in Farnaspe)

Farnaspe. (si ferma stupido) Numi, che veggo!
Adriano. Impedite ogni passo
alla fuga, o custodi. (alle guardie)

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Farnaspe.   Io son di sasso.

Emirena. (Ah, siam scoperti!) (s’avanza ad ascoltare)
Adriano.   Istupidisci, ingrato,
perché vivo mi vedi? A me credesti
di trafiggere il sen. L’empio disegno
con voci ingiuriose
nel ferir palesasti.
Emirena.   (Ecco l’errore.
Colui che si nascose è il traditore.)
Adriano. Perfido! non rispondi? A che venisti?
Qual disegno t’ha mosso?
Chi sciolse i lacci tuoi? Parla.
Farnaspe.   Non posso.
Adriano. Non puoi? Si tragga a forza
nel carcere piú nero il delinquente.
Emirena. Fermatevi! sentite! egli è innocente.
  (si scopre con impeto)
Farnaspe. Aimè!
Emirena.   Tra quelle fronde
il traditor s’asconde. Eccolo...
  (s’incammina verso Osroa)
Farnaspe.   Oh Dio!
Ferma!
Emirena.   Vedilo, Augusto. (accennando Osroa, che s’avanza)
Osroa.   È ver, son io.
Emirena. Ah, padre! (resta immobile)
Adriano.   Il re de’ parti
in abito romano! E quanti siete,
scellerati! a tradirmi?
Osroa.   Io solo, io solo
ho sete del tuo sangue. Il colpo errai;
ma, se mi lasci in vita,
il fallo emenderò.
Adriano.   Cosí fra l’ombre
assalirmi, infedel? Coglier l’istante
che inciampo e cado al suol?

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Osroa.   Barbara sorte!

Ecco l’inganno. Il tuo seguace ad arte
cader doveva, e tu cadesti a caso;
onde, confuso il segno,
l’un per l’altro svenai.
Adriano.   Questa mercede,
barbaro, tu mi rendi? Oppresso e vinto
t’invito, t’offerisco
di Roma l’amistá...
Osroa.   Sí, questo è il nome,
empi! con cui la tirannia chiamate;
ma poi servon gli amici, e voi regnate.
Adriano. Siam del giusto custodi. Al giusto serve
chi compagni ci vuol, non serve a noi:
ma la giustizia è tirannia per voi.
Osroa. E chi di lei vi fece
interpreti e custodi? Avete forse
ne’ celesti congressi
parte co’ numi? o siete i numi istessi?
Adriano. Se non siam numi, almeno
procuriam d’imitarli; e il suo costume
chi co’ numi conforma, agli altri è nume.
Osroa. Numi però voi siete
avidi dell’altrui; rapite i regni,
vaneggiate d’amor, volete oppressi
gl’innocenti rivali,
tradite le consorti...
Adriano.   Ah! troppo abusi
della mia sofferenza. Olá! ministri,
in carcere distinto alla lor pena
questi rei custodite.
Farnaspe.   Anche Eniirena?
Adriano. Sì, ancor l’ingrata.
Farnaspe.   Ah! che ingiustizia è questa?
Qual delitto a punir ritrovi in lei?

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Adriano.   Tutti nemici e rei.

     tutti tremar dovete:
     perfidi! lo sapete,
     e m’insultate ancor?
          Che barbaro governo
     fanno dell’alma mia
     sdegno, rimorso interno,
     amore e gelosia!
     Non ha piú furie Averno
     per lacerarmi il cor. (parte)

SCENA X

Osroa, Farnaspe, Emirena e guardie.

Emirena. Padre... Oh Dio! con qual fronte

posso padre chiamarti io che t’uccido?
Deh! se per me t’avanza...
Osroa. Parti, non assalir la mia costanza.
Emirena. Ah! mi scaccia a ragion. Perdono, o padre
eccomi ai piedi tuoi. (s’inginocchia)
Osroa.   Lasciami, o figlia:
no, sdegnato non sono:
t’abbraccio, ti perdono.
Addio, dell’alma mia parte piú cara.
Emirena. Oh addio funesto!
Farnaspe.   Oh divisione amara!
Emirena.   Quell’amplesso e quel perdono,
     quello sguardo e quel sospiro
     fa piú giusto il mio martíro,
     piú colpevole mi fa.
          Qual mi fosti e qual ti sono,
     chiaro intende il core afflitto,
     che misura il suo delitto
     dall’istessa tua pietá. (parte)

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SCENA XI

Osroa e Farnaspe.

Farnaspe. Almen tutto il mio sangue

a conservar bastasse
il mio re, la mia sposa.
Osroa.   Amico, assai
debole io fui. Non congiurar tu ancora
contro la mia fortezza. Abbia il nemico
il rossor di vedermi
maggior dell’ire sue. Nell’ultim’ora
cader mi vegga e mi paventi ancora.
          Leon piagato a morte
     sente mancar la vita,
     guarda la sua ferita,
     né s’avvilisce ancor.
          Cosí fra l’ire estreme
     rugge, minaccia e freme,
     che fa tremar morendo
     talvolta il cacciator. (parte)

SCENA XII

Farnaspe solo.

Con quai nodi tenaci avvinta a questa

miserabile spoglia è l’alma mia!
Come resisto a tanti
insoffribili affanni!
Ah! toglietemi il giorno, astri tiranni.

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          È falso il dir che uccida,

     se dura, un gran dolore,
     e che, se non si muore,
     sia facile a soffrir.
          Questa, ch’io provo, è pena
     che avanza — ogni costanza,
     che il viver m’avvelena
     e non mi fa morir. (parte)